da www.avvenire.it
3 febbraio 2023
Il tema.
Autonomia:
cosa è, cosa prevede il disegno di legge
e i punti critici
Marco Iasevoli
L’iter, la spinosa questione dei Lep e le preoccupazioni sull’unità del Paese: il fragile cantiere avrà tempi lunghi e l’esito finale non è scontato
COSA È L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
L’autonomia differenziata è una possibilità di cui possono fruire le Regioni interessate in base all’articolo 116 della Costituzione, che prevede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 – le cosiddette materie a legislazione concorrente, sono 23 in tutto, ndr – e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n e s”. La Carta specifica che l’autonomia può essere attribuita a una Regione con legge dello Stato approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.
LE FUNZIONI CHE POSSONO ESSERE TRASFERITE
La Regione può chiedere che siano trasferite le funzioni ora esercitate dallo Stato su una o più di queste materie: giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
LA RICHIESTA FORMALE DI LOMBARDIA, VENETO ED EMILIA-ROMAGNA
Nel 2017 Lombardia e Veneto hanno tenuto un referendum in cui ha prevalso la proposta di chiedere l’autonomia differenziata allo Stato. Anche l’Emilia Romagna ha avanzato analoga proposta attraverso una delibera della Giunta regionale. Da allora, vari disegni di legge sull’autonomia differenziata sono state redatti dai governi di turno, ma nessuno è andato in porto.
I PUNTI-CHIAVE DEL DDL GOVERNATIVO
Il governo di centrodestra ha pre-approvato ieri, 2 febbraio, un disegno di legge promosso dal ministro leghista per gli Affari regionali, il leghista Roberto Calderoli. Il testo è stato sottoposto a varie correzioni da parte degli esponenti di governo di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Non si tratta ancora del disegno di legge definitivo, poiché il testo finale dovrà avere parere positivo della Conferenza Stato-Regioni. Solo allora potrà tornare in Consiglio dei ministri per il varo definitivo. Il ddl esaminato il 2 febbraio fissa il principio per cui prima vanno definiti i Lep – livelli essenziali delle prestazioni – validi per tutta l’Italia, poi si stipulano le intese con le Regioni (se esse riguardano anche materie soggette a Lep). Inoltre, indica i tempi e l’iter con cui deve essere approvata l’intesa tra lo Stato e la singola Regione. Inoltre si propone di rendere stabile il fondo di perequazione per i territori svantaggiati.
PRIMA I LEP, POI LE INTESE
L’accordo raggiunto il 2 febbraio in Consiglio dei ministri prevede che la definizione dei Lep avvenga attraverso una cabina di regia, il cui lavoro confluirà in vari Dpcm (Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri) sui quali il Parlamento potrà esprimere soltanto un parere non vincolante. Si tratta di un punto molto osteggiato dalle opposizioni, dai sindacati e da pezzi della società civile, perché il Parlamento risulterebbe estromesso dal processo che deve definire quale sia il livello essenziale delle prestazioni per tutti i cittadini italiani su temi cruciali come scuola e sanità. Tuttavia, in Consiglio dei ministri è stata aggiunta una norma importante: se dalla definizione dei Lep emergerà la necessità di destinare risorse economiche finalizzati appunto a raggiungere tale livello essenziale delle prestazioni, prima andranno varati i finanziamenti, poi si potrà procedere con le intese. Si tratta di un meccanismo che da un lato sembrerebbe prevenire fughe in avanti di Regioni già oggi avanti nel livello dei servizi offerti, dall’altro rappresenta un fattore di ulteriore rallentamento dei progetti autonomisti di alcune Regioni.
IL LUNGO ITER DELLE INTESE
Avendo scelto la strada del disegno di legge, i tempi dell’esame parlamentare sono indefiniti, senza “termine ultimo”. Per arrivare a un’intesa tra Stato e Regione occorreranno mesi se non anni. Intanto occorre attendere il ddl definitivo e l’esame – imprevedibile – delle Camere, che potranno apportare modifiche. Contestualmente, occorrerà attendere la definizione dei Lep, per i quali ci si è dati il tempo di un anno, entro fine 2023. Una volta approvato il ddl-quadro, e definiti i Lep, le Regioni potranno iniziare ad avanzare la loro richiesta di autonomia. La richiesta dovrà confluire in un’intesa Stato-Regione che poi andrà vagliata dalla Conferenza Stato-Regioni e dal Parlamento, che avrà 60 giorni per esprimere un parere d’indirizzo. Dopo tutti questi passaggi l’intesa tornerà in Cdm e sarà ritrasmessa alle Camere sotto forma di disegno di legge, che andrà approvato a maggioranza assoluta.
I NODI POLITICI
Il ddl autonomista nasce soprattutto per la spinta della Lega, mentre trova resistenze sia in Fratelli d’Italia sia in Forza Italia, che hanno un elettorato distribuito anche nel Centro-Sud. Per il Carroccio il pre-esame del ddl è stato un risultato da esibire in vista delle imminenti elezioni regionali in Lombardia, dove la Lega potrebbe subire un sorpasso da parte del partito di Giorgia Meloni. Allo stesso tempo, Fdi non vuole accelerare sull’autonomia se non vedrà passi avanti sul progetto di riforma costituzionale caro alla premier, quello presidenzialista, che non raccoglie entusiasmi invece nella Lega. Insomma, una partita doppia. E pesa, in questa circostanza, il fronte compatto delle opposizioni sul “no”: Terzo polo, Pd, M5s e sinistra-verdi stavolta parlano con una voce sola contro il ddl autonomista.
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03 Febbraio 2023
Autonomia, Nord contro Sud
di Huffpost Italia
Zaia esulta: “Un punto di partenza verso una rivoluzione”. Emiliano vede nero: “Così si torna allo Stato preunitario”
La bozza sull’Autonomia per il governatore del Veneto, Luca Zaia, è “l’inizio di una rivoluzione”. Per Michele Emiliano, governatore della Puglia, invece è “una sceneggiata per la Lega”. In due interviste sul Corriere della sera i due rappresentano i fronti opposti . “Questa resta una giornata storica ma non è assolutamente un punto d’arrivo. Piuttosto un punto di partenza verso una rivoluzione. Questo Paese ha deciso di cambiare pelle e scrivere una nuova pagina di storia con una riforma che sarà la più importante dal 1948 e che varrà ben più della modifica al Titolo V della Costituzione perché cambia il paradigma del sistema”, dice il governatore del Veneto. In merito alla contrarietà dei sindaci e dei governatori del Centro-Sud, Zaia afferma: “Il dibattito in corso è ragionevole. Chi si sente chiamato fuori dalla propria comfort zone fa fatica. Invece non è giustificabile – sottolinea – la polemica da chi ha ruoli istituzionali e molto spesso, senza aver letto le carte, dipinge questa scelta come una tragedia. Questa non è la secessione dei ricchi e tanto meno è un’operazione occulta per distruggere parte del Paese. Le Regioni, fra loro, da Nord a Sud, sono gemelli siamesi”. “Trovo riprovevole e non giustificabile – afferma Zaia – sentir dire che è una forma di secessione per spaccare l’Italia perché è come accusare il presidente della Repubblica di avallare operazioni secessioniste”. “Se fossi un governatore del Sud sarei in festa – conclude – perché, a processo ultimato, passerà un principio: più Stato dove serve e meno Stato dove non serve”.
Emiliano la pensa in un altro modo. “La sceneggiata degli applausi in Consiglio dei ministri dà l’impressione che avessero una fretta dannata per provare a far vincere a Fontana le elezioni in Lombardia e non far sfigurare la Lega. Da questa bozza, che peraltro favorisce la strada dell’intesa diretta con la singola Regione, può derivare solo una specie di ritorno allo Stato preunitario”, afferma il presidente della Regione Puglia. “Nessun presidente di Regione è contrario al conferimento di più poteri alle Regioni. Ma questo, premesso che non ci hanno consegnato ancora il provvedimento andato in Cdm, non è un disegno che dà più poteri alle Regioni, finanzia le materie conferite, assicura al parlamento protagonismo nel processo che innesca ed è coerente con una visione di ristrutturazione costituzionale del Paese. – continua Emiliano – Vedo due possibili approdi. Il primo: si attua davvero una forma di autonomia differenziata che favorisce le regioni ricche rispetto a quelle più povere. Disgrega l’unità nazionale e fa un danno enorme al Paese. Ma è uno scenario al quale io non credo: Giorgia Meloni, che ha portato al governo una destra con una cultura super centralistica, dopo 70 anni, davvero sta per dare più potere alle Regioni?”.
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03 Febbraio 2023
Il presidenzialismo che c’è già
di Pietro Salvatori
Nella riforma dell’Autonomia differenziata si dice che i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, possono essere definiti tramite dpcm, quelli che Meloni (e non solo) criticava quando servivano all’allora premier Conte per il lockdown del paese. Uno strumento in mano a Palazzo Chigi che ora torna in auge per una materia che non ha nemmeno i crismi dell’emergenza
Il primo passo verso il presidenzialismo è fatto, e incredibilmente è contenuto nel testo che segna il tassello iniziale del progetto di Autonomia differenziata sul quale insiste tanto la Lega. “Le due riforme devono andare di pari passo”, ha sempre sostenuto Giorgia Meloni, e con lei tutta Fratelli d’Italia, partito dalla tradizione assai più centralista di quella del Carroccio, una linea sulla quale ha convinto anche Silvio Berlusconi e Forza Italia, che del presidenzialismo ha sempre fatto un obiettivo dei suoi governi, sempre conclusosi in una bolla di sapone.
E insomma in quel testo si dice che i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, possono essere definiti tramite dpcm, un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri. Uno strumento tecnico per lungo tempo sconosciuto ai più, ma diventato improvvisamente celebre per il suo utilizzo nei convulsi giorni dell’esplosione della pandemia, quando Giuseppe Conte lo utilizzò abbondantemente per chiudere l’Italia, spiegando che era il modo più celere di dare risposte immediate a una situazione di totale emergenza.
Era la stessa Meloni a tuonare contro lo strumento a cui faceva ricorso il suo predecessore: “Noi vogliamo che su ogni singola proposta e sulle decisioni da prendere il Parlamento possa votare e ciascun parlamentare, di maggioranza e di opposizione, ci metta la faccia”, tuonava nell’ottobre del 2020. E ancora: “Siamo rappresentanti del popolo e non ci si nasconde dietro il diktat di partito né chiudendo il Parlamento”.
Curioso che dello stesso strumento la premier oggi faccia ricorso per una materia che non ha nemmeno i crismi dell’emergenza. Il giurista Alfonso Celotto si chiedeva ieri su queste colonne: “Qual è il criterio minimo per ognuno Lep? Faccio un esempio: quanti asili nido ci devono essere, con che tipo di accessibilità, con quali finanziamenti? Si prenda ognuno di questi temi e poi bisogna rispondere: quanto costano? E chi mette i soldi? E come non creare difformità e sperequazioni sul territorio nazionale?”.
Insomma, temi di non poco conto, che avranno una profonda incidenza – in meglio o in peggio si vedrà – sulla vita concreta dei cittadini delle Regioni che richiederanno maggiori spazi di autonomia, e che saranno avocati alla disponibilità di una decisione di Palazzo Chigi, senza dover necessariamente passare dal Parlamento. Saranno una sorta di “decreti attuativi” di una riforma costituzionale che da vent’anni nessuno applica, e si capisce bene che non siamo nell’alveo di una disposizione tecnico-burocratica, ma di provvedimenti che applicheranno disposizioni derivanti direttamente dalla Carta fondamentale della Repubblica e che avranno un impatto non indifferente sulla struttura stessa del nostro paese.
“È una scelta politica nelle facoltà del presidente del Consiglio. Da giurista osservo che sarebbe più proprio farlo con atto legislativo”, il giudizio di Celotto. Insomma la prima pillola di presidenzialismo di una premier che ha dimostrato di voler avocare a sé tutti i dossier più spinosi e tutte le decisioni cruciali del suo governo. Politicamente legittimo, ma il salto di qualità se la decisione dovesse essere confermata è innegabile.
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