Omelie 2021 di don Giorgio: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

5 settembre 2021: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 29,13-21; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
Che cosa mi dovrei dire?
Dopo aver ascoltato la lettura dei tre brani della Messa, che cosa vi dovrei dire?
Anzitutto, la domanda dovrebbe essere quest’altra: che cosa mi dovrei dire?
La cosa peggiore di noi preti è di pensare a che cosa dovrebbero fare gli altri, senza prima immergerci in quell’esame di coscienza che metta in causa il nostro essere: un esame di coscienza che non è un elenco di precetti osservati o non osservati o da osservare.
Nel primo brano si parla di “imparaticcio di precetti umani”. Che cos’è un imparaticcio? Insieme di nozioni apprese in modo superficiale e frettoloso e quindi insufficienti e prive di validità e di efficacia.
Il nostro esame di coscienza dovrebbe riguardare anzitutto le meraviglie di Dio, davanti a cui perirà “la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti”.
Dunque, mi dovrei confrontare con il mio sapere, e noi preti abbiamo troppo in abbondanza un sapere umano di Dio, tanto umano da far prevalere una sapienza e una intelligenza che attingono a una teologia satura di un divino coperto di tale carnalità da essere quell’idolo, fustigato già dagli antichi profeti dell’Antico Testamento.
“Imparaticcio di precetti umani”! Tutto all’insegna di qualcosa che proviene dall’esterno, da una religione carnale.
Qui sta il dramma di sempre! Preti, ovvero ministri di una religione carnale!
Dio parla di meraviglie, e dove sono le meraviglie divine? Nella Natura? Certamente! Ma siamo ancora nella carnalità di un Creato, che è sì immagine della Bellezza divina, ma a sua volta emanazione di quel Sommo Bene, da cui origina tutto ciò che sa di Divino.
Difficilmente poi le meraviglie divine le troviamo in una struttura religiosa, che impone le sue regole per stabilire quando e come cogliere il Bene Assoluto, il quale, non avendo alcuna regola, si sente come represso in una struttura di dogmi, e di paletti restrittivi.
Le meraviglie divine suscitano la nostra meraviglia, ovvero quello stupore per cui, via i paletti e i dogmi, ci si sente immersi in un Mistero che allarga i confini del nostro essere, che è partecipazione dell’Essere divino.
“Lui deve crescere, e io diminuire”
E allora mi chiedo: qual è il significato delle parole di Giovanni Battista: “Lui deve crescere, e io diminuire”.
Già dire “lui” è forse una contestazione di Giovanni il Battista nei confronti dei suoi discepoli, che neppure nominano Gesù con il suo nome quasi non lo conoscessero o lo disprezzassero. “Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano…”.
È il solito vizio dei gruppi che conoscono molto bene, magari lo adorano, il nome del loro leader, dimenticando il nome per il quale il leader dovrebbe essere un umile testimone.
E allora ci si qualifica come seguaci del tal guru, nome e cognome, il quale agisce in nome di se stesso.
“Colui che… lui…”, e così Cristo cade in un anonimato tale da chiedermi: Non basterebbe che ci qualificassimo semplicemente come cristiani?
No, dobbiamo identificarci come ciellini, come focolarini, come opus dei, come rinnovamento nello spirito ecc. ecc.
Dovrei dire: “Sono cristiano”, e basta! “Sono di Cristo”, e basta!
E neppure sono del Gesù di Nazaret, perché il Gesù di Nazaret è morto definitivamente sulla croce.
“Sono del Cristo risorto”, o del Cristo della fede, o del Cristo mistico.
Ed è davanti al Cristo risorto che devo diminuire. Che significa? Significa semplicemente che devo disincarnarmi da ogni sapere, da ogni potere e da ogni avere. A diminuire è tutto ciò che è carnalità: solo così il mio essere aumenterà come essere, come spirito nello Spirito divino.
Pensate a ciò che succede in questo mondo: tutto un ingigantirsi di quanto è carnale. Ecco il “grosso animale” di cui parlava Platone, quella gigantesca bestiale struttura socio-politica e religiosa che non dà scampo agli spiriti liberi.
Dunque, un “grosso animale” che soffoca ogni alito di vita: lo spirito, l’essere, il divino.
Giovanni il Battista confessa: “Lui, cioè il Cristo risorto, deve crescere, io carnale devo diminuire”.
L’io che compare sempre, anche quando parliamo. “Io… io… io…”.
Santa Caterina da Genova faceva di tutto per evitare di dire “io”, ricorreva a un giro di parole. Le lingue classiche (greco e latino) non conoscevano i pronomi personali (io, noi) a differenza dell’italiano e soprattutto della lingua francese.
Anche la lingua fa scuola, educa a quel senso di egoismo (io, noi), che, nel nostro modo di esprimerci, diventa una continua ossessiva accentuazione. L’io precede il tu, e pensare che una volta ci insegnavano a invertire facendo precedere il tu.
Io… e così il dialogo si fa monologo. È il mio io che parla, che impone.
Forse è già sbagliato tradurre a proposito di Dio: “Io sono”. Basterebbe dire: “Sono!”.
Dio è Tutto, e nel Tutto scompare ogni io.
Dio è Trinità, e nella Trinità ogni io è relazione: tre nell’Uno!
La lingua talora ci costringe a dire “Io sono”, ma forse bisognerebbe trovare il modo di togliere l’io per dare più assolutezza a Dio.
Assolutezza, e questa parola dovrebbe farci capire che noi siamo solo relativi: relativi all’Assoluto che è Dio. E poi penserà Dio a renderci simili a Lui.
Pensate alla parola “precario”, che deriva da “prex”, ovvero preghiera. Siamo precari, ovvero gente che prega l’Assoluto.
E succede che, sentendoci precari, supplichiamo qualche potente perché ci aiuti, dimenticando che, mentre Dio non ci toglie la libertà e la nostra autonomia interiore, il potente di questo mondo ci rende suoi schiavi.
Il nostro diminuirci non comporta alcuna umiliazione o inferiorità, ma, al contrario, più diminuiamo, più il nostro essere guadagna in grandezza.
L’io si perde in Dio. Come si fa in fretta a togliere a Dio la d iniziale, così possiamo sempre mettere una d davanti all’io, e ci sentiremo radicalmente trasformati.

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