La forza di Peppino Impastato: il martire irriverente che dileggiava i boss ora è l’idolo dei giovani

Un murale dedicato a Peppino Impastato
da www.repubblica.it
08 MAGGIO 2023

La forza di Peppino Impastato:

il martire irriverente che dileggiava

i boss ora è l’idolo dei giovani

di Lirio Abbate
Domani ricorrono i 45 anni dall’omicidio dell’uomo che la mafia tentò di fare passare come terrorista. E sono ancora vivi i veleni per i depistaggi
È un simbolo della resistenza, Peppino Impastato, un’immagine iconica della lotta alla mafia fatta con l’informazione e la denuncia. La forza delle sue idee lo hanno reso un punto di riferimento per gli adolescenti. E i 45 anni che ci separano dalla sua uccisione (9 maggio 1978) non hanno scalfito l’esempio di questo giovane irriverente che lottava contro i boss.
Il tempo trascorso ha fortificato la memoria, e le migliaia di persone che ogni anno si presentano a Cinisi a visitare “casa memoria” o nel giorno dell’anniversario della sua uccisione, lo rendono “immortale”.
Le parole e le informazioni amplificate da un microfono di una piccola radio privata nel palermitano sono state le sue armi. Uno strumento di comunicazione efficace per diffondere notizie che svelavano intrecci mafiosi in una zona dove Cosa nostra era protagonista non solo di un vasto traffico di eroina fra la Sicilia e l’America, ma anche di speculazioni edilizie. Il boss Gaetano Badalamenti si sentiva il padrone, abituato a mantenere un ferreo controllo del territorio e degli uomini, mal sopportava l’attività di Impastato.
E poi c’era quel suo modo irridente di sfidare il padrino e i suoi picciotti. Peppino era un leader e un bravo comunicatore. Non aveva in tasca la tessera di giornalista, ma sapeva informare. Proveniva dall’esperienza della sinistra extraparlamentare e con il suo modo di fare costituiva una costante spina nel fianco dei mafiosi.
Il boss veniva rappresentato con irriverenza da Peppino nelle sue trasmissioni radiofoniche. Storpiava il nome e lo chiamava «il grande capo, Tano Seduto». E i cittadini ridevano di lui. Sogghignavano nascosti nelle loro case mentre ascoltavano la radio. L’ironia e l’irriverenza erano il taglio informativo per far comprendere gli affari illegali del boss a spese della comunità.
La paura che avevano a Cinisi di Badalamenti portava a isolare Peppino, che costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il boss, rappresentando in ogni sua trasmissione, ogni sua parola, una sorta di sfida e oltraggio allo strapotere mafioso. Per questo Badalamenti decide di ucciderlo. Andava eliminato con la violenza, ma anche con la calunnia per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell’antimafia e per questo motivo i suoi sicari hanno provato a far credere che era morto mentre metteva una bomba sui binari della ferrovia. Volevano farlo passare per terrorista.
Poco prima dell’una di notte del 9 maggio 1978 Peppino Impastato viene sequestrato da un commando e trascinato sui binari, massacrato a colpi di pietra. Una volta tramortito è stato legato a una carica esplosiva e fatto esplodere sulle rotaie. Di Peppino sono rimasti solo brandelli di carne.
La mafia voleva una messinscena per simulare la morte accidentale di un “Impastato eversore”, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico, come hanno avvalorato alcuni ufficiali dei carabinieri che si sono occupati delle indagini.
Antonino Caponnetto, capo dell’Ufficio istruzione ai tempi di Borsellino e Falcone, definì i ritardi e le omissioni degli apparati investigativi come un «depistaggio». I magistrati si resero conto di essere stati fuorviati e iniziarono a indagare sulla pista mafiosa, ma vennero bollati come giudici rossi. Il maggiore dei carabinieri Tito Baldi Honorati nella corrispondenza interna diretta ai vertici dell’Arma, accusava il giudice istruttore Rocco Chinnici di avere sposato l’ipotesi dell’omicidio di mafia perché magistrato di sinistra.
Nella lettera si legge: «Solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica». Queste parole — non condivise allora dalla scala gerarchica dell’Arma — furono scritte dopo che Chinnici era stato ucciso dalla mafia, non certo per le sue pretese ambizioni elettorali, ma perché era uno di quei magistrati che non si limitava a indagare solo sulla manovalanza mafiosa, ma pure sui potenti colletti bianchi che dominavano la città e la regione.
Ci si chiede perché quelle indagini furono depistate: per incompetenza di chi indagava o perché Badalamenti doveva essere protetto? Sostenere la pista del suicidio escludendo qualsiasi responsabilità del capomafia è paradossale, tanto che i pm pochi anni fa hanno indagato, ipotizzando che uno degli investigatori dell’epoca Antonio Subranni, avrebbe compiuto questa scelta «in cambio della promessa di un appoggio per una celere progressione in carriera». Accusa archiviata.
Ciò che è avvenuto 45 anni fa, come hanno scritto i pm, getta una luce sinistra sulle relazioni fra alcuni settori di Cosa nostra e le articolazioni degli apparati investigativi dello Stato, certamente non riconducibili a un mero rapporto investigatore-confidente. Ma oggi Peppino può rivivere, vincendo sui mafiosi, grazie anche alle migliaia di giovani che urlano il suo nome sotto la casa della famiglia Badalamenti, a cento passi dalla sua.
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da www.repubblica.it
27 FEBBRAIO 2022

Il libro, “Mio fratello”:

la vita rivoluzionaria di Peppino Impastato

di Lucio Luca
La storia colma di pagine inedite e di particolari mai rivelati dell’attivista antimafia più coraggioso, raccontata dal fratello Giovanni
Se uno nasce a Cinisi, a due passi da Palermo, in una famiglia di agricoltori legati alla mafia del paese, solo una cosa può fare: il mafioso, appunto. O, almeno, stare zitto. E andarsene, magari, prima che sia troppo tardi. Peppino Impastato non seguì nessuna di queste regole: restò fino all’ultimo giorno, si ribellò al padre e ai suoi amici di Cosa nostra, fece i nomi e cognomi dei boss. Peggio, cominciò a prenderli in giro dai microfoni di una radio locale, cioè di una “baracchetta” che trasmetteva nel raggio di qualche chilometro ma che, giorno dopo giorno, faceva proseliti. Soprattutto fra i più giovani.
Troppo per don Tano Badalamenti, il capomandamento di Cinisi. Sappiamo bene come andò a finire: il corpo di Peppino massacrato da un’esplosione, il goffo tentativo di far passare il delitto come un suicidio o, cosa ancor più infamante, di un tentativo di attentato andato a male. La verità, molti anni dopo, è venuta a galla e adesso il fratello di Impastato, Giovanni, ci racconta tanti episodi minimi – che minimi non sono affatto – nel suo libro Mio fratello, tutta una vita con Peppino, da qualche mese in libreria.
“Basta bugie. Lo zio Cesare è morto. Non riusciamo a pensare ad altro, io e Peppino. Paura, nemici in agguato nel buio, occhi che ci osservano, terrore per i rumori, terrore per il silenzio, terrore per le tenebre, terrore per la troppa luce che mostra dove sei… Tutti tacciono. Noi non sappiamo neanche se dobbiamo andare a scuola, domani. Se possiamo andarci. Uccideranno anche nostro padre? Uccideranno anche gli altri parenti?”.
Un racconto colmo di pagine inedite e di particolari mai rivelati quello di Giovanni Impastato, che comincia negli anni del fascismo con il padre Luigi inviato al confino e suo cognato, Cesare Manzella, il boss del paese, ucciso nei primi anni Sessanta in un agguato. Manzella era stato uno dei primi a capire che con il traffico di droga si poteva fare una montagna di soldi e accrescere il potere all’interno delle “famiglie”.
È in questa famiglia che nasce Peppino, e cinque anni più tardi arriva anche Giovanni, dopo che un altro fratello che portava lo stesso nome era morto ancora piccolissimo. E’ qui che nasce la storia rivoluzionaria, drammatica, coraggiosa di Impastato, il ragazzo destinato a diventare il più contagioso degli attivisti della lotta antimafia. E che non si interrompe certo con la sua uccisione ma continua per altri quarant’anni intrecciandosi a quella del nostro Paese, disvelandone spesso complicità e opacità.
È la storia dei “Cento passi”, quelli che per convenzione distanziavano casa Impastato da quella di don Tano Badalamenti. “Il mio futuro, con Peppino vivo, sarebbe stato più ritirato e rilassato, sarei rimasto al bancone del mio negozio, avrei certo coltivato le mie idee ma con meno impegno, avrei forse manifestato qualche volta, di sicuro sarei rimasto di più con la mia famiglia” ha raccontato Giovanni qualche settimana fa in un’intervista su Robinson. “La mia indole era diversa, avevo anche io le mie idee ma il furore di Peppino non era il mio. Più che la sua morte a caricarmi fu l’idea che volessero farlo passare per terrorista. Questo non potevo accettarlo. Prima da fratello, poi da compagno”.
Così il libro di Giovanni diventa una sorta di diario intimo del rapporto tra due giovani diversi, certo, ma fratelli convinti di poter cambiare il loro destino. E poi c’è Felicia, la madre che non si è mai arresa lottando fino all’ultimo per sapere chi gli aveva ammazzato il figlio. La donna che caccia il marito mafioso, quella davanti alla quale tutti abbassavano lo sguardo. Per imbarazzo, per rispetto, forse perché lei era migliore di tanti di loro.
Nel libro Giovanni Impastato ricorda l’impegno politico di Peppino, le battaglie con Democrazia Proletaria e poi quelle all’Università e contro la terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi. Fino a Radio Aut, quell’incredibile esperienza che, inevitabilmente, accelerò la sua morte. Ma che, seppur con tanti anni di ritardo, ha trasformato Giuseppe Impastato, detto Peppino, in un’icona per la Sicilia.
La scheda
Mio fratello, tutta una vita con Peppino
Giovanni Impastato
Libreria Pienogiorno
pagg. 281, euro 18

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