Il segreto di lunga vita della Regola benedettina (o un elogio della discrezionalità ai tempi degli algoritmi)

Tantissimi anni fa, quando, presso il Seminario di Venegono inferiore (Va) frequentavo il liceo avevo un professore che aveva l’arte di rendere facili da comprendere anche le cose più difficili, e avevo altri professori che facevano il contrario: rendevano difficili da capire le cose più semplici.
Succede anche quando si leggono certi libri, che hanno prefazioni così difficili da far scoraggiare poi a leggere il testo del libro. Solitamente, quando regalo un libro, sconsiglio di leggere le prefazioni o introduzioni. Una volta si usava mettere dopo il testo del libro una post-fazione.
C’è ancora oggi quella mania di scrivere introduzioni che sfoggiano la cultura di chi presenta il libro, quasi fosse lui più dotto del povero scrittore, che se non ha un nome famoso che lo presenti non vende alcuna copia del suo libro.
Succede anche quando sono attirato dal titolo di qualche articolo. Leggo, e leggo, e alla fine talora mi chiedo: chi ha scritto l’articolo che cosa intendeva comunicare? Il giornalista parte magari bene, e poi entra in un labirinto di parole e di concetti che lasciano il lettore quasi perso nello stesso labirinto.
Ciò che non sopporto è quando si usa una terminologia così tecnicista da richiedere qualche spiegazione dei termini, ma che viene ignorata.
Tutto per dire che anche per l’articolo che vi propongo vorrei specificare qualcosa.
Anzitutto, i benedettini non hanno inventato niente di nuovo. Si parla di discrezionalità nell’applicare la legge generale tenendo conto dei casi particolari. Già presso gli antichi pensatori greci si usavano altri termini simili alla parola “discrezionalità”. Troviamo parole come: misura, moderazione, equità, convenienza. Ma soprattutto c’era una parola in greco, epicheia, che mi avevano insegnato da quando ero in liceo: possiamo definirla una virtù, per cui ogni legge che è in sé sempre universale e astratta va applicata al singolo caso con saggezza e intelligenza. Forse oggi preferiamo parlare anche di buon senso.
La legge è uguale per tutti, si dice, ma in realtà non può esserlo senza che diventi magari un male invece che un bene. Ogni caso è a sé, e la legge va applicata tendo conto del caso singolo.
Dunque, tenete a mente la parola epicheia: senza dover scomodare Platone o Aristotele o San Tommaso diciamo che è quella saggezza di chi applica la legge universale tenendo conto di ogni caso particolare. Non siamo fatti tutti uguali.
E la cosa importante che vorrei dire è questa: più restiamo fuori di noi stessi, c’è il rischio che la legge del potere livelli tutti allo stesso modo, applicando la legge per ognuno in modo del tutto scriteriato.
Più entriamo in noi, più scopriamo la legge dello Spirito che ha sostituito la legge cartacea o carnale o strutturale.
Lo Spirito comunica con lo spirito, che, più sarà puro da ogni carnalità, più entrerà in contatto con il mondo del Divino.
Qui entriamo in un discorso talmente alto che richiederebbe una libertà interiore da non essere sopportato da un mondo carnale come quello attuale.
Ancora. Quando si parla di legge carnale è facile cadere nell’opportunismo o nel favoritismo o in eccezioni che vanno a beneficio di più privilegiati. Nel campo dello spirito, è tutto un’altra cosa.
Infine, non dimentichiamo le parole di Cristo: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!». Il sabato sta per legge. Più chiaro di così.
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Rassegna filosofica

Il segreto di lunga vita della Regola benedettina

(o un elogio della discrezionalità

ai tempi degli algoritmi)

di LUCA ANGELINI
I 73 capitoli della Regola di San Benedetto non sono mai cambiati da quando, si pensa attorno al 530 d.C., il Santo li scrisse nell’Abbazia di Montecassino. Fulgido esempio di rigidità delle norme. All’apparenza. Perché, in verità, scrive su Aeon Lorraine Daston, direttrice emerita del Max Planck Institute for the History of Science di Berlino e autrice di Rules: A Short History of What We Live By, «ognuno dei 73 capitoli della Regola prevede eccezioni e casi di mitigazione che ammorbidiscono quell’ordine apparentemente rigido».
Qualche esempio? I monaci non possono mangiare la carne di animali quadrupedi, a meno che l’abate non ne conceda il permesso a quelli deboli o malati e bisognosi di sostentamento. Il silenzio regna ai pasti, a meno che l’abate non autorizzi di intrattenere un ospite con la conversazione. Ai monaci è concessa un’emina (circa mezzo litro) di vino e non una goccia di più, a meno che non abbiano lavorato tutto il giorno sotto il caldo sole estivo. I beni privati sono proibiti a meno che l’abate non voglia diversamente. Insomma, «nessun precetto è così rigido da non poter essere piegato se l’abate giudica che le circostanze giustifichino un’eccezione: tutto dipende». E, attenzione, il punto cruciale è: «La discrezionalità dell’abate non contraddice la Regola di San Benedetto. È la Regola».
Insomma, a disciplinare la vita nei monasteri benedettini sono quelle che Daston chiama «regole spesse» (thick rules), perché attorno al precetto di partenza sono avvolte le «tre e»: esempi, eccezioni, esperienza. E, questo è, con ogni probabilità il loro segreto di lunga vita, rispetto a molte altri ideali e utopie comunitarie. «Non per niente San Benedetto chiama la discrezionalità “madre di tutte le virtù”. Quando la regola universale e la situazione particolare non si allineano, è la discrezionalità a intervenire. Non potremmo vivere senza di essa».
Non si può dire, però, che la discrezionalità («la facoltà del tutto dipende» come dice efficacemente Daston) goda di buona stampa. Perché troppo spesso, nel passato come nel presente, è sconfinata nell’arbitrio, nella parzialità, nel capriccio, nella tentazione di piegare le regole a vantaggio proprio o svantaggio altrui. La casistica, o casuistica, ossia l’arte di adattare la regola generale ai casi particolari, che è l’indispensabile corollario delle regole «spesse», è diventata — e non senza validi motivi, anche e soprattutto fuori dai monasteri — sinonimo di cavillosità interessata. Lo sa perfettamente anche Daston: «Ci piace che le nostre regole siano chiare e univoche, e soprattutto applicate con coerenza. Associamo regole applicate allo stesso modo a tutte le persone in tutte le situazioni con l’uguaglianza e la prevedibilità, due virtù cardinali dello Stato di diritto. Le eccezioni innescano immediatamente sospetti di indulgenza speciale, trattamento iniquo o capriccio sfrenato». La prevedibile conseguenza è stata che «la discrezionalità è stata sotterrata, ancora in azione costante, ma ormai clandestina. È diventata l’indispensabile facoltà che non osa pronunciare il suo nome».
Eppure, ad avviso di Daston, il valore della discrezionalità rimane: «Contrariamente alla percezione popolare che vede la discrezionalità come un’area grigia, come il dominio della conoscenza confusa, in quanto strumento intellettuale essa è in realtà una potente lente che acuisce l’attenzione su concetti non limpidi e risolve la loro ambiguità». Va però, ormai l’avrete capito, maneggiata con molta cura. Iniziando con il distinguerne l’aspetto cognitivo e quello esecutivo. «Saper distinguere casi che differiscono l’uno dall’altro in piccoli ma cruciali dettagli è l’essenza dell’aspetto conoscitivo della discrezionalità, una capacità che supera la mera acutezza analitica. La discrezionalità attinge inoltre alla saggezza dell’esperienza, che insegna quali distinzioni facciano la differenza in pratica, non solo in linea di principio. L’ipertrofia dello spaccare il capello in quattro è il peccato assillante della scolastica, e una mente che fa troppe distinzioni rischia di polverizzare tutte le categorie negli individui che le compongono, richiedendo alla fine tante regole quanti sono i casi».
Quanto al lato esecutivo, «già presente nella Regola di San Benedetto, implica la libertà e il potere di imporre le intuizioni del lato conoscitivo della discrezionalità». È evidente che far valere il lato esecutivo della discrezionalità senza dimostrare di saperla applicare con cognizione di causa la fa degenerare in arbitrio. E gli esempi sono tanti e tali che, ricorda Daston, «entro la fine del 17° secolo, nel lavoro di teorici politici liberali come John Locke, la discrezionalità esecutiva veniva dipinta con lo stesso pennello del capriccio arbitrario, un segno che il lato conoscitivo e quello esecutivo della discrezionalità avevano cominciato a scindersi». Come sintetizza Daston: «La discrezionalità cognitiva senza quella esecutiva è impotente; la discrezionalità esecutiva senza quella cognitiva è arbitraria».
Ma, oggi, c’è ancora spazio per un recupero di una discrezionalità ben temperata? In apparenza, non molto. «La discrezionalità esecutiva — quella prerogativa sovrana di decidere senza ulteriori giustificazioni — ha perso gran parte della sua legittimità. Come i teorici politici liberali dell’Illuminismo contrapponevano lo Stato di diritto allo Stato dei singoli, così le odierne comunità politiche liberali contrappongono il presunto esercizio “soggettivo” della discrezionalità all’applicazione “oggettiva” di regole rigide e definite — per esempio, il lasciare al giudice la quantificazione della pena di un criminale condannato, rispetto allo specificare condanne obbligatorie per i diversi reati»
Oggi sembra decisamente il tempo delle «regole sottili» (thin rules): «Le regole sottili sono trasparenti, nette, non elaborate. In contrasto con le regole spesse, quelle sottili sono prive di qualsiasi menzione di esempi, eccezioni ed esperienza. Non anticipano l’imprevisto. Né consentono alcun margine di discrezionalità; anzi, spesso sono espressamente studiate per ridurla al minimo: ad esempio, le regole che impongono di fermarsi al semaforo rosso, o di pagare un oggetto in un negozio prima di intascarlo, o di limitare la quantità di bagaglio a mano per i passeggeri degli aerei. Idealmente, le regole sottili possono essere eseguite meccanicamente, sia da macchine reali che da esseri umani che dovrebbero funzionare regolari come le macchine». Non per niente, le regole più «sottili» di tutte sono gli algoritmi.
Eppure, osserva Daston, possono derivare ingiustizie tanto dalle regole «spesse» che da quelle «sottili». Per dimostrarlo fa un esempio un po’ estremo, quello di un pedone investito e ucciso in Arizona nel 2018 da un’auto Uber senza conducente il cui algoritmo non aveva previsto che qualcuno potesse attraversare in quel punto, oltretutto spingendo una bici (che ha mandato in tilt la sua definizione programmata di pedone). «Vale la pena fare un passo indietro rispetto a questo tragico incidente per riflettere su cosa servirebbe per rendere il mondo sicuro per (o, meglio, al sicuro da) algoritmi che non possono adattarsi a circostanze impreviste – in altre parole, non possono esercitare la capacità di giudizio richiesta per modellare regole universali attorno a particolari recalcitranti».
Certo, anche le regole «sottili» hanno dei vantaggi. E, in certi luoghi, tempi e circostanze, funzionano. «In alcune società, in alcune epoche, una combinazione di volontà politica, infrastruttura tecnica e consenso sociale ha notevolmente allungato il raggio della prevedibilità e convalidato le aspettative di stabilità e affidabilità. Questi sono gli ecosistemi in cui le regole sottili possono funzionare, almeno la maggior parte delle volte. Associamo queste isole di ordine alla modernizzazione, con aeroporti scintillanti e all’avanguardia, connessioni Internet ad alta velocità, governi efficienti e tutti gli altri presupposti per poter riempire i nostri calendari con eventi pianificati con mesi o addirittura anni di anticipo. Secondo gli standard storici mondiali, almeno alcune società moderne sono straordinariamente ordinate e stabili, motivo forse per il quale l’ottimismo che vorrebbe “algoritmi per ogni cosa” è sopravvissuto a così tanti fallimenti».
La pandemia ci ha però insegnato quanto anche le società più ordinate possano essere messe sottosopra dalla sera alla mattina, con la necessità di scrivere nuove regole e/o adattare le vecchie alle mutate circostanze.
La conclusione di Daston è che «la scelta, quindi, non è tra regole spesse e sottili: abbiamo bisogno sia della resilienza delle regole spesse sia della prevedibilità di quelle sottili. La sfida consiste nel mappare i territori in cui ciascuna di esse funziona meglio, identificando zone di alta e bassa variabilità e progettando le regole di conseguenza. Dove regnano stabilità e affidabilità, le regole possono essere sottili e spietate come un abito firmato; dove c’è una notevole fluttuazione e variabilità, regole spesse creano spazio per la discrezionalità, come pantaloni della tuta elasticizzati. Ma in un’epoca incantata dalla prospettiva della prevedibilità e del controllo totale, e scettica sulla legittimità della discrezionalità in qualsiasi ambito, questo esercizio di mappatura presuppone un riesame del possibile e del desiderabile. Non viviamo in un mondo senza sorprese. Ma davvero vorremmo farlo? (…) Sebbene il nostro mondo sia meno variabile e più prevedibile del mondo di San Benedetto, non è ancora il mondo congelato degli algoritmi. E fintanto che gli universali possono essere attaccati da particolari imprevisti, la discrezionalità dovrà venire in soccorso. L’unica questione è se lo faccia in modo furtivo e segreto oppure apertamente, in un modo di nuovo riconosciuto e rispettato come una forma della ragione pubblica».
E qui sta, forse, un punto cruciale. Daston fa bene a sottolineare che, per essere accettabile e distinta dall’arbitrio, la discrezionalità deve rendere espliciti — e quindi controllabili e giudicabili — i criteri in base ai quali viene esercitata. La complicazione aggiuntiva — come sa chi abbia letto Rumore, di Daniel Kahneman, Olivier Sibony e Cass Sustein — è che non ci si deve guardare soltanto dalla discrezionalità maligna, ma anche da quella inconscia. Che ci fa, ad esempio, prendere decisioni discrezionali in base all’umore, alla condizione psico-fisica o persino in base all’appetito o al meteo del momento. Contro questo tipo di discrezionalità «non cosciente», gli algoritmi una mano possono darla (assieme a metodi e procedure per rendere le decisioni meno affette da «rumore»). E magari guadagnarsi così un perdono dei peccati, persino dai benedettini.

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