Al di là delle belle parole anche del Presidente della Repubblica

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Al di là delle belle parole
anche del Presidente della Repubblica

Riflessioni
di Martina Viganò
don Giorgio De Capitani

Il nostro Presidente Sergio Mattarella la sera dell’ultimo dell’anno ha tenuto il tradizionale discorso in cui tra l’altro ha sottolineato più volte che
«è indispensabile fare spazio alla cultura della pace, alla mentalità della pace… Per conseguire pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi. Pace, nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni dell’altro. Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà».
Belle parole, indiscutibili, non fanno una piega. Ma… c’è un ma.
Ascoltandole, e poi rileggendole, ci è venuta istintiva una domanda: sì, belle parole, ma non rischiano di essere le solite parole, pur ineccepibili, destinate a scivolar via per finire nel dimenticatoio, o in quella banale prassi quotidiana che come una spugna succhia ogni valore eterno, che è la prova di quanto oggi si è lontani dagli ideali che volano sopra la testa di una massa tutta china ad adorare il proprio ego?
Non si ha l’impressione che, più si allarga il discorso colpevolizzando nazioni e il mondo intero, la gente individualmente rimanga nel suo piccolo orticello da proteggere ad ogni costo, l’uno contro l’altro armati? Anzi, si crea nella gente l’idea che in fondo in fondo tutti siano colpevoli, secondo il detto: male comune mezzo gaudio.
A partire dalla nostra realtà esistenziale, ogni giorno tocchiamo con mano barbarie di ogni genere, sempre più incombenti. Non vi è più educazione alla base, ovunque, quella educazione che riguarda il singolo prima che la massa, il cittadino prima che gli enti statali o sovra-statali.
E allora la necessità non è quella di partire dal piccolo? Quel “piccolo” che prima di tutto è ognuno di noi. Prima il singolo: la massa è già irrecuperabile, in quanto ha già annullato il singolo. Lo Stato senza i cittadini non esiste, e lo Stato va cambiato cambiando la testa dei cittadini. Ogni regime ha origine dal consenso popolare di cittadini che in quanto massa generano i populisti, e quindi i dittatori.
Certo, non è facile educare il singolo cittadino ad essere se stesso, ovvero a pensare con la propria testa. Qui il discorso si allarga e si fa complesso: oggi non esiste il singolo, ma l’individuo a se stante, che frammenta ogni concetto di quel bene comune che non è populismo.
I cittadini individui, fuori del loro sé interiore, perciò “alienati”, sono poi la causa di ogni male sociale: sono gli artefici e sono la vittima, ovvero sono gli artefici del loro male. Artefici in quanto alienati, e perciò, fuori del loro sé, in balìa della omologazione generale, sono la causa della loro disintegrazione.
Qui tornano le parole di sant’Agostino, il quale le ha prese da Plotino, il quale a sua volta le ha prese dallo stesso Platone: l’uomo “esteriore”, alienato, vegeta in una “regio dis-similitudinis”, ovvero della dis-somiglianza divina: in quel luogo (inteso non tanto in senso fisico) di dispersione, di frammentazione, che fa star male perché rompe quel tendere all’Uno, insito per natura in ogni essere umano.
E allora? Se non iniziamo a cambiare la nostra “mentalità”, il nostro modo di pensare (anche Cristo l’ha detto chiaramente: “Metanoèite!”, cambiate la vostra mente!) niente potrà mai cambiare se non in peggio.
Ciò che oggi condiziona l’uomo è quell’ego, che per sua natura è “diabolico”, ovvero “divide”, separa, stacca ogni essere umano dall’Uno divino.
L’apostolo Paolo ha scritto che Cristo è “la nostra pace”, ovvero ha riconciliato in sé l’uomo con Dio, togliendo in se stesso, in quanto pace, ogni muro di separazione. In Cristo, in quanto pace, ogni dissomiglianza, individuale e sociale, politica o religiosa, viene meno, viene tolta, sparisce.
Già qui capiamo quanto siano per lo meno discutibili parole sulla pace, discorsi sulla pace, manifestazioni per la pace, quando tutto resta all’esterno, nella “regio dissimilitudinis”, dove le parole perdono il loro senso più profondo.
Capiamo le difficoltà di un Presidente della Repubblica, che pur essendo profondamente cristiano, deve stare attento per non cadere nelle ire dei cosiddetti laicisti, cioè di coloro che, alienati, ritengono che tutto si risolva, pace compresa, all’esterno del proprio essere interiore, là dove lo spirito si unisce per natura allo Spirito divino.
Saremo anche giudicati poco rispettosi delle parole del Presidente, ma la nostra critica è per uscire da quel cerchio maledetto dove anche gli ideali più nobili, le parole più sublimi, gli inviti più doverosi solleticano i moscerini, ma non servono in una società che, come dice Platone, è quel “grosso animale”, che è solo corpo, carne, istinto, e i moscerini – ogni povero cristo – vengono scacciati dall’agitarsi di una lunga coda che spazza via anche lo Spirito santo.
05/01/2024
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