La “giusta misura” contro ogni relativismo

L’Editoriale
di don Giorgio

La “giusta misura” contro ogni relativismo

Almeno qualcuno dei miei lettori si sarà accorto degli ultimi editoriali? Sì, sono particolarmente impegnativi, ma credo degni di qualche considerazione.
Sto notando ultimamente che due (o tre lettori al massimo) sono preoccupati di rettificare qualche mio giudizio, naturalmente con la solita presunzione di convertirmi. Almeno leggessero anche i miei Editoriali! Tempo perso, perché non capirebbero nemmeno una virgola…
In questo nuovo editoriale per l’inizio del nuovo anno vorrei riflettere con voi su quella virtù, che gli antichi filosofi greci e latini chiamavano “giusta misura”.
Partiamo da Aristotele, antico filosofo greco, vissuto nel IV sec. a.C, discepolo di Platone. Una delle sue teorie è quella del “giusto mezzo”, espressa nella sua più famosa opera morale, l’Etica Nicomachea: una raccolta basata sulle lezioni tenute da Aristolete, considerata come il primo trattato sull’etica. L’aggettivo “Nicomachea” indica probabilmente una dedica di Aristotele al figlio Nicomaco.

Secondo il principio del “giusto mezzo”, la virtù umana altro non è che il punto di equilibro tra due opposti errori, l’uno dei quali pecca per difetto e l’altro per eccesso: così la virtù del coraggio, ad esempio, si ottiene evitando i due estremi della viltà e della temerarietà, quella della moderata irascibilità risulta da un bilanciamento tra l’indolenza e l’eccessiva iracondia, e così via.

Si tratta ovviamente di un equilibrio difficile, che lo stesso Aristotele riconosce come tale, giacché non è agevole praticare quella che i Greci chiamavano mesòtes, e i Latini medietas o mediocritas, il raggiungimento cioè del giusto mezzo tra due opposti ovviamente erronei. Attenzione: in italiano la parola “mediocrità” ha un significato del tutto negativo.
Di questa teoria, filosofica ma non troppo perché conclamata anche dal buon senso comune, si fecero portatori altri grandi ingegni dell’Antichità, come ad esempio Orazio, il quale ne fa uno dei principi fondamentali del suo insegnamento morale, tanto da usare una locuzione che può sembrare ossimorica, aurea mediocritas, con la quale vuol affermare che la scelta di vita fondata sul giusto mezzo è la migliore, è appunto “aurea” proprio perché mediocre, in quanto al saggio non giova né l’estrema povertà né l’estrema ricchezza, non ha da vivere né in un tugurio né in una reggia, così come non deve essere mai troppo supponente, né mai troppo angosciato.
Parlando di Orazio, poeta latino, vissuto nel I sec. a.C., non possiamo non citare la frase forse più nota: “Est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum”, ovvero: “v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”. Dunque, un invito alla moderazione, a non superare il confine oltre il quale non può esservi il giusto. Una virtù di sano realismo.
La sentenza di Orazio divenne molto popolare ed era continuamente citata nell’antica Roma. Indicava quel senso del limite, che i Romani consideravano invalicabile, un confine, oltre il quale non può esservi il giusto e si rischia il delirio di onnipotenza (l’hybris, tracotanza), considerato nell’antichità forse il peggiore dei peccati capitali.
E oggi?
Possiamo constatare amaramente che oggi la moderazione, la medietas dei Romani, il principio del giusto mezzo di aristotelica memoria; non ha più alcun valore, ovunque si è scivolati da un estremo all’altro, anche per quanto attiene a molti aspetti della vita sociale.
Perseguire la giusta misura ha una sua intelligenza come si ricava dall’esempio della saggezza della lumaca, di cui parla Ivan Illich:
«La lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più grande. Invece di contribuire al benessere dell’animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A quel punto, qualsiasi aumento della sua produttività servirebbe unicamente a rimediare alle difficoltà create da una dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità. Superato il punto limite dell’ingrandimento delle spire, i problemi della crescita eccessiva si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica”.
Qualche considerazione.
Quando si va avanti troppo, bisogna fermarsi (può capitare che l’anima sia rimasta indietro, bisogna dunque aspettarla), e quando ci si ingrossa troppo, bisogna diminuire il peso, per trovare la giusta misura. Purtroppo, se nella natura tutto è equilibrato (vedi l’esempio della lumaca), invece le creature umane spesso e volentieri eccedono ogni limite.
Umberto Galimberti, parlando della “giusta misura” fa osservare: «La ‟giusta misura” (“katà métron”, secondo misura, dicevano gli antichi greci), è contenimento del desiderio, della forza espansiva della vita che, senza misura, spinge gli uomini a volere ciò che non è in loro potere, declinando così il proprio ‟demone”, la propria disposizione interiore non nella felicità (eu-daimonia), ma nell’infelicità (kako-daimonia), che quindi è il frutto del malgoverno di sé e della propria forza, obnubilata dalla voluttà del desiderio. Non dunque una felicità come soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare se stessi per la propria buona riuscita.
Da notare che il termine greco per indicare la felicità è “eu-daimonia”, che, nel suo significato originario, va tradotto con l’espressione “avere un buon Demone”; ovvero, essere abitati da divinità capaci di assicurarci una vita prospera dal punto di vista materiale.
In seguito, grazie soprattutto alla riflessione filosofica, il termine è stato interiorizzato, rivestito di un abito etico e, quindi, riferito all’intimità dell’uomo e al connesso esercizio dell’“areté”, della virtù.
A questo proposito, Eraclito afferma che, se la felicità si identificasse immediatamente con i piaceri del corpo, anche i buoi sarebbero felici. Ma con ancor maggiore intensità così si esprime Democrito: «La felicità non consiste nel possesso del bestiame e neppure nell’oro, l’anima è la dimora della nostra sorte». E ancora: «Ottima cosa è per l’uomo passar la vita conservando il più possibile la tranquillità dell’animo e affliggendosi il meno che si può. E si potrebbe vivere così, se non si riponesse il piacere in cose passeggere e mortali».
Come si vede, la felicità è ricondotta all’anima, a quella disposizione interiore che, come ci ricorda ancora Democrito: «Ci è procurata dalla misura nei godimenti e dalla moderazione in generale nella vita, il troppo e il poco sono facili a mutare e quindi a produrre grandi turbamenti nell’animo».
Infine, ci mancherebbe un passaggio da fare, diciamo un salto ancor più qualitativo: Gesù stesso parla di beatitudine interiore, che si contrappone alla felicità psichica e al piacere carnale. Si contrappone, senza però escludere la parte psichica o corporale, per dare quella giusta misura, che si ottiene solo dando il primato allo spirito.
La Mistica medievale, rifacendosi agli antichi pensatori greci e in particolare a Gesù Cristo, hanno ridato vita a quella essenzialità, che richiede un radicale distacco, proprio per raggiungere la giusta misura o l’equilibrio interiore.
NOTABENE
Notabene significa attenzione, sto per dirti una cosa importante.
Per Protagora, il più grande e più famoso dei Sofisti, «l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”, intendendo per “misura” la norma di giudizio, e per “cose” tutti i fatti in generale. L’assioma è divenuto ben presto celeberrimo, ed è stato considerato, ed è effettivamente, quasi la “Magna Charta” del relativismo occidentale. Col principio dell’homo mensura Protagora intendeva indubbiamente negare che esista un criterio assoluto che discrimini l’essere e il non-essere delle cose, il vero e il falso e, in genere, tutti i valori. Il criterio di giudizio è solamente relativo: è l’uomo, il singolo uomo.
Per Platone, invece, Dio è il Bene o Buono per eccellenza, perché opera in funzione dell’Idea del Bene, ossia dell’Uno e della suprema Misura. Il Bene è Uno, Misura Suprema di tutte le cose. Dunque, Dio è la “misura di tutte le cose”.
I grandi Mistici medievali hanno ripreso questa idea di Dio, come Suprema Misura, purificandola ancora di più, tanto più che l’ego spinge ad ogni forma di relativismo, spostando il baricentro, non più il Bene Assoluto, come Uno, ma ogni bene emotivo e carnale, che portano alla frammentazione, alla disgregazione, alla molteplicità.
Gli antichi parlavano di “daimon”, un demone divino, quale intermediario tra Dio e l’essere umano. Noi parliamo di “diavolo”, ovvero di uno che divide, separa, togliendo la “giusta misura”, ovvero Dio stesso.
07/01/2023
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