Nadia Urbinati: “È finito il sogno americano”

da L’Unità
Il risultato del voto americano

Parla Nadia Urbinati:

“È finito il sogno americano”

«Quella del tycoon è una “rivoluzione” che va incontro ai desiderata del mondo produttivo tecnologico, che è sempre più globale e che non vuol più stare sotto lo Stato», dice la politologa. «La disfatta dem? È finito il sogno americano»
Esteri – di Umberto De Giovannangeli
7 Novembre 2024

Si scrive Trump, si legge Musk. Perché il trionfo elettorale del tycoon è qualcosa che va oltre la sfera tradizionale della politica e che non può essere spiegato rifacendosi al populismo, al sovranismo etc. C’è un passaggio d’epoca con l’affermarsi di un capitalismo tecnologico-mediatico, di cui Elon Musk, il “Doge”, è il volto, non unico, e la sostanza. Un capitalismo che non conosce né vuole limitazioni. È una “rivoluzione” sociale e culturale – regressiva ma pur sempre “rivoluzione” – che, guardando al passato, riporta ai tempi di Ronald Regan e del “reaganismo”.

Quanto ai Democratici, accollare tutte le responsabilità alla candidatura “sbiadita” di Kamala Harris, sarebbe non voler guardare in faccia la realtà. Perché la disfatta dei Democratici viene da lontano e investe l’incapacità di fare i conti e dare risposta al disagio sociale, alla rabbia, dell’America profonda, alle sue tante “periferie”. Una riflessione a tutto campo, dolorosa, lucida, quella di Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.
Professoressa Urbinati, l’America ha scelto Donald Trump. A caldo, come leggere questo risultato e le sue ricadute interne e internazionali?
La botta è di quelle difficili da assorbire. E di tale portata che ha bisogno di riflessioni meditate, profonde, senza scorciatoie semplificatorie. Perché non si tratta “soltanto” di una vittoria politica. Dietro il trionfo di Trump c’è l’affermarsi del “trumpismo” che è qualcosa di più complesso e articolato di un rifarsi alle categorie del “populismo” e del “sovranismo”. Sappiamo quello che Trump vuole e ciò che vuole è molto problematico per chi crede che ci sia ancora spazio per la democrazia liberale, per la divisione dei poteri, per il governo della legge, per la separazione tra la sfera economica e quella politica. Non si tratta solo di valori. Sono il frutto di una tradizione secolare che è sotto pressione, per ragioni diverse che andranno analizzate con calma. Una delle quali, e questo lo si vede con Musk, è la tensione, che è nuova ed è molto forte, tra la forma-Stato, con obblighi, norme, regole, limitazione dei poteri, e il potere del capitale tecnologico monopolistico. Quello impersonato da Elon Musk. Lui e non solo. La lettura del voto chiama in causa categorie e visioni che non possono essere ingabbiate in vecchi schemi ideologico-identitari. La vittoria del Trump “muskizzato” non è nel segno del vecchio conservatorismo portato all’estremo. C’è un nuovo che avanza e che s’impone. Non ci può piacere, ma è così. Ci sono cose molto più complicate in campo.
Il tracollo dei Democratici è solo responsabilità di una candidatura “sbiadita”?
No, dare questa lettura “giustificazionista” sarebbe sbagliato oltreché ingiusto nei confronti di Kamala Harris. Dietro, c’è una storia breve e una storia lunga.
Partiamo dalla breve, professoressa Urbinati. Cosa chiama in causa?
La responsabilità di Biden. Pesantissima. Una volta eletto, nel 2020, aveva detto, senza che nessuno gli avesse puntato una pistola alla tempia, di voler adempiere a un solo mandato presidenziale. Poi, in corso d’opera, ha deciso di ricandidarsi. E lì sono cominciati i casini, che si sono ingigantiti con l’avanzamento dell’età e l’immagine data di un presidente non in condizione di essere presente a se stesso da poter essere per altri quattro anni il Presidente. Un grande leader si misura anche dal coraggio di saper uscire di scena al momento giusto. Biden quel coraggio non l’ha avuto. In questo modo ha bruciato le primarie, che potevano essere, come sono sempre state, il momento topico per conoscere e far conoscere all’America il nuovo candidato. Quando poi è stato costretto a ritirarsi, la Harris è entrata in corsa, ci sono stati praticamente solo pochi mesi, un mese e mezzo-due per conoscerla, come candidata e non come la vicepresidente di Biden, e perché lei potesse costruire la propria leadership. Non possiamo accollarle tutte le responsabilità. Kamala Harris ha il carattere che ha. Probabilmente all’interno di una normale scelta del candidato, attraverso le primarie, non sarebbe stata lei la candidata scelta. È stata imposta dalla presunzione di Biden che avendo fatto così bene, meritasse altri quattro anni per stabilizzare le sue politiche, come se gli altri non potessero fare altrettanto.
Questa è la storia breve. E quella lunga?
Beh, è la storia di un’America dalle profonde sofferenze che nessun partito democratico o anche socialdemocratico, può risolvere. Perché la questione è profondamente legata ad una economia capitalistica che è molto aggressiva, che non fa sconti a nessuno e che quindi mette sempre più persone nelle condizioni di non poter pensare più, neanche lontanamente, al “sogno americano”. Si pensi agli immigrati, anche i più recenti, che erano venuti in America, spesso a prezzo di grandissimi sacrifici, per costruirsi un mondo migliore per la propria vita e quella dei loro figli, e poi questo non avviene, né per loro né per i loro figli, per quale motivo dovrebbero restare dentro a dei valori che sono stati costruiti proprio per rendere possibile questa vita migliore, salvo poi mostrarsi fallaci o comunque irrealizzabili. C’è una disaffezione non solo dei “vecchi” cittadini, ma anche di quelli “nuovi”.
Ad esempio?
Harris non ha preso i voti dei latinos. Questi nuovi cittadini che vengono con grandi speranze poi percepiscono quelli che vengono o vorrebbero venire dopo di loro, come una minaccia. Non scatta la solidarietà, ma al contrario i “nuovi” cittadini diventano i più forti anti-immigrati. C’è poi da considerare che Harris non ha fatto il pieno, almeno non nelle dimensioni sperate, del voto delle donne bianche. In questo segmento elettorale ha vinto ma non abbastanza. Donne della middle class, delle periferie, evidentemente hanno seguito la sirena machista trumpiana, che va anche di moda. Ci sono settori della società che amano questo modello di uomo. Non è che le donne sono tutte eguali, buone e belle perché sono donne. Sono umanamente diverse le une dalle altre. Last but non least, Trump si è preso anche voti tra i giovani. Non è che i giovani non sono andati a votare perché non convinti dalla Harris, è che una parte, non maggioritaria ma comunque significativa e al di sopra delle attese della vigilia, è andata a votare e ha votato Trump. Nelle città universitarie, ad esempio, si vede questa presenza di voto repubblicano. Stati come New York hanno più repubblicani di quanti abbiano avuto mai in passato. Quello di New York rimane uno stato Democratico ma con molta sofferenza. Non ha votato per Trump solo l’America rurale, “periferica”; ma anche quella urbanizzata, delle grandi città, anche una città liberal come New York.
Professoressa Urbinati, la vittoria di Trump è qualcosa che va oltre la dimensione strettamente politica?
Per me, sì. Come sono state le grandi vittorie del passato che hanno cambiato profondamente, dalla radice, il partito Repubblicano e l’America. Basti pensare a Reagan, una vera e propria rivoluzione. Quella di Trump è una “rivoluzione” che va incontro ai desiderata del cosiddetto mondo produttivo, in realtà solo tecnologico, che è sempre più globale e sempre più insofferente di essere sotto lo Stato In buona sintesi, quella di Trump è una politica di deregolamentazione del mercato. Su questo attaccherà l’Europa. Non è che lo fa in nome di un vecchio nazionalismo. Lui è andato oltre “America first”. Lui ha scelto la strada della deregolamentazione globale per accontentare le volontà espansionistiche degli enormi interessi delle corporation. E questo è un problema molto, molto serio. Musk non è li per caso.
Il tracollo dei Democratici, che oltre la Casa Bianca perdono anche la maggioranza al Senato.
Questa è grossa. E rende ancor più dolorosa la disfatta dei Democratici. Perché il Senato detiene il potere di veto sulle prerogative legislative del Presidente. Il Senato che esce dal voto non eserciterà più questo potere di veto. E anche il Congresso, a maggioranza repubblicana, per quella che è stata eletta. E poi hanno il controllo della Corte suprema. C’è un allineamento di poteri, che rende il mito della divisione di essi, per l’appunto un mito. Trump ha dimostrato, nelle forme più eclatanti e inquietanti, la sua insofferenza per la limitazione dei poteri, e adesso non ha nemmeno bisogno di far tanto per imporre il suo potere, perché sono tutti allineati con lui. E questo è un altro problema molto, molto serio.
Il tracollo dei Democratici non è anche la sconfitta delle grandi famiglie politiche, dai Clinton agli Obama, che hanno dettato la linea, e i candidati, nella storia recente dei Dem?
Non sarei così asseverativa. Quel che si può dire è che in momenti, come questo, di grande sofferenza di molta parte della società – se si leggono i libri di Angus Deaton si capisce molto bene come vi sia una parte di America, fatta da una middle class che lavora ma che non riesce più a vivere dignitosamente – se si pensa a questo e poi si vedono queste oligarchie “buone” dei Democratici ma non solo, si pensi alle grandi star della musica, del cinema dello sport, che non hanno mosso un voto, persone miliardarie- Beyoncé, Taylor Swift etc – ecco che scatta in quella parte di America, maggioritaria socialmente, che non regge, una reazione di rigetto, di repulsione. C’è uno scollamento di classe all’interno del Partito democratico, già evidente in passato ma che adesso è diventata una faglia enorme. Se si va in Indiana, in Michigan, ci si rende conto quanto è grama la vita. Le grandi famiglie o i privilegiati che ti dicono cosa è buono e giusto fare e votare, producono rabbia e producono una reazione del tipo “ah sì, allora ti faccio vedere io”.
Il mondo e Trump 2.0. Cosa c’è da attendersi o da temere?
Lui farà quello che ha promesso. Lascerà mano libera a Netanyahu, suo amico e sodale, per far ciò che vuole a Gaza, in Libano e oltre. C’è poi da tenere presente che Trump è un fervente anti-iraniano. Il rapporto con l’Iran sarà molto più conflittuale. Il Medio Oriente sarà ancora più infuocato. Quanto all’Ucraina, al di là della relazione con Putin, Trump ha detto chiaro e tondo di volersi disimpegnare dall’Europa intesa come Unione europea. Anzitutto, perché la considera fonte di regolazione del mercato che limita l’espansionismo onnivoro dei Musk. In secondo luogo, perché considera la Nato un vecchio armamentario non più utile ma costoso. Questo farà sì che Paesi europei si riarmeranno, come è avvenuto in passato, e useranno l’industria bellica per ridare ossigeno alle loro economie che sono in recessione. Penso, ad esempio, alla Germania. A un determinato sistema militare-industriale europeo l’elezione di Trump fa molto comodo. E poi c’è la Cina. Su questo fronte, Trump continuerà la stessa politica di “guerra commerciale” condotta da Biden, e prima di lui dallo stesso Trump. Gli scenari non sono tra i più pacifici, con Trump alla Casa Bianca, come pure qualcuno, anche a sinistra, ha detto e scritto. E poi ci sarà un effetto psicologico sulle destre europee. Mi aspetto che il governo Meloni metta il turbo sulle riforme istituzionali, che acceleri nella costruzione di una Italia più di destra. Così faranno i movimenti e gli autocrati, vedi Orban, che si riconoscono in Trump. È una svolta autoritaria globale, almeno nel mondo occidentale.

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