Ogni prete che sbaglia, ogni prete che lascia è una dura provocazione per tutti, ma sembra che la Diocesi milanese sia nelle mani sbagliate di un vescovo trottola, e di collaboratori che fanno battute da idioti
Ogni prete che sbaglia, ogni prete che lascia
è una dura provocazione per tutti,
ma sembra che la Diocesi milanese
sia nelle mani sbagliate di un vescovo trottola,
e di collaboratori che fanno battute da idioti
Ultimamente vari quotidiani non solo locali riportano notizie allarmanti di preti milanesi (e non solo) che lasciano il ministero pastorale, o sono costretti a lasciarlo per vari motivi, tra cui, e non è da sottovalutare, una certa fragilità che sembra caratterizzare il clero di oggi, in particolare i preti più giovani.
Su preti che commettono delitti, come quello della pedofilia, o che compiono in pubblico gesti indecenti o si lasciano vincere dalla debolezza della carne, come si diceva una volta, frequentando siti eccitanti (una volta non c’erano, ma c’erano altre occasioni forse meno rischiose) gay o non gay non è questo che può aggravare o giustificare la colpa, il discorso sarebbe lungo, complesso, legato o non legato per forza al problema del celibato.
Ma, per essere corretti, non è un fenomeno solo di oggi, anche se oggi i mass media rendono tutto in pasto al pubblico amplificando i casi, anche con particolari morbosi fuori posto, senza alcun rispetto della stessa persona che ha sbagliato, la quale, e può succedere, per coprirsi dal pubblico, si giustifica, dicendo anche stupidaggini o cose ridicole o inesattezze come se fossero abbandonati, senza soldi, privi di ogni conforto umano, e per il fatto di essere senza moglie o figli o una famiglia normale, allora tutto sarebbe giustificato, anche toccare minorenni, o lasciarsi andare frequentando gente equivoca. Non vado oltre, perché ciò che vorrei dire, allargando il discorso dovrebbe fare riflettere un po’ tutti quanti.
Ciò che mi ha sempre colpito è il suicidio di un prete, e il suicidio è sempre stato un gesto ritenuto dalla Chiesa istituzionale un crimine contro la vita, tanto è vero che i suicidi, fino a qualche anno fa, non avevano diritto a una celebrazione religiosa, o il rito era ridotto ai minimi termini. So che era un deterrente, ma un deterrente funziona quando la persona compie quel gesto coscientemente, e poi si parla di gesto “insano”? E mentre i suicidi cosiddetti laici erano pubblicamente esclusi dalla chiesa, sui preti suicidi calava sempre un silenzio omertoso.
In ogni caso, al di là di questo, il suicidio di un prete va oltre, e pone mille domande, scomode, provocatorie, perché toccano sul vivo la responsabilità dei vescovi e dei loro collaboratori, che non devono limitarsi a mettere il veto o un velo sul caso, ma dovrebbero chiedersi il perché un “loro” prete sia arrivato a quel gesto. Al di là di una colpevolezza “soggettiva” (difficile da valutare, e non tocca a noi!), rimane però il fatto che i superiori nel loro modo di fare (pur dettato da mille e più buone intenzioni!) possono produrre effetti disastrosi sulla stessa persona dei ministri di Cristo. Conosco preti che sono diventati “matti”, fuori di testa (un mio compagno di Messa!), per essere stati duramente emarginati negli anni del ’68, perché il cardinale li aveva bollati come infami. Penso anche ai preti operai della diocesi milanese: più di uno è morto nel totale abbandono! C’è il prete che ha un carattere forte, e non si fa intimidire, ma sa difendersi; non mi vanto di esserlo, però una cosa so: che finora non sono entrato in depressione, non ho bisogno di una psicologa, casomai mando in depressione qualche mio superiore. E c’è il prete più debole, fragile di carattere, a cui basta poco per entrare in crisi, e abbandonare tutto, oppure compiere un gesto insano.
Certo, non solo la gerarchia, la stessa comunità cristiana dovrebbe sentirsi in colpa per emarginare un prete, calunniandolo anche senza alcuna motivazione oggettiva. E al solo pensiero che un prete si sia impiccato, penso subito anche alla sua comunità, vigliacca e pettegola oltre ogni decenza.
No, non voglio per forza salvare il prete, giustificandolo in ogni suo gesto! Ma una cosa so: un prete, se non sente il proprio vescovo come un padre, come può vivere il proprio apostolato tra una comunità che assorbe, quasi “mangia”, come qualcuno ha scritto, il proprio prete, perché lo vorrebbe tutto “suo”, sempre “suo”, sempre attivo, sempre a disposizione? Forse un tempo la vita era diversa, e la fragilità del prete era protetta dalla stessa comunità sempre esigente, ma non in modo ossessivo.
Oggi la fragilità del prete, figlio anche del suo tempo, si fa sentire in modo preponderante: basta un nonnulla, e il prete giovane va in crisi, e più si butta nelle attività esteriori come fossero un diversivo o una distrazione o qualcosa che potrebbe compensare un certo vuoto d’essere (non è allucinante dire queste cose per un prete?), più la situazione si aggrava, si fa pesante, e poi scoppia il caso di preti che lasciano il loro ministero per un anno e più di riposo.
Non lo so: posso cercare e trovare motivazioni che poi non convincono del tutto. Con qualche domanda: i seminari come educano i futuri preti? Qualcuno suggerisce di eliminarli, e di educare i futuri preti al contatto con la realtà. Non la ritengo una buona soluzione, anche se bisognerebbe ragionarci sopra. I miei anni vissuti in seminario, e sono stati tanti, forse 14 o 15, non posso dire che non mi siano serviti soprattutto a forgiare il mio carattere, a creare in me quel senso del dovere che mi è rimasto ancora, tanto da non sopportare un mondo che parla solo di diritti, ponendomi anche la domanda: il clero di oggi che senso del dovere ha?
Una volta i chierici erano guidati da bravi, ottimi Padri spirituali (mi ricordo Padre Bay, Padre Zanoni, ecc.), che tra l’altro non costavano nulla economicamente parlando, e che tra l’altro conoscevano bene anche la psiche umana, oggi si affidano i preti soprattutto novelli agli psicologi, che credo si facciano pagare. E quando penso a quanto sostiene ripetutamente Marco Vannini, il più grande storico vivente della Mistica speculativa medievale, quella di Meister Eckhart per intenderci, ovvero che la psicanalisi non conosce affatto il mondo dello spirito, dimenticando che siamo tridimensionali, fatti cioè di spirito, di psiche (o anima) e di corpo, allora non rimane che spaventarci al pensiero che questi preti giovani o non tanto giovani siano nelle mani di gente che agisce solo sulla psiche, dimenticando la realtà più importante dell’essere umano. E, se posso con una provocazione suggerire una mia proposta, credo che basterebbe scoprire il mondo della Mistica “speculativa” medievale, e i preti senza forse si salverebbero da ogni crisi esistenziale. Sì, ne sono convinto, come sono convinto che andare dallo psicologo o da uno psicanalista è solo un palliativo per un prete che avrebbe bisogno di ben altro, e dovrei scrivere un altro lungo articolo per accennare anche solo a qualcosa di ciò che ritengo “ben altro”.
Sì, lasciatemelo dire, e non è la prima volta che uso termini forti: questi superiori imbecilli, che fanno dichiarazioni da imbecilli, quando commentano casi di preti beccati con comportamenti per lo meno indecenti. Non parlare, idiota! E di superiori idioti nella Chiesa milanese ce ne sono tanto da pormi il problema se esista almeno uno sano di mente, o per lo meno abbia le palle per dire ad esempio al vescovo che sarebbe ora di smetterla di fare la trottola, e che è anche colpa sua se il clero è in balìa del nulla.
Uno, due, tre casi, e ce ne saranno altri, ma, anche senza casi eclatanti che vengono alla luce, ci sono situazioni drammatiche di preti stanchi e delusi, anche perché, non dimentichiamolo, lo stress pastorale che va a incidere sulla fragilità del prete di oggi, sono gli impegni della cosiddetta Comunità pastorale: due o tre parrocchie (pensiamo alle zone montagnose o collinari) ) affidate a un solo parroco che, magari anziano e solo, deve correre di qua e di là, senza magari combinare nulla di buono pastoralmente parlando.
Secondo voi: una diocesi grande come quella milanese che cosa esigerebbe dal vescovo e dai suoi collaboratori? Che almeno i collaboratori siano attivi aiutanti, usando la loro testa, che insieme al loro vescovo studino, si confrontino, dialoghino sull’oggi per aprire un discorso serio sul futuro della diocesi. Perché aspettare sempre l’emergenza per porsi il problema, e soprattutto perché aspettare che l’emergenza sia così grave da chiudere ogni discorso su una eventuale soluzione?
Ma come si può riflettere seriamente sulla drammatica realtà della diocesi milanese, quando il vescovo sembra che se ne freghi, sembra che viva in un altro mondo, sembra che sia così “vuoto” da far dire a tanti: “Proprio non ce la fa, proprio non ci arriva!”.
Ma se è così, non c’è qualcuno dall’alto che lo prenda per i capelli, quei pochi che ha, e se lo porti in Vaticano?
Non si può accettare che vescovi e collaboratori che, con battute idiote, prendano sotto gamba una situazione allarmante di un clero che è alla deriva, non tanto per certi comportamenti anche se gravi (ce ne sono sempre stati anche nel passato!), quanto per quella fragilità che costringe un prete a chiedere una pausa.
Non è una barzelletta o una battuta: nei prossimi anni avremo due o tre nuovi preti, uno andrà a Roma a studiare, un altro si dedicherà ai social, e il terzo, dopo un mese dall’ordinazione sacerdotale, chiederà un anno sabbatico.
E così la Diocesi resterà senza preti, nulla di male diranno alcuni che credono nella rinascita di un laicato che si rifaccia ai primi tempi del Cristianesimo. Ma il laicato va preparato, educato al nuovo compito, già lo diceva Don Primo Mazzolari, cento anni fa. E i laici non vanno presi per il c***, affidando loro incarichi da sacrestano, pur con tutto il rispetto per il lavoro prezioso dei sacrestani (ce ne sono ancora?). Bisognerebbe partire dal cosiddetto Diaconato permanente: tutti lo dicono, gli stessi capi, così come è attualmente serve a ben poco.
Una diocesi grande come quella milanese, che non abbia un vescovo “pensante”, una diocesi che non abbia il coraggio di aprire un discorso nuovo sui ministeri laicali, è già in partenza fallimentare, destinata a morire. Lo so che il “grande” crea timori, ne sapeva qualcosa Carlo Maria Martini, e che, come sempre è successo, pensate a Barbiana con don Lorenzo Milani, le rivoluzioni sono partite dal piccolo, ma prima o poi bisogna anche partire, anche perché la diocesi milanese è sempre stata vista come modello.
E torno sull’argomento: l’ora è grave, i campanelli di allarme suonano a distesa, e allora come si può limitarsi a fare battute da idiota, senza mai porsi qualche domanda: perché non dedicare tutto il tempo possibile per studiare di risolvere al meglio questa emergenza di un clero alla deriva?
Almeno che il vescovo tiri fuori quella paternità che fa parte del suo essere guida di una Diocesi, che sta in piedi anche e soprattutto per il servizio di preti che dedicano anima e corpo per la loro comunità, ma che hanno bisogno di un supporto di paternità del loro vescovo, e non di psicologi che capiscono nulla dell’essere umano.
So magari di scandalizzare anche solo pronunciando il nome dell’arcivescovo, ritenuto anticonciliare. Vescovo Mario e i sette collaboratori, leggete il libro: “Paternità spirituale del card. Giuseppe Siri – Lettere personali ai suoi sacerdoti (1946-1987)” (Edizioni Cantagalli).
Lo leggano anche i preti milanesi, anche i chierici. Farà del bene a tutti, lo ha fatto anche a me. In fondo, anche ai preti di oggi manca tanto senso paterno nei riguardi dei propri parrocchiani.
Commenti Recenti