Elezioni europee 2024 e candidati, ecco i politici che da 30 anni ci ingannano

dal Corriere della Sera

Elezioni europee 2024 e candidati,

ecco i politici che da 30 anni ci ingannano

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza
Alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno ogni partito ammesso presenta la propria lista, l’elettore ne può votare una sola e scegliere al suo interno fino a 3 candidati. Attenzione: se si dà più di una preferenza, bisogna però indicare almeno un uomo e una donna (qui, art. 14). Al Parlamento europeo poi verrà eletto chi ottiene più preferenze, primi tra tutti i leader di partito che a Bruxelles non ci andranno e lo sanno già.

I leader capolista

La premier Giorgia Meloni è capolista in tutta Italia per FdI; il ministro degli Esteri Antonio Tajani è capolista nelle circoscrizioni Nord Ovest, Nord Est, Centro, Meridione; la segretaria del Pd Elly Schlein al Centro e nelle Isole; e il fondatore di Azione Carlo Calenda in tutte le circoscrizioni tranne nel Nord Ovest dove c’è Elena Bonetti. Fa eccezione l’ex premier Matteo Renzi, fondatore di Italia Viva e candidato da ultimo in lista per Stati Uniti d’Europa che, a suo dire, se lo votano andrà a Strasburgo. Gli altri sono lì per acchiappare voti, con la scusa di metterci la faccia e provare a portare il partito più in alto possibile.

Gli effetti dei nomi-civetta

Le chiamiamo candidature-civetta, ma di fatto sono un imbroglio che gli italiani accettano, o subiscono, da 30 anni. Al loro posto all’Europarlamento, infatti, non andrà il più apprezzato dai rispettivi elettori, ma il primo dei non eletti della lista, a volte sconosciuto ai più. Vediamo gli effetti delle candidature-civetta nelle ultime elezioni europee. Nel 2019 Matteo Salvini, ministro dell’Interno, fa da capolista per la Lega in tutte le circoscrizioni. Solo nel Nord Ovest raccoglie 696.027 voti, ma al suo posto a Strasburgo ci va Marco Campomenosi con 17.788 preferenze. Fa da civetta, come presidente di FdI, anche Giorgia Meloni che solo nel Nord Ovest raccoglie 92.850 voti, ma poi cede il posto a Pietro Fiocchi, che di preferenze ne ha solo 9.300. Nel grafico in pagina pubblichiamo, con l’aiuto del Centro Italiano Studi Elettorali (Cise) guidato da Lorenzo De Sio, tutti i voti presi e poi traditi anche nelle altre circoscrizioni, dove sono volati in Europa candidati con voti infinitamente più bassi dei due leader capolista.

Tutti i precedenti

Il male è purtroppo antico: dal 1994 i candidati civetta sono 24. Svetta Silvio Berlusconi: da presidente del Consiglio in carica si candida nelle elezioni europee del 1994, 2004 e 2009. Nel 2004 si presenta anche il suo vicepresidente Gianfranco Fini e i ministri Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, oltre a Totò Cuffaro da presidente della Regione Sicilia. Sempre da ministri in carica, nel 2009 fanno la stessa cosa Umberto Bossi e Ignazio La Russa; nel 2014 Maurizio Lupi. Da leader di partito si presentano nel 2004 Oliviero Diliberto, Marco Follini, Clemente Mastella, Alfonso Pecoraro Scanio, e Achille Occhetto; nel 2009 Antonio Di Pietro. Milioni di preferenze in fumo.

Il confronto con gli altri Paesi

Un’abitudine all’inganno solo italiana. Per le prossime elezioni europee non risultano candidati-civetta negli altri Paesi membri, ad eccezione dell’olandese Geert Wilders, leader di estrema destra fondatore del Partito per la Libertà (Pvv), in corsa come candidato di bandiera. Un recidivo, visto che già nel 2014 e nel 2019 è stato eletto al Parlamento europeo ma poi non c’è andato. E anche setacciando il passato la storia ha un altro passo. Dentro le liste (per lo più bloccate) i partiti indicano candidati con le competenze specifiche per ogni settore di cui dovranno occuparsi, proprio perché è a Bruxelles che si prendono le decisioni che contano. Nel 2019 la ministra della giustizia tedesca Katarina Barley si candida, viene eletta al Parlamento Ue, e lascia il governo Merkel. Lo stesso fa Nathalie Loiseau, ministro degli Affari europei francesi, che lascia Macron una volta eletta. Solo Josep Borrell, ministro degli Esteri spagnolo, rinuncia al seggio, ma perché stava per essere designato Alto Rappresentante della politica estera Ue. E infatti pochi mesi dopo si dimette dal governo Sanchez.

La fiducia tradita

Non è l’unico modo in cui in Italia viene ingannata la fiducia degli elettori. Con i dati messi a disposizione da Matteo Boldrini (Luiss Guido Carli) e Selena Grimaldi (Università di Macerata), andiamo a vedere in quanti, una volta eletti, sono andati al Parlamento europeo, ma poi si sono dimessi per occupare un posto che ritenevano migliore.
Dal 1994 al 2019, esclusi i pluri-eletti, abbiamo mandato a Strasburgo 346 europarlamentari: 66 hanno lasciato l’incarico prima della fine del mandato: 32 eletti sono di centrodestra, 28 di centrosinistra, 6 tra Lista Pannella, Patto Segni, Partito popolare italiano, Cdu, Lista Bonino e M5S
Durata media della loro permanenza: mille giorni, cioè meno di 3 anni (contro i 5 previsti dalla legislatura). Nel 1994, fra gli eletti si sono dimessi in 5. Nel 1999 in 10. Da lì in avanti oltre che per membri del governo, governatori e assessori regionali, scatta l’incompatibilità del doppio incarico anche per sindaci, presidenti di Provincia, consiglieri regionali, deputati e senatori (legge 90 del 2004 art. 1 comma 1 qui e legge 78 del 2004 art. 3 comma 2 e art. 4 comma 1 qui). Così gli eletti nel 2004 che si sono dimessi salgono a 29. Nel 2009 scendono a 7, nel 2014 sono in 6, e nel 2019 ben 13.

I motivi delle dimissioni

Dei 13 eletti nel 2019 che poi si sono dimessi in 9 hanno lasciato la Ue per diventare deputati o senatori dopo le elezioni politiche del settembre 2022: Silvio Berlusconi (FI), Antonio Tajani (FI), Andrea Caroppo (Lega), Mara Bizzotto (Lega), Marco Dreosto (Lega), Raffaele Fitto (FdI), Carlo Calenda (eletto con il Pd, poi Azione), Simona Bonafè (Pd), Eleonora Evi (M5S). Invece Luisa Reggimenti (Lega) e Simona Baldassarre (Lega) sono uscite per andare a ricoprire il ruolo di assessore regionale. Pierfrancesco Majorino (Pd) ha preferito andare in consiglio regionale. Infine Roberto Gualtieri (Pd) per diventare ministro dell’Economia. Complessivamente dal 1994 il 60% di chi ha lasciato prima del tempo l’Europarlamento è perché è stato eletto alla Camera, al Senato o ha avuto incarichi di governo; il 21% è andato in Regione; il 9% a ricoprire cariche locali come quella di sindaco; un altro 10% sono giornalisti e attori che sono tornati al proprio lavoro o politici che si sono ritirati.

I casi eccellenti

C’è anche chi il Parlamento Europeo lo ha lasciato anzitempo non una, ma due volte. Sono tutti di centrodestra: Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Matteo Salvini e Raffaele Fitto, che la prima volta rimane a Bruxelles meno di un anno per correre (e vincere) le Regionali in Puglia del 2000. Tra quelli che non hanno superato i 12 mesi ci sono 5 politici di centrosinistra: nel 2000 si dimette Massimo Cacciari (candidato governatore poi sconfitto del Veneto), nel 2005 Ottaviano del Turco e Mercedes Bresso (per diventare governatori), nel 2015 Alessandra Moretti (candidata governatore poi sconfitta in Veneto), infine nel 2019 Roberto Gualtieri.

Il giro di giostra

Anche in questo caso riusciamo a strappare il primato. Prendiamo la Germania, la Francia e la Spagna, dove dopo le Europee del 2019 si è votato come da noi almeno una volta per le elezioni nazionali (in Germania nel 2021; in Francia nel 2022; in Spagna nel novembre 2019 e nel 2023). Se in Italia si sono dimessi in 13 su 73 eletti (18%), in Francia sono 11 su 74 (15%), in Spagna 7 su 54 (13%) e in Germania 9 su 96 (9%). I fatti purtroppo mostrano la scarsa considerazione che i politici italiani hanno per la più alta istituzione europea, usata un po’ come una giostra dove salire e scendere quando conviene. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che è a Bruxelles che si prendono le decisioni che contano: dalle politiche agricole a quelle per governare l’immigrazione, dalla transizione energetica alle regole sul debito pubblico, alla costruzione sempre più urgente di una difesa comune. E le prossime elezioni sono le più importanti degli ultimi 30 anni, perché dall’esito dipenderà il futuro dell’Europa, e di conseguenza il destino dei singoli Paesi membri.
(ha collaborato Alessandro Riggio)
dataroom@corriere.it

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