Posso dire la mia? Non pensavo che i francesi fossero così retrogradi…
Che concetto di laicità hanno in testa? Che significa laicità?
Mi pare che come al solito questi francesi siano ancora malati di un nazionalismo culturale ripristinato dagli stessi artefici della rivoluzione (francese) restaurando la ghigliottina.
E allora le suore che cosa dovrebbero fare? E i preti… se dovessero frequentare scuole pubbliche?
NOTABENE
Prendetela come battuta. Queste donne musulmane così vestite sono veramente belle!
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da www.huffingtonpost.it
28 Agosto 2023
Massimo Cacciari:
“Altro che laicità. La Francia vieta l’abaya a scuola
perché ritiene superiore la propria cultura”
di Adalgisa Marrocco
Il filosofo a Huffpost: “È una malattia antica, tipica dell’Europa centrale, che rappresenta quanto di meno scientifico e di più antistorico possa esistere. Integrazione non vuol dire ‘tu devi diventare uguale a me'”
Professor Cacciari, alle studentesse francesi sarà vietato di portare l’abaya, una tunica ampia indossata dalle donne musulmane. Ad annunciarlo è stato il ministro all’Istruzione di Parigi, Gabriel Attal, chiedendo di fare “fronte” contro gli attacchi alla laicità, a partire dalla scuola. Che ne pensa?
Siamo alle solite. Un atteggiamento autenticamente laico implica l’accettazione delle usanze, delle tradizioni e della cultura altrui: è un aspetto tanto basilare da sfiorare l’ovvietà. Ciò che accade in Francia, invece, segnala un atteggiamento laicistico basato sull’idea che la propria cultura sia superiore, creando una gerarchia di valore che vuole imporre alle altre culture di adeguarsi alla propria, in un modo o nell’altro. È una malattia antica, tipica dell’Europa centrale, che rappresenta quanto di meno scientifico e di più antistorico possa esistere.
Miopia culturale, quindi?
Le società stanno diventando sempre più interculturali, è inevitabile. Nell’Illuminismo, l’idea di tolleranza era declinata in maniera più nobile, implicava una simpatia autentica tra culture e civiltà. Ma oggi prevale una versione distorta di questa idea, in cui io mi sforzo di tollerare te perché ti ritengo un bambino che deve essere ancora educato.
Peraltro, al centro della polemica francese c’è un indumento che – secondo più voci – non sarebbe direttamente legato al culto musulmano, ma a una specifica tradizione culturale…
Se anche si trattasse di un abito religioso, non dovrebbe essere lo Stato a prescriverne il divieto. Se qualcuno decidesse di andare a scuola – in una scuola pubblica – vestito da prete, nessuno potrebbe vietarlo tranne la gerarchia ecclesiastica. Lo Stato può dirmi che non posso andare in giro vestito da militare, da ufficiale, da carabiniere, ma non può entrare nel merito di altre questioni.
Cosa significa essere davvero laici in un mondo interculturale?
Significa comprendere che siamo immersi in un processo inarrestabile e che le influenze reciproche sono sempre state presenti nel corso della Storia. Nel mondo di oggi, le interazioni si verificano con una velocità ancora più sconvolgente, dando vita a un cambiamento profondo, e spesso destabilizzante. Dovremmo affrontare tali sfide con spirito critico, riconoscendo i pericoli, i problemi di integrazione, di acculturazione e di dialogo che possono sorgere. La vera laicità implica la capacità di valutare in modo obiettivo qualsiasi punto di vista, rispettando le diverse posizioni. Un atteggiamento come quello francese, invece, esaspera le contraddizioni e impedisce l’effettivo dialogo, rendendo tutto più drammatico di quanto non sia. La Storia insegna che i periodi di grande trasformazione, se non gestiti con razionalità, possono dar vita anche a immense tragedie. Integrazione, in definitiva, non può voler dire “tu devi diventare uguale a me”.
Il dibattito sulla laicità, sulla religione e sui simboli religiosi a scuola torna ciclicamente anche in Italia. Che fare?
È una questione diversa rispetto a quella degli abiti, e riguarda la contaminazione tra religione e politica nel senso più ampio del termine. Nelle nostre scuole e in altre istituzioni pubbliche, alcuni simboli religiosi rappresentano ancora un riflesso del Concordato: dovrebbe essere la Chiesa stessa a chiedere di non esporli. Detto ciò, è vero che il nostro Paese ha una radicata tradizione cattolica e, se appartenessi a un’altra religione ma fossi animato da idee autenticamente laiche, cercherei di comprenderlo senza sollevare problemi.
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28 Agosto 2023
La Francia vieta l’abaya
nelle scuole “santuari di laicità”.
Ma la scelta divide:
è un abito tradizionale o religioso?
di Adalgisa Marrocco
Il ministero dell’Istruzione di Parigi prende posizione, ma secondo gli esperti la tradizionale tunica indossata dalle donne musulmane ha un significato più ambivalente rispetto al velo islamico. E il dibattito si accende
L’abaya, la tradizionale tunica indossata dalle donne musulmane, sarà vietata nelle scuole francesi. L’annuncio è arrivato dal ministro dell’Istruzione del governo di Parigi, Gabriel Attal, dopo mesi di discussioni sul tema. La misura, che sta già creando polemiche, riaccende i riflettori sulla legge sulla laicità nelle scuole, in vigore in Francia dal 2004, che proibisce l’ostentazione di simboli e abiti all’interno degli istituti di istruzione primaria e secondaria, e si applica a tutte le fedi religiose. Si specifica, tuttavia, che il divieto “non pregiudica il diritto degli studenti a indossare simboli religiosi discreti”, il che lascia ampio spazio a interpretazioni.
In particolare, l’abaya (insieme al qamis e ad altre lunghe gonne indossate sopra gli abiti) si trova in una “zona grigia”: determinare se questi indumenti molto ampi e avvolgenti siano simboli religiosi o parte di una precisa tradizione culturale può risultare complesso, anche per gli esperti. Secondo Haoues Seniguer, professore a Sciences Po-Lyon e autore di numerose opere sull’islam di Francia, l’abaya ha un significato più ambivalente rispetto al velo islamico. La medesima complessità di interpretazione è stata evidenziata anche dagli istituti scolastici, che a più riprese hanno chiesto lumi alla politica. Soltanto nel novembre 2022, l’ex ministro dell’Istruzione, Pap Ndiaye, ha emesso una circolare per cercare di rispondere ai dubbi dei presidi, concedendo loro il margine per decidere se vietare questi abiti, qualora fossero stati ritenuti manifestazioni di appartenenza religiosa. “Non vogliamo essere arbitri di un’incertezza”, aveva però replicato Didier Georges, segretario del sindacato dei dirigenti scolastici francesi.
L’annuncio del ministro dell’Istruzione apre un nuovo capitolo del dibattito. Il portavoce del governo, Olivier Véran, ha voluto ribadire la posizione dell’esecutivo, affermando che l’abaya è “chiaramente” un abito religioso e che la scuola deve rimanere “il tempio della laicità”. La diffusione dell’abito negli spazi pubblici – ha proseguito Véran – è stata finora “tollerata”, anche se l’indumento è stato spesso “consigliato” dagli islamici più ortodossi. E ancora: “Siamo stati chiari: non si va a scuola per fare proselitismo religioso ma per imparare”. Il Consiglio francese per il culto musulmano (CFCM), da par sua, già nel mese di giugno aveva fatto sapere che l’abaya “non rappresenta un segno religioso musulmano” e che “basta viaggiare nei paesi a maggioranza musulmana per rendersi conto che i cittadini e le cittadine, di tutte le fedi, sono indistinguibili dagli abiti che indossano”.
Nel frattempo, il ministro Attal ha precisato di voler incontrare già dalla settimana prossima tutti i direttori e presidi di scuole per aiutarli nell’applicazione del nuovo divieto. Ma, al di là dei proclami, Libération evidenzia come l’esecutivo sia stato vago sulle modalità di attuazione della norma. “Nessuna data di entrata in vigore, nessun dettaglio specifico” scrive il quotidiano, chiedendosi in quali sanzioni potrebbe incorrere una studentessa che si presentasse in aula indossando l’abaya e a chi spetterebbe il compito di applicarle.
In attesa delle ulteriori indicazioni auspicate da Libération, il Paese – dove i musulmani sono oltre 5 milioni – si spacca: mentre la destra guarda con favore al provvedimento, la sinistra va all’attacco. Clémentine Autain, deputata di La France insoumise, ha parlato di “polizia dell’abbigliamento” definendo l’annuncio di Attal “incostituzionale” e “contrario ai principi fondanti della laicità. Appena rientrati dalle vacanze, i macroniani già provano ad attaccare da destra il Rassemblement National”. Il dibattito, insomma, pare soltanto all’inizio.
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14 Luglio 2023
Le proteste in Francia
e la laïcité vissuta come imposizione
di Federica Olivo
Il divieto di ostentare simboli religiosi in luoghi pubblici, dagli uffici alle scuole, va a discapito delle minoranze musulmane, che reagiscono: dalle influencer alle studentesse, alle atlete. D’Arienzo: “Una legge simile in Italia sarebbe incostituzionale”. Anastasio: “Lavorare col velo anche nel privato è difficile, chi lo indossa non capisce il perché”
“Prima era una, poi due, poi tre. Oggi sono sempre di più”. Queste parole, provenienti dal mondo della scuola e riportate da Le Figaro, esprimono quello che, nel Paese della laïcité sancita nel primo articolo della Costituzione, a qualcuno sembra un problema. Chi le pronuncia fa notare che nella sua scuola – e in altre scuole francesi – è sempre più diffuso, tra le ragazze, l’uso dell’abaya, la tunica di provenienza mediorientale usata dalle donne. Stesso schema per il qamis, una tunica maschile, sempre più in voga tra i ragazzi. Nelle scorse settimane sui giornali d’Oltralpe il dibattito si è concentrato su un interrogativo: vietarli, perché potrebbero essere considerati simboli religiosi evidenti, o no?
“Meglio non stilare una lista di indumenti da vietare, sarebbe controproducente”, ha detto il ministro dell’Educazione nazionale, Pap Ndiaye. Ha colto il punto, ma senza risalire alla questione generale: la laicità intesa come neutralità, in una società multiculturale, è la strada migliore da percorrere o ha fallito? E l’aumento di simboli identitari nelle scuole – dove è vietato, così come in tutti i luoghi pubblici francesi, indossare simboli religiosi evidenti – potrebbe essere diretta conseguenza dell’estremizzazione del concetto di laicità, che induce le minoranze ad arroccarsi nella loro identità? “La laicità vissuta come un’imposizione – dice a HuffPost Maria D’Arienzo, professoressa di diritto ecclesiastico e canonico all’Università Federico II di Napoli – può condurre a forme di disagio, che possono alimentare una reazione. Indossare il velo o un altro simbolo religioso in maniera, per così dire, oppositiva, può essere un modo per cercare un’identità specifica. E per mostrarla”. Ed è quello che in Francia, negli ultimi anni, sta accadendo.
Sempre più immigrati di seconda generazione, complice il contesto di marginalità in cui vivono, rivendicano la loro cultura d’origine. E la loro appartenenza religiosa. Con i vestiti e non. “In Francia, in questo momento, la vita per una persona che proviene dal Nord Africa è più difficile di prima. La destra è molto forte e c’è ostilità nei confronti degli immigrati. Se a ciò si aggiungono i problemi che abbiamo con il governo, è chiaro che certi atteggiamenti, anche di violazione della legge sulla laicità, possono essere un modo per rompere le regole di una società in cui non ci si sente integrati”, spiega ad HuffPost Alexandra Anastasio, insegnante italo-francese che lavora a Parigi. Lavora con i migranti, quindi ha un osservatorio privilegiato su questi temi.
La continua diffusione degli abiti tradizionali è arrivata sul tavolo di un’importante istituzione. Investito della questione, il Conseil français du culte musulman, ha dichiarato che l’abaya non è da considerarsi un simbolo religioso. “Si può considerare un simbolo culturale, che naturalmente ha una pregnanza diversa rispetto al simbolo religioso”, spiega ancora D’Arienzo.
L’aumento di giovani che indossano abiti tradizionali in Francia è dovuto anche alla diffusione di alcuni canali social: “Su Instagram e Tik Tok ci sono influencer che spiegano come indossare il velo di modo che non sia vietato dalla legge sulla laicità”, aggiunge Anastasio Da qualche anno, in effetti, si è sviluppato un movimento di modelle e influencer che rivendicano di indossare per libera scelta il velo e che hanno lanciato l’hashtag #PasToucheAMonHijab, “giù le mani dal mio Ḥijāb”, il velo che copre solo i capelli. Si tratta di persone che, nella gran parte dei casi, vivono il velo come una scelta. E non capiscono perché un’istituzione debba impedirglielo. Peraltro, proprio in nome dell’eguaglianza all’interno di un contesto sociale.
In strada, in Francia, l’Ḥijāb in linea di massima può essere indossato. Non mancano le eccezioni. Una norma ha stabilito che fosse legittimo vietare alle mamme che accompagnano i figli in gita scolastica. Il problema si pone, però, oltre che nei luoghi pubblici, nelle aziende private: “Lavorare in Francia con il velo – prosegue Anastasio – è molto difficile.. Alcune catene ora lo accettano, molte altre no. Le donne musulmane vedono che, invece, in Gran Bretagna nessuno pone ostacoli a questa loro scelta e si chiedono perché in Francia non possano lavorare con l’Ḥijāb”, spiega ancora Anastasio. Ci sono stati casi di licenziamenti di donne che si rifiutavano di togliere il velo sul lavoro: “Il caso più importante è stato quello di Baby Loup, un asilo privato che ha licenziato una donna che non voleva lavorare senza velo – argomenta, invece, D’Arienzo – per il giudice si è trattato di un licenziamento per giusta causa, perché la scelta della donna avrebbe potuto inficiare sulla libertà economica e imprenditoriale dell’azienda”. Della questione è stata investita anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha dato ragione alla Francia: “La Corte – spiega ancora la professoressa – ha dichiarato che il Paese ha un margine di discrezionalità in materia e che lo scopo del divieto è preservare le condizioni del vivere insieme”.
Per legge, inoltre, nei luoghi pubblici è vietato l’uso del burqa, la tunica che copre interamente le donne, e del niqab, che lascia scoperti soltanto gli occhi. Il divieto ha una sua ragione, perché il burqa copre anche il volto, impedisce il riconoscimento, ed è più difficilmente riconducibile a una libera scelta. La tentazione di estendere i divieti a abiti che non pongono di questi temi e, però, ricorrente. Ciclicamente torna la polemica sul burqini, il costume da bagno che copre tutto il corpo tranne il volto e che consente alle donne musulmane di poter andare al mare. Alcuni comuni lo accettano, altri lo vietano, spesso interviene un giudice. Mentre in passato il Consiglio di Stato aveva detto no al divieto, di recente un tribunale ha cancellato una decisione del comune di Grenoble. Il sindaco della città autorizzava tanto il burkini quanto il topless, ma il tribunale ha escluso la prima opzione adducendo una motivazione diversa da quella religiosa. La tesi, infatti, è che in piscina sono necessari, per igiene e motivi di sicurezza, abiti che aderiscono al corpo. E il burkini non lo è. Quello che, però, non emerge, in questi meccanismi fatti di carte bollate e di decisioni prese sull’onda emotiva di alcuni avvenimenti o, più semplicemente, per accontentare l’opinione pubblica è l’altra faccia della medaglia: vietare un burqini a una donna musulmana, che lo indosserebbe per libera scelta, significa vietarle l’accesso alla piscina, al mare, a un momento di svago. E questo mina l’eguaglianza molto più di quanto si possa pensare.
Sempre in nome della laicità, le atlete musulmane si sono dovute scontrare con un disegno di legge che vieta l’utilizzo del velo nelle competizioni sportive del Paese. Il motivo? L’indumento vìola la neutralità. E pazienza se nessuna di loro lo indossava per costrizione e se il velo non ostacolava in alcun modo la loro prestazione sportiva.
Ma torniamo al punto di partenza. Alla scuola. Anastasio lavora in una scuola privata per migranti e quindi non vive direttamente il problema, ma lo conosce bene: “Noi siamo fuori dal sistema dell’educazione nazionale – spiega – quindi ogni allievo può venire a scuola con gli abiti e i simboli che ritiene. Ma nelle altre scuole non è così. La differenza è che se io entro a scuola con un crocifisso al collo nessuno mi dirà niente. Con il velo, invece, non si può entrare”. C’è una differenza, quindi, tra i simboli cristiani e quelli musulmani? In realtà no: “La legge del 2004 sulla laicità nelle scuole vieta l’ostentazione di simboli religiosi e prevede addirittura la grandezza massima che deve avere il ciondolo di un crocifisso affinchè non si incorra nel divieto. Perché se il crocifisso è piccolo, tenerlo al collo non sarà considerato un’ostentazione, se è più grande di quanto stabilito dalla legge, allora non si può usare. In Italia ciò sarebbe incostituzionale”, spiega d’Arienzo. Il velo, invece, nei luoghi pubblici è vietato sempre, “anche per le suore – argomenta la professoressa – se svolgono un ruolo pubblico”. A scuola o altrove, ed è anche per questo che le influencer spiegano come indossarlo senza avere problemi: renderlo un turbante, ad esempio, è lecito. Lasciarlo cadere morbido come un normale Ḥijāb no.
All’interno delle classi il divieto di velo – e di altri simboli religiosi vistosi – riguarda le professoresse e le studentesse. “Ma sono finite davanti a un giudice – prosegue D’Arienzo – anche delle mamme che andavano velate a prendere i figli a scuola”. Il tutto, è il caso di ripeterlo, senza tenere in conto il fatto che per molte donne indossare il velo è una libera scelta. “Ed è per questo che – conclude D’Arienzo – mi piace utilizzare l’espressione “laicità impositiva”, in contrapposizione con la definizione di laicità positiva, data da Nicolas Sarkozy”.
Quanto la laicità inizi sempre più a essere vissuta come un’imposizione e non come una garanzia del vivere bene insieme è reso evidente dall’aumento di episodi di rivendicazione identitaria che vedono come protagonisti anche gli immigrati di ultima generazione. Indossare un’abaya a scuola – anche se, come a volte accade, è stata comprata in un’occidentalissima catena di grande distribuzione – non è solo, o non è sempre, una sfida alle regole. È anche un modo per dire “noi ci siamo, anche se considerati cittadini di serie B e ghettizzati nelle banlieue. Noi ci siamo, francesi come voi, ma con le nostre radici, le nostre usanze. La nostra identità”. Alla luce dei disordini degli scorsi giorni – dimostrazione evidente che la politica assimilazionista francese ha fallito – forse le istituzioni d’Oltralpe con questo ragionamento dovranno iniziare a fare i conti.
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