Irlanda, ragazze madri prigioniere nelle Case cattoliche: ancora nessuna giustizia

da L’Espresso

Irlanda,

ragazze madri prigioniere nelle Case cattoliche:

ancora nessuna giustizia

Adozioni illegali, altissimi tassi di mortalità infantile, abuso fisico e verbale. Dopo diverse proroghe è atteso entro la fine dell’anno il rapporto finale della Commissione d’inchiesta sulle Mother and baby homes. I sopravvissuti: «Intanto noi continuano a morire senza scuse né risarcimenti»
di CLAUDIA CHIEPPA
03 dicembre 2020
Lo scorso mese il parlamento irlandese ha approvato una legge controversa che ha sigillato per 30 anni la documentazione raccolta dalla Commissione d’inchiesta sulle Mother and baby homes, istituita nel 2015. All’approvazione della legge è seguita un’ondata di sdegno popolare con il moltiplicarsi di petizioni e appelli sui social network, che ne chiedevano la revoca.
La questione delle Mother and baby homes irlandesi – ovvero istituzioni amministrate da varie congregazioni religiose per accogliere le donne rimaste incinte fuori dal matrimonio – è arrivata all’attenzione dei media nazionali e internazionali nel 2017 quando a Tuam, nella contea di Galway, nel luogo dove fino al 1961 sorgeva una di queste strutture, è stata ritrovata una fossa comune contenente resti umani dalle poche settimane di vita ai tre anni d’età. La scoperta confermò decenni di sospetti circa la pratica di seppellire senza elementi che li potessero identificare i bambini morti in questi istituti, caratterizzati da «tassi di mortalità infantile simili a quelli del 1700», come riportato dal The Irish Times.
Dopo l’indipendenza (ovvero dal 1922) la neonata Repubblica d’Irlanda, a corto di denaro, si appoggiò alla Chiesa cattolica per offrire assistenza sociale alle persone bisognose. Preoccupati anche dell’integrità morale del Paese, i funzionari pubblici incaricarono varie congregazioni religiose di occuparsi delle donne rimaste incinte fuori dal matrimonio e dei loro figli illegittimi. Nacquero dunque sull’isola le Mother and baby homes che ricevevano fondi pubblici e che sarebbero rimaste in attività fino ai tardi anni ‘90 del ‘900.
Secondo diverse ricostruzioni giornalistiche e i racconti degli esperti, queste istituzioni prevedevano delle condizioni di vita particolarmente dure. Le suore pensavano infatti che le ospiti, nel periodo che vi trascorrevano, avrebbero dovuto scontare con il duro lavoro, l’abuso verbale (e a volte quello fisico), i “peccati” che le avevano condotte nella situazione in cui si trovavano. Al momento dell’ingresso, le donne erano spogliate dei loro abiti e nomi di battesimo, rimpiazzati con “nomi della casa”, quasi sempre quelli di santi.
Generalmente, le madri rimanevano nelle Case fino a quando il loro bambino non fosse stato adottato o dato in affidamento. Le ospiti, sebbene non fossero state condannate per alcun crimine e non stessero scontando alcuna pena, non potevano lasciare la struttura e, se anche fossero riuscite a scappare, non avrebbero avuto alcuna prospettiva di reinserimento nella conservatrice società irlandese del XX secolo.
Le donne infatti quando firmavano i moduli che autorizzavano le adozioni, lo facevano sotto l’enorme pressione delle costrizioni sociali del tempo. Le loro famiglie non le avrebbero mai accolte se fossero tornate indietro con i propri figli e, per una madre nubile, sarebbe stato quasi impossibile trovare lavoro o prendere un appartamento in affitto. Neanche i figli illegittimi avevano vita facile. In Irlanda fino agli anni ’70, la loro condizione era quasi considerata un crimine: gli era vietato l’ingresso nelle forze di polizia e l’accesso alle carriere più prestigiose. L’aborto, infine, non era un’opzione, visto che è diventato legale nella Repubblica solo nel 2018.
Le madri quindi, qualora il bambino avesse superato i primi mesi di vita (cosa non scontata dati gli alti tassi di mortalità infantile cui si accennava), non avevano altra scelta se non darlo in adozione. Questa decisione obbligata e sofferta le avrebbe segnate per il resto della vita lasciando cicatrici indelebili.
La commissione d’inchiesta sulle Mother and baby homes è stata incaricata di indagare sulle pratiche portate avanti in 14 di queste strutture e in altri 4 istituti simili.

In particolare, si è concentrata sugli alti tassi di mortalità infantile; sulle pratiche di sepoltura; sull’abuso fisico ed emotivo; le condizioni igienico-sanitarie; lo svolgimento di test clinici sui bambini (come ad esempio la somministrazione di vaccini senza il consenso delle madri) e le adozioni illegali.

Il 30 ottobre la commissione ha ultimato e consegnato al governo il rapporto finale – che dovrebbe essere reso pubblico verso la fine dell’anno – sulle indagini portate avanti in questi 5 anni.
Nel frattempo, nel mese di ottobre, ha fatto scalpore l’approvazione in parlamento della legge che sigilla per 30 anni la documentazione raccolta dalla commissione, percepita come l’ennesimo affronto ai sopravvissuti da parte dello Stato. Vista l’ondata di proteste e petizioni che ne è seguita, il ministro per l’infanzia Roderic O’Gorman ha dovuto tuttavia chiarire a stretto giro che agli archivi dalla commissione si applicherà il Regolamento sulla protezione dei dati personali dell’Unione europea (RGPD), che prevale sulla legge irlandese. Tuttavia, come specificato da RTÉ News, non si tratterà di un diritto assoluto, visto che i sopravvissuti dovranno dimostrare che il loro diritto a ricevere informazioni non confligga con il diritto alla riservatezza di altri, e non infici l’eventuale cooperazione dei testimoni con altre commissioni d’inchiesta che potrebbero venire istituite in futuro.
Tuttavia, «finché la documentazione non sarà effettivamente sigillata e le persone non inizieranno a fare domanda per ricevere le proprie informazioni personali, non sappiamo esattamente a cosa avremo o non avremo accesso», dice Paul Jude Redmond, presidente della Coalizione dei sopravvissuti delle Mother and baby homes. Redmond, (autore del libro “The Adoption Machine: The Dark History of Ireland’s Mother and Baby Homes and the Inside Story of How Tuam 800 Became a Global Scandal”, pubblicato nel 2018 da Merrion Press) non è soddisfatto dell’operato dei vari governi e della commissione.
«L’inchiesta è stata annunciata nel 2015 e avrebbe dovuto concludersi in un massimo di 3 anni. Invece, tra una proroga e l’altra concessa dai vari governi, ne sono passati 5. Intanto i sopravvissuti continuano a morire senza avere né giustizia, né delle scuse ufficiali o alcun tipo di risarcimento. La strategia dei governi è semplicemente: “negare finché non muoiono”. Lo Stato è terrificato dal costo delle riparazioni: quando ci furono le indagini sulle industrial schools (istituzioni d’età vittoriana nate per risolvere il problema del vagabondaggio giovanile in Inghilterra, ndr), queste ammontarono a 1,6 miliardi di euro, che non è poco per un piccolo Paese».
«Inoltre, la commissione ha sempre tenuto alla larga i rappresentanti dei sopravvissuti; non ci hanno contattato e non hanno mai realmente collaborato con noi. In più, i lavori si tenevano a porte chiuse. Per questo ci siamo rivolti a vari organismi sovrannazionali: abbiamo inoltrato una petizione – che è stata accettata – al Parlamento europeo, sul modo in cui l’Irlanda sta trattando i sopravvissuti. Allo stesso organo abbiamo inoltrato una seconda petizione sulla secretazione degli archivi della commissione per 30 anni e speriamo che anche questa venga accettata. Ci siamo rivolti anche alla Commissione internazionale dei giuristi (Icj) e alle Nazioni Unite. È triste ma se guardiamo a molti episodi nella storia d’Irlanda, o almeno negli ultimi 20 o 30 anni, il solo modo per convincere il governo irlandese a fare la cosa giusta è che un’istituzione esterna gli dica di farlo».

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