Omelie 2013 di don Giorgio: Seconda domenica di Pasqua
7 aprile 2013: Seconda di Pasqua
At 4,8-24a; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
Il primo brano, tolto dal libro “Atti degli apostoli”, scritto da Luca, (un libro che ci accompagnerà per tutto il periodo pasquale) accenna ad un miracolo compiuto da Pietro e Giovanni, mentre salivano al tempio per pregare: erano circa le tre del pomeriggio, l’ora del sacrificio serale, quando si immolava un agnello.
Tra parentesi. Gli apostoli e i primi cristiani hanno continuato a frequentare il tempio, evitando all’inizio di scontrarsi con il culto ebraico. Saranno i capi dei giudei a respingere la Chiesa nascente. La guarigione miracolosa dello storpio è stato il punto di partenza dello scontro. Luca lo fa notare molto chiaramente: tale distacco non è stato voluto dagli apostoli, i quali anzi si sono adoperati a favore del popolo. Era evidente che prima o poi il problema si sarebbe posto: il cristianesimo doveva per forza staccarsi dalla religione ebraica. Era un’altra cosa. Appena gli apostoli testimoniano Cristo, nascono subito gli attriti. Ma gli attriti, notiamolo, non saranno tanto tra due religioni. In seguito, succederà purtroppo che il cristianesimo, riducendosi a religione, creerà scontri appunto di religione, e ciò non farà bene alla stessa società. Il cristianesimo, se deve scontrarsi, è per tutto ciò che è contro l’Umanità. Ma questo è un altro discorso.
Nelle vicinanze del tempio affluivano molti poveri, per lo più gente con dei difetti fisici (ciechi, storpi ecc.), costretti a mendicare per sopravvivere. Erano ritenuti socialmente improduttivi. Non è certo con una moneta che si risolvono le piaghe sociali. Tuttavia talora sono anche i piccoli gesti che possono aiutare un indigente. È comodo anche dire: a che serve fare un’offerta in denaro? Mi hanno colpito le parole del primo discorso della neo eletta Presidente della Camera, Laura Boldrini, quando ha detto: “Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri”. Quando ho davanti a me un poveraccio, che cosa gli dovrei dire: “Prima risolvo i problemi della povertà, e poi ti aiuto?”. Oppure: “Se si risolvono i problemi della povertà, anche tu non sarai più povero?”.
Certo, Pietro e Giovanni vanno alla radice del problema: rimettono in piedi quel disgraziato, che così potrà finalmente entrare come produttivo nella società. Ma non tutti noi abbiamo la capacità di compiere i miracoli. D’altronde, oggi il problema non è tanto un difetto fisico che è di impedimento ad un posto di lavoro: il problema è più generale. Anche i sani non trovano lavoro. E anche qui non dobbiamo aspettare che la crisi passi, perché torni un posto di lavoro a tutti. Nel frattempo, cosa fare? Le risposte sono complesse, sono soprattutto politiche, anche se i cittadini hanno una loro responsabilità per come votano, per come lottano, per come pensano e agiscono in quanto cittadini: sono coscienti che il bene comune è superiore al bene individuale o di gruppo?
Ciò che mi ha colpito del miracolo dello storpio sono le parole con cui Pietro si rivolge a quel disgraziato. Anzitutto, lo fissa negli occhi; lo guarda. Già questo è indicativo di un gesto che non è impersonale, freddo, magari calcolato. E poi Pietro gli dice: “Guarda verso di noi”. I due volti si devono incrociare. Le nostre elemosine talora avvengono tra due sguardi che si abbassano: io non guardo quel disgraziato negli occhi, e lui non mi guarda. Io do e lui riceve, senza guardarci.
E lo sguardo del paralitico si fa prolungato, in attesa di ricevere qualcosa. Ecco, sta qui l’errore di fondo: essere in attesa di ricevere qualcosa. Prima di un gesto d’amore. Qualcosa ci sembra bastare. Quel qualcosa che ci risolva il problema esistenziale, almeno in quel momento. Noi viviamo di qualcosa e di attesa di qualcosa.
Ma Pietro gli dice: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”. Pietro non ha qualcosa, ma il potere, nel nome di Cristo, di farlo camminare. Chi crede in Dio e nei valori umani ha questo potere: far camminare le persone spente nella speranza di vivere. Non è questo di cui ha bisogno la società di oggi? Crediamo di risolvere i problemi esistenziali dando qualcosa o, peggio, promettendo qualcosa. E pensare che potremmo risollevare il mondo con un po’ di amore e di fede nell’Umanità. Il progresso economico ha forse risolto qualcosa? Ci ha dato un mondo migliore? Papa Francesco con poche parole, la sera di mercoledì 13 marzo, ha conquistato il mondo infondendo serenità e speranza più di quanto se avesse dato a tutti gli uomini un po’ di denaro.
Poi Pietro prende lo storpio per la mano, quella mano che era già tesa per ricevere qualcosa, e lo solleva. Commovente ciò che succede: l’infermo balza in piedi, cammina, salta e grida di gioia, contagiando la folla presente, che rimane profondamente colpita. E poi, camminando, saltando, gridando la sua gioia e la sua riconoscenza al Signore e ai suoi benefattori, Pietro e Giovanni, e tenendoli per mano, l’uomo guarito attraversa la porta con loro e passa nel cortile interno del tempio, per assistere al sacrificio della sera.
Davanti alla folla piena d’entusiasmo per quanto era accaduto, Pietro tiene nel tempio un discorso per chiarire che quanto era successo non era dovuto alla magia di qualcuno, ma ad opera di quel Cristo che era stato ucciso. Ucciso da chi? Proprio da loro: «Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti. E per la fede riposta in lui il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete». Mentre Pietro e Giovanni stavano ancora parlando al popolo, «sopraggiunsero i sacerdoti, il comandante delle guardie del tempio e i sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e insegnavano in Gesù la risurrezione dai morti. Li arrestarono e li misero in prigione… Il giorno dopo… li fecero comparire davanti a loro e si misero ad interrogarli: “Con quale potere o in quale nome voi avete fatto questo?”.
Ed ecco il brano di oggi. Pietro tiene un altro discorso. Semplice ma chiaro. Ripete che il miracolo è avvenuto «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti». I capi non sanno più che cosa fare: rimangono colpiti dalle parole semplici, e non dotte, dei due apostoli e dalla loro franchezza, in greco “parresia”. Il sinedrio allora emette una contraddittoria ingiunzione: Pietro e Giovanni non dovranno più parlare in pubblico “nel nome di Gesù”. Ma essi rispondono: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”.
A noi credenti di oggi manca la “parresia”. Martini così spiega: la “parresia” è la “capacità di testimoniare liberamente e coraggiosamente il messaggio cristiano anche in un mondo ostile. Nel mondo greco essa (“parresia”) significava la libertà di parola che spettava nell’assemblea al cittadino che godeva dei pieni diritti civili, e di conseguenza il coraggio e la franchezza con cui tale privilegio veniva esercitato”.
Non si tratta tanto di un diritto di opinione, ma di dire la verità. Che è un’altra cosa. Anche l’espressione: “meglio obbedire a Dio che agli uomini” è stata talora presa in modo del tutto errato. Che significa “obbedire a Dio”? a quale Dio? E nel nome di Dio abbiamo fatto guerre, violenze, soprusi d’ogni genere.
So che il brano di Vangelo sarebbe interessante da commentare. L’episodio di Tommaso ci ha sempre affascinato. Tommaso è dentro ciascuno di noi con i suoi dubbi, le sue perplessità, la sua voglia di toccare la realtà prima di credere. A noi piace Tommaso. È simpatico. Lo sentiamo nostro.
Preferisco dire due brevissime parole sul tema di questa domenica che, come voi sapete, è stata dedicata alla Divina Misericordia fin dal 2000 da papa Giovanni Paolo II. Del resto al tema della misericordia di Dio aveva dedicato la sua seconda enciclica Dives in Misericordia, scritta nel 1980. Il papa attuale, Francesco, ha fatto subito della misericordia di Dio il cuore dei suoi messaggi. Ha colpito l’insistenza con cui parla di un Dio misericordioso. Già durante il suo primo Angelus, di domenica 17 marzo, commentando il Vangelo della quinta domenica di Quaresima, dedicato nel rito romano alla donna adultera, papa Francesco ha sottolineato che da Gesù ”non sentiamo parole di disprezzo o di condanna, ma solo amore e misericordia”. E si è soffermato su un aspetto della misericordia che è la pazienza di Dio. “La misericordia cambia tutto – ha scandito Francesco parlando ai fedeli – cambia il mondo, e lo rende meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire la misericordia di Dio. Egli – ha affermato ancora il Papa – è un padre misericordioso che ha tanta pazienza”. Francesco ha poi raccontato ai fedeli di un incontro avuto con una donna ultra ottantenne nel 1992, in occasione dell’arrivo in Argentina della statua della Madonna di Fatima. Durante una Messa per gli ammalati, mentre l’allora cardinale Bergoglio stava confessando, la donna gli si avvicinò. Il futuro Papa le disse: “Nonna lei vuole confessarsi? Ma se lei non ha peccato?”. “Tutti abbiamo peccato”, rispose l’anziana. “Ma forse il Signore non ci perdona”, replicò Bergoglio. “Se il Signore non perdonasse, tutto il mondo non esisterebbe”, disse la donna con sicurezza. “Mi dica, signora – rispose ancora Bergoglio – lei ha studiato alla Gregoriana?”. E da questo racconto Francesco ha tratto l’insegnamento per i fedeli che lo ascoltavano: “Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci. Mai. Il problema è che noi ci stanchiamo di chiedere perdono”.
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