Omelie 2022 di don Giorgio: NONA DOPO PENTECOSTE

7 agosto 2022: NONA DOPO PENTECOSTE
1Sam 16,1-13; 2Tm 2,8-13; Mt 22,41-46
Quando si leggono pagine come quella che la liturgia ci ha presentato come primo brano della Messa di oggi la tentazione è di commentare: “Cose del passato, storie superate, magari eventi anche esaltati al di là della loro storicità”.
Ogni popolo ha una sua lunga anche millenaria storia che risale all’origine dei tempi, quando il mito trova sempre modo per cogliere qualcosa di ancor più profondo di una cronaca che, tra parentesi, nessun popolo ha interesse a enfatizzare.
La storia ebraica, non so se a differenza delle altre storie dei popoli antichi, è talora di una tale crudezza che sembra quasi compiacersi di vicende per nulla esemplari. Forse esemplari sì nel senso che la storia insegna sempre qualcosa di positivo, anche quando il tessuto socio-politico-religioso è così complesso da mettere in dubbio quella verità eterna che, nonostante tutto, magari con fatica, prima o poi s’impone.
Gli antichi dicevano: “historia magistra vitae”, la storia è maestra di vita. Fa parte della frase completa di Cicerone: «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», ovvero “La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità».
Dunque, la storia insegna, non si può dimenticare, ma quale storia? Non una sequenza fredda e noiosa, tra l’altro un vero stillicidio degli studenti, di eventi, di date, di ricorrenze, ecc.
La storia è anche Storia con l’iniziale maiuscola. C’è dietro un Disegno divino, che già gli antichi sapevano vedere o intravedere, e che i profani o carnali, coloro che si limitano alla parte esterna degli eventi, non sanno cogliere.
D’altronde, come si può separare il passato dall’oggi e dal domani: c’è un legame profondo che li unisce. Noi siamo figli del passato, e nel nostro dna abbiamo intere generazioni che ci hanno preceduto. Certo, ecco la domanda; come rivivere la storia del passato? Quali insegnamenti trarre?
Il primo brano parla di un profeta, Samuele, parla di due re, del primo re d’Israele, Saul e del suo successore, Davide, e parla di un popolo, l’eletto, sempre tentato di tradire l’Alleanza con il suo Signore.
Succede che anche il popolo d’Israele vuole un re, come gli altri popoli, e Dio pur contrario lo accontenta, ma a modo suo: la scelta è sull’uomo peggiore, Saul, che subito viene sostituito con un altro re, Davide, che all’inizio promette bene, poi anch’egli tradisce la fiducia di Dio. Tuttavia, nella tradizione ebraica e anche cristiana, Davide rimarrà come il re santo, dalla cui discendenza verrà il Messia.
Una riflessione che mi viene spontanea riguarda le scelte di Dio e degli uomini di Dio: pensiamo alla storia dei Papi nella Chiesa: ci furono grandi santi e anche grandi peccatori. Santi vescovi che non sono stati eletti papi. Possiamo dire che la storia della Chiesa è fatta più di miserie umane che di santità esemplari.
Il discorso poi si farebbe lungo e complesso sul potere della gerarchia ecclesiastica. Che cosa conta di più: la bravura, la competenza, la cultura dei gerarchi, oppure la loro santità personale? Guidare una Chiesa così mastodontica che cosa richiede? Pensate anche alle grosse diocesi? E, nel piccolo, pensate anche alle parrocchie, più o meno estese.
Torna la domanda: conta di più la santità o le doti di capacità di governo? Qualcuno potrebbe rispondere: ci vuole la santità e ci vogliono le doti di capacità di governo. Ci sono stati esempi di grande santità e di grande capacità di governo: pensate a sant’Ambrogio o a sant’Agostino. Un discorso a parte sui papi.
È indubbio che governare una Chiesa o una grossa diocesi o una grossa comunità pastorale non è tanto semplice, nemmeno per chi ha una grande fede nel Signore. Ricordiamo Celestino V, monaco eremita elevato al soglio pontificio, che poi dopo qualche mese diede le dimissioni per tornare ad essere monaco.
Tutto sta in questa domanda: come conciliare l’autorità o il potere con la santità interiore? Ogni potere richiede compromessi, il che fa a pugni con le proprie convinzioni personali.
La cosa assurda è che, come nel caso biblico, Dio prima sceglie Saul, e poi lo sostituisce con Davide. Sembra quasi che ci prenda in giro. Prima sceglie un certo papa inetto (non dimentichiamo che le scelte papali sono garantite dallo Spirito santo), e poi ecco un altro papa più valido, ma il problema è sempre in vista della conduzione della grossa struttura della Chiesa.
Qualcuno dirà: quanti papi santi, quanti vescovi santi, quanti preti santi! Ma qualcosa non mi convince al pensiero che la santità è qualcosa che sta stretta in un mondo ecclesiastico, dove il potere ha una sua predominanza.
Quanti preti rovinati proprio da vescovi ritenuti santi, che agivano in buona fede! C’è una santità che fa paura, quando è legata a virtù morali che in realtà sono chiusure profetiche. Ed ecco la domanda: lo spirito profetico che cos’è? come sta insieme con le cosiddette virtù morali e con il potere?
Perché Celestino V ha rassegnato le dimissioni, ed è tornato alla vita eremitica? Si era sentito un incapace nel guidare la Chiesa istituzionale, che gli imponeva di tradire le sua spiritualità.
Ogni papa, ogni vescovo, ogni prete si sente legato prima ad una struttura, a un dogma, e poi al proprio mondo interiore, e si arriva o a contraddirsi sistematicamente con una interiore lacerazione che non potrà reggere a lungo o a convivere ipocritamente, apparendo nello stesso tempo un mistico e un burocrate.
Quando affronto questo problema del rapporto tra l’essere interiore e l’autorità o potere esteriore, mi viene in mente un pastore protestante tedesco del 1500, Valentin Weigel. Piero Martinetti, nel suo libro “Gesù Cristo e il cristianesimo” riferisce le parole con cui il pastore luterano intendeva giustificare che in lui il mistico e il pastore avessero ciascuno la sua vita separata: “Tu sei prete e sai che la tua condizione è falsa e contro la religione: lascia quindi che sia prete il tuo uomo esteriore, che esso porti il gioco o la croce, lamentatene con Dio e guarda bene che non sia prete il tuo uomo interiore”.
Forse per questo, quando si va in pensione, e si lasciano certi incarichi che fanno parte della religione, il prete si abbandona al suo mondo interiore e si spoglia del suo essere prete esteriore per essere radicalmente mistico.
Valentin Weigel così pregava: “Dio onnipotente, non ti trovo qui o là nel mondo, ma trovo la tua dolcezza in me, la sento e la gusto”.

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