Migrazioni e disuguaglianze: l’incredibile intuizione di Enrico Berlinguer

da L’Espresso

Migrazioni e disuguaglianze:

l’incredibile intuizione di Enrico Berlinguer

Il discorso del 1977 “Austerità: occasione per trasformare l’Italia” oggi si rivela attualissimo per il suo guardo verso il futuro
di Paolo Aquilanti
06 MAGGIO 2021
Nel 1977, un celebre intervento di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo, a conclusione del Convegno degli intellettuali indetto dal Partito Comunista Italiano, fu accolto con molto scetticismo. Nei decenni successivi venne denigrato e indicato come la prova di una cultura politica arretrata, incapace d’interpretare il grande cambiamento in corso, preludio degli splendidi anni Ottanta e anche degli sviluppi successivi più radicali nell’economia e nella società. Il discorso di Berlinguer era intitolato “Austerità: occasione per trasformare l’Italia”. I suoi detrattori ne ricavarono una concezione frugale e pauperista, autoflagellatoria, una critica del capitalismo d’ispirazione etica, prepolitica, incapace d’intendere i bisogni nuovi, il desiderio di benessere, la funzione positiva dei consumi di massa, la necessità di “modernizzare” l’Italia. In tempi più recenti, vi è stato anche chi ha voluto trovare nelle parole di Berlinguer una enunciazione ante litteram delle teorie di decrescita felice.
Pochi, però, avevano colto il fondamento profondo dell’analisi di Berlinguer: l’anelito a condizioni di vita migliori di moltitudini afflitte da miseria, malattie endemiche, oppressione, nelle lande desolate, nei villaggi smarriti, in periferie metropolitane da incubo che allora si chiamavano Terzo mondo o, con espressione più gentile, Paesi in via di sviluppo. Di qui la previsione di Berlinguer sui fenomeni migratori di massa, che sarebbero aumentati fino a dimensioni enormi con la liberazione compiuta dal dominio coloniale e a causa degli squilibri tra Sud e Nord del Mondo. Questa era la motivazione della proposta, per politiche che allora si definivano di austerità, dirette a promuovere una diversa distribuzione della ricchezza e un nuovo modo di produrre e di consumare.
Ancora, nel 1982, Berlinguer dedicò un’attenzione sorprendente al tema del futuro e invitò i giovani comunisti a dedicarsi anche a quelle riflessioni con un Congresso di futurologia. Qualcuno pensò che il segretario del Pci si fosse ispirato a Stanisław Lem, autore di un libro con lo stesso titolo. Era l’anno di Blade Runner, al 22° Congresso nazionale della Federazione Giovanile Comunista. Un anno dopo, in un’intervista dedicata a “1984”, pubblicata da l’Unità con il titolo “Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere”, Berlinguer si rammaricava che quell’invito non fosse stato raccolto e spiegava in modo chiaro che non si trattava di una suggestione letteraria o predittiva. Era, invece, un’esortazione a studiare, su basi scientifiche, «le contraddizioni nuove del tempo nostro», per diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto – ricordava Berlinguer – che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi decenni. Si è cominciato a parlarne solo all’inizio degli anni Settanta. Egli si riferiva, in particolare, al Rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, commissionato al Mit di Boston dal Club di Roma nel 1972. «Prima», proseguiva Berlinguer, «e ancora per tutti gli anni Sessanta, imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni.
Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso». Da qui l’idea di un congresso su varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche), per poter offrire informazioni, valutazioni e proposte alla conoscenza e alla discussione tra i giovani. Parole pronunciate in un contesto del discorso pubblico che all’epoca, e anche dopo, mai avrebbe lasciato intuire una sensibilità a un tema così estraneo alle strategie e alle tattiche politiche.
Oggi quei motivi sono intatti, vi si sono aggiunti nomi nuovi per fenomeni già in atto, la globalizzazione, i cambiamenti climatici, e altri fenomeni con tratti imprevedibili di velocità e diffusione, la rivoluzione tecnica, la connessione permanente a distanza tra gli individui. Il tema resta lo stesso: adesso lo chiamiamo sviluppo sostenibile. Però la sostenibilità è tutta interna ai popoli dei paesi industriali avanzati, una sostenibilità G7 o al più G20, ancora una forma miope di egoismo che considera gli altri, i dannati della Terra, come un fastidio lontano o una minaccia vicina.
I programmi europei di ripresa, destinati alle prossime generazioni, ignorano le politiche migratorie, gli investimenti in favore dei paesi più derelitti dell’Africa, la necessità di considerare quei poveri non con la compassione ipocrita per i morti in mare ma nella loro dignità di persone vive e nella connessione vitale con gli europei delle nuove generazioni.
Alcuni anni fa uno studio mostrava che appena mette piede in Italia o in un altro Paese europeo, un migrante dall’Africa acquista, solo per questo, un’aspettativa di vita maggiore di molti, moltissimi anni. La pandemia ripropone le diseguaglianze, il caso indiano è eloquente, eppure si pensa ancora e sempre, se va bene, alle elemosine degli aiuti o, nei casi peggiori, agli affari predatori. Rileggere Berlinguer induce a comprenderne il pensiero e le azioni senza il pregiudizio che ne ha distorto la figura in forma duplice: icona di una politica sobria e un poco corrucciata ma dall’indiscussa superiorità etica o profeta disarmato di suggestioni millenariste aggrappate a un passato condannato dalla Storia. In quelle parole, invece, si esprimeva tutt’altro. Non un uomo politico romantico e antiquato, non un moralista regressivo, ma un leader impegnato a scrutare i nuovi segni del suo tempo e a esplorarne le cause profonde e le tensioni future, proteso a soluzioni di lungo periodo, con una presa salda sulla questione delle questioni: i modi possibili per portare il potere dai dominanti ai dominati e dunque per dare più consistenza alla democrazia.
*Magistrato del Consiglio di Stato

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