da www.repubblica.it
05 LUGLIO 2024
Enrico Letta:
“In Gran Bretagna sconfitto
chi vuole soltanto distruggere.
La sinistra in Italia trovi la sua strada”
di Stefano Cappellini
Intervista all’ex premier che oggi guida l’Istituto Jaques Delors: “La Brexit fu una gigantesca cavolata. Gli elettori inglesi hanno fatto finalmente mea culpa”
Enrico Letta risponde al telefono da un aeroporto. È appena stato in Portogallo per una iniziativa dell’Istituto Jacques Delors, che presiede. L’Europa e l’europeismo sono per lui un credo quasi religioso, non può stupire che consideri il risultato delle elezioni politiche in Gran Bretagna un balsamo su una ferita comunque insanabile: la Brexit. “Il voto di oggi – dice a Repubblica – punisce i responsabili di quella che fu una gigantesca cavolata che abbiamo pagato tutti. Gli inglesi, noi europei, la comunità internazionale. Non a caso la vittoria di Donald Trump arrivò pochi mesi dopo il voto sulla uscita della Gran Bretagna dalla Ue”.
Letta, il dubbio è questo: l’esito di queste elezioni inglesi è figlio di fattori e vicende nazionali o dice anche al resto dell’Europa che l’avanzata delle destre non è ineluttabile?
“Come la Brexit ha anticipato una tendenza mondiale, quella della distruzione, io spero che la vittoria di Keir Starmer sia l’anticipo di una nuova tendenza alla costruzione. Penso che gli elettori inglesi abbiano fatto mea culpa e abbiano voluto chiudere così otto anni di autodistruzione”.
I successi di Le Pen in Francia, in attesa del responso dei ballottaggi, non autorizzano a essere ottimisti sul declino del populismo più aggressivo e antieuropeista.
“Vedremo come andrà il voto francese. La vittoria dei laburisti è una bella indicazione per tutti. Dice appunto che, per tornare a costruire, non è necessario passare dalla distruzione. Non dimentichiamo che il vero motore della Brexit fu l’immigrazione. E com’è ora su questo tema la situazione in Gran Bretagna? Molto peggio di prima”.
Anche ai francesi servirà passare dagli effetti di un governo lepenista prima di fare mea culpa?
“Mi pare ci siano molte differenze tra quello che è accaduto negli ultimi anni in Inghilterra e ciò che sta accadendo in Francia. Il lepenismo è un’onda lunga che viene da molto lontano e che ora è arrivata al redde rationem, cresciuta su problemi che non hanno avuto alcuna possibilità di sfogo. E quando i problemi non si affrontano, prima o poi le cose esplodono”.
La sorprendono le dimensioni della sconfitta dei Conservatori?
“Per nulla. Se quella subita dai Tories è la più pesante sanzione della storia democratica britannica, è perché la sanzione è proporzionata al disastro provocato. Un’intera classe dirigente è stata spazzata via. La Brexit è stata la causa di tutti i mali, ha avuto una capacità pazzesca di influenza. Ha indicato una via a tutti gli aspiranti distruttori sparsi nel mondo e, ciò che è peggio, ha mistificato l’esercizio della democrazia”.
In che senso? Uscire dalla Ue fu comunque una scelta degli elettori britannici.
“Non è stata una scelta pienamente democratica. Si trattava di un referendum consultivo e la parola Brexit, in sé, non voleva dire niente. Uscire da cosa? C’erano decine di possibili traduzioni concrete. La Norvegia, per esempio, non è nella Ue ma sta nel mercato unico europeo. Usare il referendum, passato peraltro a voto strettissimo, per portare la Gran Bretagna fuori da tutto è stata una forzatura politica”.
All’epoca anche un pezzo importante della destra italiana, compresi Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cullava la suggestione di un’uscita dall’Europa o almeno dall’euro.
“Certo, non dimentico che, sull’onda di quel referendum, nacquero anche i movimenti Italexit, Frexit e via dicendo. Il brand, è inutile negarlo, funzionava, ma quando la democrazia si fa portare via il mestiere dalla comunicazione, è la fine della politica. Nel mio Rapporto sul mercato unico europeo, indico nella Brexit anche la causa principale della mancata integrazione dei mercati. Ha tolto di mezzo la capitale finanziaria del continente, la parte che avrebbe potuto trainare il processo. Gli unici a godere di questo suicidio sono stati i cinesi e Wall Street, che negli ultimi dieci anni è diventata immensamente più potente grazie al tracollo della finanza europea”.
Deluso dal fatto che Starmer abbia escluso un ritorno nella Ue?
“Non penso che ci possa essere un nuovo ingresso. Non è fattibile, troppo complicato, tornare indietro non si può. Resta invece aperto il discorso su come rilanciare alcuni dossier. Si parta dalla Difesa per riaprire un ragionamento comune. Che la Ue e il Regno unito si debbano guardare in cagnesco, come se Londra fosse una capitale nemica, è una cosa assurda. Questo è anche un interesse italiano fortissimo, vista la lunga storia di collaborazione nell’industria della difesa”.
L’importanza delle tornate elettorali internazionali di questi mesi può rilanciare il valore della democrazia minato da disaffezione e astensionismo?
“Ero a Parigi quando ci fu la Brexit e avevo tanti studenti inglesi, molti piangevano sia per il risultato sia perché non erano tornati a votare. Non avevano colto che quel voto avrebbe potuto determinare i loro stessi destini. La sacralità del voto, in queste circostanze, risalta ancora di più”.
Arriva da Londra una lezione anche per la sinistra italiana alle prese con le sue annose divisioni e gli infiniti dibattiti tra svolta a sinistra e corsa al centro?
“Alt. Fermiamo subito la tentazione stucchevole di usare pure queste elezioni per aprire un dibattito sul modello Starmer, che prenderebbe il posto del modello Tsipras, che aveva preso il posto del modello Zapatero, e del modello Blair e di un’altra mezza dozzina di modelli presi in prestito sull’onda elettorale del momento. Questa è una vittoria dei laburisti inglesi. Non mi infilo neanche per idea in un tipo di dibattito che ha già fatto fin troppi danni. Diciamo che è ora che la sinistra italiana pensi a sé stessa e a trovare da sola una propria strada, come sta facendo”.
Jeremy Corbyn, il predecessore di Starmer che aveva spostato molto a sinistra il Labour e perse rovinosamente le elezioni, è stato considerato un faro da molti in Italia.
“Corbyn porta la grande responabilità di essersi posizionato a favore della Brexit, senza alcuna forma di intelligenza nell’approccio alla questione. La sua gestione, da questo punto di vista, è stata un disastro totale”.
Resta il tema delle sbandate populiste o rossobrune di pezzi di sinistra, o presunta tale, e di come conciliare politicamente ed elettoralmente le due sinistre che convivono, spesso litigando, in molti Paesi europei.
“Un tema che non è nuovo. Francois Mitterand e Romano Prodi facevano il pieno di voti anche a sinistra perché riuscivano a incanalare tutto e tutti dentro pulsioni costruttive”.
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da www.repubblica.it
05 LUGLIO 2024
Keir Starmer, il magistrato figlio di operai
che vuole rifare grande il Labour
di Enrico Franceschini
Keir Starmer con la moglie Victoria (fotogramma)
È contrario alla Brexit ma non tornerà nell’Ue. Aveva promesso di unire le diverse anime del partito, poi ha emarginato i Corbyniani: ritratto del nuovo premier britannico
LONDRA — E così, mentre in Europa tira un vento di destra, il Regno Unito vira a sinistra, con nei panni di timoniere un laburista di 61 anni, ex-avvocato dei diritti umani, ex-procuratore capo d’Inghilterra e Galles, gran tifoso dell’Arsenal, piuttosto bravo a calcetto nelle partitelle settimanali 5 contro 5 insieme agli amici.
Come ha fatto Keir Starmer a diventare primo ministro, facendo cambiare rotta al proprio Paese, dopo 14 anni di governi conservatori? Chi è davvero questo sir, titolo ottenuto per il lavoro di magistrato, figlio di un operaio e di un’infermiera, primo della sua famiglia a laurearsi? E chi è Victoria, detta Vic dal marito, avvocata 50enne di religione ebraica, decisa a difendere la privacy propria e dei loro due bambini anche dopo il trasferimento a Downing Street, perciò già ribattezzata “la first-lady riluttante”?
Orgoglioso di provenire dalla classe operaia, Starmer ha ricordato recentemente che, per arrivare alla fine del mese, a un certo punto i genitori furono costretti a rinunciare al telefono. La voglia di eccellere nasce da lì, al punto che, se non ci riesce, preferisce lasciare perdere: da ragazzo smette di andare a lezione di flauto, quando si rende conto dei propri limiti. Si iscrive al Labour a 16 anni. Laurea in legge a Leeds, master a Oxford, brillante carriera come barrister, avvocato d’alto rango, occupandosi di diritti umani, quindi addirittura King’s Counsel, Consigliere del Re, top della professione forense, infine la nomina a procuratore generale. Dando la caccia a terroristi e narcos si accorge di poter eccellere anche in politica, nel 2015 è eletto deputato, nel 2019 vince con facilità le primarie del partito per la successione a Jeremy Corbyn, travolto alle urne da Boris Johnson.
Di Corbyn, Keir era stato uno stretto collaboratore, eppure adesso rivela: «Sapevo che avrebbe perso». Presone il posto, all’inizio dice che unirà nostalgici del blairismo e corbyniani di ferro, ma la peggiore sconfitta sofferta dai laburisti in quasi un secolo lo induce a rompere con il radicalismo del predecessore, imboccando senza tentennamenti una strada che somiglia alla Terza Via di Blair: non ha certo il carisma di Tony, ma la determinazione è quella. Ripulisce il partito dai sentimenti antiamericani, anticapitalisti e antisemiti cresciuti all’ombra di Corbyn. Musulmani britannici e giovani socialisti lo accusano di non criticare abbastanza Israele nella guerra di Gaza, ma in effetti è sulle medesime posizioni di Usa e Ue: condanna i massacri di Hamas, appoggia uno Stato palestinese, si dice pronto ad accettare i verdetti della Corte Internazionale dell’Aia, che accusa il premier israeliano Netanyahu di crimini contro l’umanità.
Sulla guerra in Ucraina sostiene Kiev, senza se e senza ma. Della Brexit, a cui si opponeva con più veemenza dell’euroscettico Corbyn, predice che nel corso della sua vita difficilmente il Regno Unito tornerà nell’Unione Europea, ma promette di migliorare i rapporti con Bruxelles. Eredita dal premier uscente Sunak una situazione economica disastrosa, ma si impegna a ridare «una ragionevole speranza» alla gente.
“Change”, cambiare, è stato lo slogan, semplice e conciso, della sua campagna elettorale, adottato anche dal Sun, il tabloid di destra di Rupert Murdoch, nell’editoriale con cui gli ha dato l’endorsement, come fece a sorpresa anche con Blair nel 1997. Concorda il Financial Times: «Il Regno Unito ha bisogno di una svolta». E la svolta è arrivata.
Di padre ebreo emigrato dalla Polonia e madre inglese convertita all’ebraismo, la moglie Victoria ricorda ancora cosa pensò al primo incontro con Starmer: «Chi cavolo crede di essere, questo qui?». Dopodiché, sbocciò un grande amore. La sua influenza su Keir non deve essere piccola, se lo ha convinto a scegliere anche per i figli la fede ebraica; e se lui dice di voler passare il venerdì sera in famiglia anche da capo del governo, per celebrare insieme l’inizio dello Shabbat (desiderio strumentalizzato dai conservatori per definirlo un lavativo, quando in realtà è uno stakanovista).
Come vuole la tradizione, al tramonto di ogni venerdì ci saranno dunque candele accese alle finestre della loro nuova residenza, a Downing Street. Ma la luce che Starmer ha diffuso con la sua vittoria a valanga risplende fin oltre il canale della Manica, come un possibile modello da seguire: la prova che la sinistra può vincere, anche in questi tempi in cui sull’Europa soffia il vento populista della destra. Sir Keir, il timoniere britannico, ci è riuscito andando a pescare voti pure nel terreno avversario, perlomeno al centro dell’elettorato, e costruendo un campo largo, anzi larghissimo.
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da www.articolo21.org
Change is possible
Barbara Scaramucci
5 Luglio 2024
Non facciamo caso alla freddezza dei nostri commentatori, alla quasi generale indifferenza dei politici, al totale disinteresse degli italiani. In Gran Bretagna (o Inghilterra, o Regno Unito) è accaduta una grande rivoluzione democratica e silenziosa alla quale dovremmo guardare con molta attenzione.
Trovo molto rivoluzionario che il neo premier dall’aspetto impiegatizio e poco apprezzato dalla stampa, Keir Starmer, abbia per prima cosa detto “dobbiamo riportare la Gran Bretagna al servizio dei lavoratori”. E vi sembra poco? E oi ha proseguito: la politica al servizio del pubblico.
Sapere che, dopo 14 orribili anni in cui gli amici inglesi hanno voluto la Brexit, si sono impoveriti, non hanno neppure più la più grande regina dell’epoca moderna, finalmente decidono di riprovare ad essere quel paese che ha insegnato il welfare e prima ancora le regole della democrazia al mondo lo trovo confortante. Ed anche di lezione ai paesi europei.
Il successo di Starmer è certo figlio degli errori dei conservatori nel corso di questi anni. Pensate alla gestione inglese del Covid. Quando Boris Johnson, trattato in Italia da simpatico guascone e nella realtà uno dei politici peggiori sulla scena internazionale, disse agli esterrefatti inglesi che dovevano dire addio ai propri genitori e accettare che morissero. Ricordiamolo per favore, in questo nostro paese dove la destra si permette di montare un processo parlamentare contro chi ha avuto il coraggio di chiudere il paese, limitare il numero dei morti, salvare vite e dare un esempio al mondo occidentale che ancora non era stato colpito da quella tragedia. È uno dei punti a sfavore dei conservatori che molto ha pesato sull’evoluzione degli ultimi anni. Starmer ha una squadra forte proprio per i temi sociali ed è probabile che nei primi mesi del governo laburista assisteremo a una maggiore disponibilità a spendere per la sanità, l’istruzione e la transizione energetica rispetto alle strategie improntate a grande prudenza annunciate durante la campagna elettorale. Per vincere, Starmer ha avuto bisogno di giocare sul sicuro. Adesso lui e la sua squadra vorranno apparire più audaci.
Non rivedremo facilmente la Gran Bretagna rientrare nell’Unione Europea, questo è vero, ma in un anno al massimo sarei pronta a scommettere che saranno ripristinate tutte le agevolazioni e gli accordi per gli scambi e la permanenza degli stranieri e sarà progressivamente modificata la politica sull’immigrazione e cancellato l’immorale progetto Rwanda. Certo, la posizione sull’Ucraina non cambierà, ma forse una maggiore pressione su Israele per costituire i due stati e fermare il massacro di Gaza ci sarà. Questo nuovo inquilino di Downing Street è figlio di un operaio e di una infermiera del sistema sanitario britannico, ha fatto il magistrato e l’avvocato di diritti umani, parla piano e lo definiscono uomo di “soft left” ma ha unito tutti sotto le bandiere del partito laburista, Mentre dai paesi europei arrivano segnali in controtendenza, il trionfo laburista inglese deve aprire il cuore ai tifosi della democrazia, anche perché in quel paese è nata quella moderna e da quel paese è stata esportata. E voglio sognare di poter fare di nuovo, in vecchiaia, la campagna “keep Britain in Europe” del 1975.
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