
da L’ECO DI BERGAMO
1 luglio 2024
«Occorre ridare un’anima alle istituzioni.
Spazi di ascolto e accoglienza dell’umano»
Il libro. Paolo Gomarasca e Francesco Stoppa in «Salviamo la Cosa pubblica» affrontano questioni cruciali, con riferimenti alla politica, alla scuola, alla cura. La scommessa di riumanizzare i luoghi della vita comune
Giulio Brotti
Già negli anni Settanta del secolo scorso, il sociologo Richard Sennett sosteneva che la «vita pubblica» tenderebbe sempre più a ridursi a un’incombenza formale: «La maggior parte dei cittadini – egli scriveva – affronta i rapporti con lo Stato con un atteggiamento remissivo e rassegnato». Sennett aggiungeva che il ripiegamento sulle questioni e desideri intimi porterebbe le persone alla malinconia: «Il termine “intimità” evoca calore, fiducia, libera espressione di sentimenti. Ma proprio perché ci aspettiamo benefici psicologici da tutti gli ambiti della nostra esperienza mentre la vita sociale, che ha un suo significato indipendente, ce li nega, il mondo esterno, impersonale non ci soddisfa, ci appare monotono e vuoto».

Paolo Gomarasca, ordinario di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano, e Francesco Stoppa, psicoanalista di orientamento lacaniano e saggista, scommettono però sulla possibilità di riumanizzare i luoghi della vita comune in «Salviamo la Cosa pubblica. L’anima smarrita delle nostre istituzioni» (Vita e Pensiero, pagine 208, 18 euro, disponibile anche in formato digitale a 12,99 euro).
L’idea guida del libro, redatto a capitoli alterni dai due autori, è che un’istituzione debba porsi «al servizio di un territorio e di una collettività senza,
come si dice, lasciare indietro nessuno: pur rispondendo alle necessità su larga scala di una certa fascia di popolazione – il bisogno di cure, di istruzione, di servizi –, non dovrebbe perdere di vista la specificità delle realtà che intercetta e dovrebbe, nei limiti del possibile, recepire la declinazione singolare della domanda, esplicita o latente, che ogni soggetto porta con sé».
Abbiamo chiesto a Stoppa, per molti anni responsabile della riabilitazione presso il dipartimento di Salute mentale di Pordenone, di tornare su alcuni punti trattati nel volume.
Oggi sembra prevalere un atteggiamento «astrattamente rivendicativo» nei confronti delle istituzioni: ci si lamenta (magari anche fondatamente) delle loro disfunzionalità, ma si ragiona quasi esclusivamente in termini «prestazionali». Nel vostro libro, voi adottate un approccio molto diverso.
«Se c’è qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno, di cui la nostra società ha bisogno, è una riflessione comune non solo sul funzionamento delle nostre istituzioni, ma prima ancora sul valore civile e culturale che vogliamo assegnare ad esse. Le pensiamo come dispenser di prestazioni standardizzate oppure, in primo luogo, come spazi di ascolto e accoglienza dell’umano nelle sue svariate espressioni? Tuttavia, l’atteggiamento a cui lei accennava non riguarda dei casi isolati: spesso la realtà è questa».
Con cittadini che già in anticipo sono tendenzialmente delusi?
«Delusi e perfino “incattiviti”, perché prevedono che non troveranno ciò di cui avrebbero bisogno. Di fronte a loro, addetti ai lavori che versano in uno stato di impotenza e demotivazione perché sono in sottorganico, sottopagati, vessati dalla burocrazia, orfani di leadership credibili. Insomma, trent’anni di aziendalizzazione dei servizi hanno lasciato i loro segni. Nel libro partiamo dall’idea che, in modi variabili a seconda dei diversi contesti e delle soggettività in gioco, sia necessario ristabilire un dialogo e nuove forme di alleanza tra cittadini e operatori, all’insegna di una riscoperta dell’importanza fondamentale delle istituzioni come bene comune, “Cosa pubblica” appunto. Istituzioni che non lascino indietro nessuno ma che, più che di esperti o di funzionari, hanno bisogno dell’impegno di tutti per tornare a essere veri e propri presìdi di civiltà, centri di accoglienza della vita. Ora, motore primo di questo rilancio civile dei servizi non possono che essere, a seconda dei casi, gli operatori e gli insegnanti che, mai come oggi, devono superare la loro condizione di isolamento e imparare, o reimparare, a “fare squadra”, équipe; a pensare e agire come piccoli ma tenaci nuclei di resistenza civile che giorno per giorno vigilino affinché le istituzioni, anziché produrre segregazione, producano salute».
«Istituzione» rimanda al verbo latino «institùere» («fondare», «preparare», «introdurre»). Questa etimologia pare suggerire che le istituzioni debbano avere un ruolo preparatorio, non totalizzante rispetto ai processi della vita comunitaria. Perché tanto spesso subentra una tendenza centripeta che porta le istituzioni a isolarsi dalla realtà circostante?
«Contrariamente a quello che spesso si dice, per sua naturale inclinazione l’uomo non è l’aristotelico “animale politico”: il nostro io così come i gruppi o le organizzazioni umane si strutturano e spesso si cementano in chiave difensiva e autoreferenziale. L’incontro con la vita impone infatti perdite e trasformazioni e tutto questo – Covid docet – mette in crisi i sistemi di controllo e la volontà di potenza dell’uomo. Se in “Salviamo la Cosa pubblica” si insiste sul tema della formazione, è proprio perché il pensiero è il vero antidoto alla stolidità umana».
Parrebbe evidente che i sistemi di assistenza sociale e quelli scolastici debbano perseguire l’obiettivo dell’«inclusione» dei soggetti più fragili e marginali. In «Salviamo la Cosa pubblica» si contesta invece questa presunta ovvietà.
«Il concetto di inclusione contiene implicitamente in sé un ideale di normalizzazione-colonizzazione del disagio e della marginalità, di tutto ciò che non rientra nei canoni della razionalità e in fondo del consenso, degli ideali imperanti in una certa società. Una volta semplicemente incluse nella mentalità e negli stili di vita omologati come “corretti”, la sofferenza, la follia, l’adolescenza stessa col suo portato di radicale dissidenza non avrebbero più nulla da insegnare alla “città”. A ben vedere, l’umano non è mai ciò che entra a regime, ma ciò che fa segno di un’alterità incomprimibile nel discorso dominante o negli algoritmi della scienza e, nella fattispecie, nel pensiero unico che caratterizza la società dell’immagine e del consumo».

Citando Franco Basaglia e Jacques Lacan, voi sostenete che chi lavora all’interno delle istituzioni dovrebbe in qualche misura accettare di fare esperienza del «vuoto»: di resistere alla tentazione di controllare ogni aspetto dei processi a cui prende parte come attore.
«Che si tratti del lavoro dell’insegnante o di chi è chiamato a porre rimedio alla sofferenza umana, ogni pratica di cura richiede che chi vi si dedica sviluppi una capacità tutt’altro che facile da acquisire una volta per tutte, quella di sapersi spostare dal centro della scena per sgombrare il campo all’avvento della Parola, all’ascolto della domanda dell’altro. La sospensione del proprio sapere e potere, delle proprie aspettative, genera un campo vuoto e come tale propizio a che la relazione possa giocarsi “in diretta”, nella sua autenticità. Ciò di cui ci prendiamo cura non è tanto la persona che si rivolge a noi, quanto la relazione che ci lega e contemporaneamente ci slega, creando in questo modo le condizioni di base per l’avvio e il mantenimento di un’alleanza simbolica. Per questo io e Gomarasca insistiamo sul fatto che le istituzioni devono essere, certo, anche i luoghi della risposta, ma ancor prima dell’attesa».
Del rispetto dei tempi e delle particolarità di ogni persona?
«Proprio così. In questo senso, il curante dovrebbe saper riconoscere l’angoscia che inevitabilmente lo coglie a contatto col dolore dei suoi pazienti: un’angoscia che rischia di indurlo a pianificare e controllare la situazione, a zittire il prima possibile il sintomo anziché a leggere in esso l’espressione di una domanda che chiede di venire alla luce. Allo stesso modo, un insegnante non ha semplicemente il compito di trasmettere ciò che sa, ma in certo qual modo quello di “disimparare”, per lasciare libero corso a un rimaneggiamento della sedimentazione delle conoscenze, delle credenze, delle abitudini di pensiero. Una sedimentazione che in caso contrario potrebbe sbarrare, come sottolinea Lacan, l’accesso alla verità».
Voi scrivete che il tentativo di ridare un’«anima» alle istituzioni pubbliche implica una riflessione sulla natura del sapere umano. Occorre prendere atto che la nostra conoscenza non è sempre «evidence based»? Che è spesso attraversata da chiaroscuri, segnata da zone d’ombra?
«Oggi un buon operatore della salute pubblica, così come un buon insegnante, è un po’ come il celebre vasaio di Martin Heidegger che plasma il vuoto (è proprio “il vuoto, questo nulla nella brocca” – affermava Heidegger – a fare di essa un recipiente). Detto diversamente: un buon operatore sociale è un rianimatore di quel campo sgombro dalle logiche dell’utile e del profitto che rappresenta da sempre lo spazio di confronto con la dimensione del sacro, con ciò che della vita sfugge ai nostri saperi e alla nostra volontà di dominio. La vita non è solo evidenza, o comunque la sua evidenza è fatta di qualcosa che i nostri occhi raramente sanno cogliere. Questo spiega perché il lavoro di cura consista sempre in un attraversamento di chiaroscuri, incertezze e zone d’ombra, terre di nessuno. Ed è fondamentale che coloro che vi si spendono quotidianamente siano consapevoli dello spessore culturale e civile del proprio impegno, della nobiltà del proprio lavoro».
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