
dal Corriere della Sera
Come Trump sta demolendo la democrazia negli Usa
di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina
Nei giorni scorsi, sul sito della Casa Bianca, è comparsa la foto del presidente degli Stati Uniti con tanto di corona da monarca in testa. L’ennesima provocazione va presa seriamente. Trump sta distruggendo la democrazia americana? Quali sono i meccanismi politici e istituzionali che possano frenare la sua voglia di potere senza limiti?
Il sistema costituzionale americano si regge sull’equilibrio tra potere esecutivo, cioè il Presidente; potere legislativo, vale a dire il Congresso, composto da Camera e Senato; potere giudiziario, formato dalla magistratura. Uno dei padri fondatori della Costituzione, Alexander Hamilton, scriveva nel 1789, sulla rivista «The Federalist»: «L’esecutivo impugna la spada; il legislativo custodisce il borsellino; il giudiziario, al contrario, non ha alcuna influenza né sulla spada, né sul borsellino… tutto ciò che possono fare i giudici è… giudicare».
Queste sono le fondamenta storiche del cosiddetto «sistema di pesi e contrappesi»: l’asse portante della democrazia negli Usa.

I poteri del Congresso
L’argine più importante dell’esecutivo è, dunque, il Congresso, ovvero il potere legislativo, non a caso è la prima istituzione descritta nella Costituzione. Il Congresso regola le entrate e le uscite dello Stato federale e approva le leggi, che devono però essere promulgate dal Presidente. Il Congresso può mettere sotto accusa e rimuovere l’inquilino della Casa Bianca con la procedura dell’impeachment. Il Senato, inoltre, ratifica le nomine più importanti fatte dal presidente: ministri, giudici della Corte Suprema, giudici federali, vertici di Cia, Fbi, Antitrust, Federal Reserve e altro ancora. In teoria, quindi, il contrappeso sembra efficace. Ma la realtà dell’era trumpiana racconta un’altra storia. Il partito repubblicano si è schierato senza riserve sempre a favore di Donald Trump, chiudendo gli occhi anche davanti a evidenti misfatti. L’esempio più clamoroso risale a febbraio del 2021, quando i repubblicani votarono contro l’impeachment del Presidente, negando ogni sua responsabilità nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Ci fosse stata la condanna, Trump non avrebbe più potuto candidarsi alla Casa Bianca e, molto probabilmente, i giudici federali lo avrebbero spedito in galera.

Tutti i «sì» al Presidente
Oggi i repubblicani, quasi tutti di stretta osservanza trumpiana, controllano sia la Camera che il Senato, e le nomine fatte da Trump sono state tutte ratificate, anche le più controverse. Le nomine di Trump sono state tutte ratificate senza problemi, comprese quelle di figure controverse come il negazionista Robert Kennedy jr. alla Sanità, Pete Hegseth, accusato di molestie sessuali, al Pentagono e di Tulsi Gabbard, sospettata di legami speciali con la Russia, alla testa della «National Intelligence». Il filtro del Congresso dunque sta saltando e presto potrebbe arrivare un altro banco di prova cruciale. Nel novembre del 2024 il Congresso ha approvato una legge che impedisce al Presidente di ritirarsi dalla Nato, senza il consenso di due terzi del Senato o di una legge approvata dalle due Camere. Ma, secondo gli esperti, Trump potrebbe scavalcare la norma, appellandosi ai poteri del presidente in materia di politica estera. Il Congresso terrà il punto? Lindsey Graham, uno dei senatori repubblicani più in vista, dice di sì. Vedremo.
Il limite invalicabile
C’è un contrappeso fondamentale anche per le modifiche alla Costituzione. A Washington si dice che Trump sarebbe tentato di modificare il limite dei due mandati presidenziali, fissato dal XXII emendamento (ratificato nel 1951). Ma occorre il «sì» dei due terzi nella Camera e nel Senato e poi la ratifica dei tre quarti dei 50 Stati, cioè 38 su 50. Sono quorum fuori dalla portata dei repubblicani, sia al Congresso che nel Paese, dove controllano (Governatore più Parlamento) 23 Stati su 50.
Il potere giudiziario
Il sistema giudiziario americano è diviso in due sfere indipendenti: quella statale e quella federale. A noi, qui, interessa la seconda, cioè l’apparato che può bloccare i provvedimenti del presidente se giudicati in contrasto con le leggi federali o con la Costituzione.
In totale i giudici federali sono circa 1770, con diverse funzioni. Quelli che svolgono un ruolo di contrappeso sono 677, distribuiti tra i 94 tribunali di primo grado («district courts») e le 13 corti d’appello («circuit courts»). Questi 677 magistrati sono nominati dal presidente e confermati dal Senato. Stando alle cifre pubblicate da «Ballotpedia», al 1 gennaio 2025 risultavano in servizio 232 giudici indicati da Joe Biden e 228 nominati a suo tempo da Trump. Nelle intenzioni dei Padri costituenti, la nomina dei giudici da parte del potere esecutivo era un altro tassello dell’equilibrio tra i diversi rami dello Stato. Presidente e Senato avevano un ruolo nella scelta di queste figure che dovevano possedere profili di garanzia e di provata competenza anche perché l’incarico dura per tutta la vita. Ma negli ultimi 10 anni il sistema giudiziario è diventato una palude. Sempre di più pesa l’orientamento politico dei giudici, specie di quelli nominati da Trump. Le sentenze, quindi, sono spesso contrastanti.

Il vantaggio sulla Corte Suprema
Diverse associazioni, compresi i sindacati, hanno chiesto ai giudici di bloccare circa 20 degli oltre 70 ordini esecutivi firmati finora dal presidente (provvedimenti che entrano in vigore senza passare dal Congresso). Alcuni giudici hanno sospeso misure che hanno suscitato forti polemiche, come l’abolizione del diritto di cittadinanza per i figli di immigrati irregolari o lo smantellamento dell’Usaid, l’agenzia degli aiuti finanziari ai Paesi più poveri. Sono in attesa di giudizio alcuni dei tagli previsti dal Doge, Department of Government Efficiency guidato da Elon Musk. Altri tribunali, invece, hanno certificato la legittimità dello stesso Doge, respingendo i ricorsi che chiedevano di fermarne l’attività in quanto organismo informale, non regolato dalla normativa. Gli Stati guidati dai democratici rappresentano una «linea di resistenza» temibile per la Casa Bianca. Realtà come la California o lo Stato di New York promuovono politiche alternative a quelle trumpiane: dall’immigrazione all’ambiente. Diversi Stati si stanno rivolgendo ai tribunali federali per chiedere l’annullamento di provvedimenti firmati da Trump. Le cause contro le sue misure possono arrivare fino alla Corte Suprema, cui spetta l’ultima parola, e dove però Trump ha un indubbio vantaggio. Visto l’orientamento conservatore di sei togati su nove (tre nominati da Trump), è molto probabile che il giudizio finale sarà a favore del presidente in carica. Va inoltre ricordato che il 1 luglio del 2024, con una sentenza storica, la Corte Suprema ha garantito al presidente l’immunità giudiziaria per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Anche il contrappeso giudiziario, dunque, può ritardare o ostacolare la marcia trumpiana, ma non è detto che riuscirà ad arrestarla.

Congelata la norma anti-corruzione
All’interno dell’Amministrazione, alcuni dipartimenti hanno sempre avuto larga autonomia e prestigio. In particolare l’Attorney General, cioè il ministro della Giustizia e il coordinatore delle indagini più delicate. Ora, però, al vertice c’è Pam Bondi, una dei legali che hanno gestito la fallimentare offensiva giudiziaria di Trump contro la vittoria di Joe Biden. Possiamo essere certi che Bondi, fedelissima trumpiana, non solleverà alcuna obiezione giuridica sull’operato della Casa Bianca. Per altro Bondi sarà pronta a eseguire l’ordine esecutivo del Presidente che di fatto congela l’applicazione del «Foreign Corrupt Pratices act», la normativa varata nel 1977 che vieta ai cittadini americani di corrompere pubblici ufficiali stranieri per concludere affari internazionali. Una legge che è stata un punto di riferimento per la comunità mondiale, tanto da essere adottata da una convenzione dell’Ocse nel 1997, firmata anche dall’Italia. L’effetto concreto è che il Dipartimento della Giustizia potrà ora tranquillamente trascurare i casi di corruzione internazionale in cui potrebbero essere coinvolte imprese americane.

Il capo del Pentagono
L’altro centro nevralgico è il Pentagono. All’epoca della prima stagione trumpiana, l’allora Segretario alla Difesa, il generale James Mattis, rappresentava un interlocutore affidabile per i partner europei. Questa volta, però, Trump ha spedito al Pentagono uno dei personaggi più controversi dell’intera Amministrazione, Pete Hegseth, 44 anni, ex ufficiale della Guardia nazionale e, soprattutto, conduttore di Fox Tv, emittente conservatrice della famiglia Murdoch. La nomina di Hegseth è passata per un solo voto al Senato. Le sue credenziali per reggere un ministero così importante sono nulle. Inoltre Hegseth ha attaccato per anni l’apparato militare degli Stati Uniti. Alcuni osservatori, come il saggista Tom Nichols, sostengono che il Pentagono sia «nel marasma». Non è un caso se nessuno della Difesa, né il Segretario, né alcun consigliere militare sia stato coinvolto nel negoziato con Putin. Un altro contrappeso che quindi potrebbe essere annullato.
La filorussa all’intelligence
Lo stesso discorso vale per la galassia delle 18 agenzie dei servizi segreti, coordinate dalla National Intelligence, al cui vertice è arrivata Tulsi Gabbard. Ha combattuto in Iraq e, nel 2020, si è presentata come candidata nelle primarie presidenziali democratiche. Vicinissima al leader della sinistra Bernie Sander, improvvisamente è stata folgorata dal trumpismo. Il neo presidente l’ha ricompensata assegnandole una casella importante. Gabbard, perfettamente allineata con la propaganda russa, sostiene che Putin non sia il responsabile dell’attacco all’Ucraina.
I capi di Fbi e Cia
Ammansito anche il vertice dell’Fbi che nel 2017 aveva dato grandi problemi a Trump. Adesso c’è Kash Patel, 44 anni, che aveva colpito Trump per frasi come questa: «Gli investigatori che perseguitano Donald sono come dei gangster». Alla testa della Cia, troviamo un altro fedelissimo John Ratcliffe, anche lui fautore della distensione con Putin.
Il sistema dei «checks and balances», dunque, perde pezzi da tutte le parti. Ma questo non significa che la democrazia americana sia già morta. Bisogna sempre ricordarsi che nelle ultime elezioni Trump ha ottenuto sì 77 milioni di voti, ma che la sua avversaria democratica Kamala Harris ne ha totalizzati 74 milioni. Alla metà degli Stati Uniti dunque non piace questo presidente. Il Paese si è sempre dimostrato pronto a cambiare rapidamente direzione. Tra due anni si torna alle urne per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. Se vincono i democratici, almeno il contrappeso del Congresso potrebbe rimettersi in moto.
dataroom@corriere.it
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