India-Pakistan: pericoli di escalation, radici storiche di un conflitto millenario

dal Corriere della Sera

India-Pakistan: pericoli di escalation,

radici storiche di un conflitto millenario

di Federico Rampini | 7 maggio 2025
Non è eccessivo inquadrare gli eventi all’interno di una «guerra di civiltà», arricchita di pericoli nuovi. Le due nazioni hanno arsenali nucleari, e questi potrebbero entrare in gioco in uno scenario estremo in cui l’escalation, la spirale di rappresaglie e contro-rappresaglie, dovesse sfuggire di mano a chi comanda
Quel che sta accadendo tra India e Pakistan è solo l’ultima puntata di un conflitto antichissimo, che non è eccessivo inquadrare come una «guerra di civiltà»: per la semplice ragione che così viene vissuto e narrato dai suoi principali protagonisti. Oggi questa tensione si arricchisce di pericoli nuovi. Le due nazioni hanno arsenali nucleari, e questi potrebbero entrare in gioco in uno scenario estremo in cui l’escalation, la spirale di rappresaglie e contro-rappresaglie, dovesse sfuggire di mano a chi comanda. Le opinioni pubbliche si sono radicalizzate. A Delhi governa un nazionalista indù, Narendra Modi, anche se è giusto ricordare che l’India moderna e repubblicana ha combattuto le sue guerre maggiori sotto la socialista Indira Gandhi.
In Pakistan c’è un regime che unisce il peggio di due sistemi totalitari: islamismo e militarismo. L’attuale capo delle forze armate pachistane fu a lungo alla guida di quei servizi segreti che allevano e sostengono da decenni forze del terrorismo jihadista. Infine c’è la nuova geopolitica delle sfere d’influenza e dei protettori. Il Pakistan era stato a lungo un protettorato americano anche se questo non gli impedì di ospitare e nascondere sul proprio territorio Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda e regista dell’attacco dell’11 settembre 2001. Oggi il Pakistan è scivolato nella sfera d’influenza della Cina che lì ha realizzato alcuni degli investimenti infrastrutturali più importanti della Belt and Road Initiative (Nuove Vie della Seta).
L’India era stata nella sfera dell’Unione sovietica e tuttora conserva buoni rapporti con la Russia di Putin; però si è avvicinata all’America per ragioni geostrategiche, al fine di proteggersi dalla Cina. Washington e Pechino vorranno svolgere un ruolo da pacieri e moderatori? Non è questo il momento migliore neppure nelle relazioni sino-americane… Tuttavia prima di chiamare in causa i grandi scenari geopolitici globali è meglio rimanere con i piedi per terra: cioè partire dalla storia locale, il cui peso è soverchiante, schiacciante. Il Kashmir, dove c’è stata l’ultima strage di 26 indiani perpetrata da jihadisti (causa sua volta della rappresaglia militare di Delhi), è fin dalle origini della Partizione Pakistan-India nel 1947 una ferita aperta. È un territorio conteso dove queste due nazioni si fronteggiano armate. È una posta in gioco e un simbolo di ciò che nessuna vuol concedere all’altra.
Il Medio Oriente, o l’Africa, o certi quartieri di Berlino, Parigi, Londra, non sono le uniche parti del mondo che vedono l’Islam in tensione con altre civiltà, sistemi di valori e identità. Una frontiera calda in questo senso è sempre stata quella dell’India, attraversata da rivalità millenarie. Un episodio emblematico si è svolto il 22 gennaio 2024 in un luogo carico di storia e di simbolismi: Ayodhya. Lì il primo ministro Modi ha inaugurato o “consacrato” un tempio induista, ricostruito nel luogo esatto dove una moschea musulmana del XVI secolo era stata distrutta nel 1992 da una folla indù. A sua volta però quella moschea era il risultato di una profanazione e di un’oppressione, visto che era stata edificata nel 1528 dai soldati dell’imperatore Moghul (islamico) Babur, nel sito di un preesistente tempio dedicato a Ram, divinità del Pantheon induista. Il ritorno alle origini fa parte, quindi, di una rivincita simbolica sull’ «altro imperialismo» che ha segnato l’India: molto prima di essere colonizzata dai britannici, e per un periodo ben più lungo, il paese era stato conquistato e dominato dai musulmani.
La festa nazionale con cui Modi ha reinaugurato un tempio antichissimo, è stata vissuta all’insegna del riscatto: il colonialismo islamico ha lasciato ferite più profonde di quello inglese, anche perché mai del tutto curate. L’India è un caso in cui lo «scontro di civiltà» vede l’Occidente in una posizione più defilata. La riaffermazione dell’identità religiosa in chiave di orgoglio nazionale e contro l’Islam, in questa che è una delle più antiche civiltà della storia umana, serve da antidoto alla narrazione contemporanea che attribuisce solo all’uomo bianco l’oppressione delle identità altrui. Ed è una vicenda che segna tutta la carriera politica di Modi fin dalle origini: un leader che oggi guida la prima nazione del pianeta (ha superato la popolazione della Cina), la più grande democrazia esistente, e nella primavera del 2024 ha conquistato un terzo mandato alle elezioni (per quanto segnate da un calo del suo partito). La celebrazione del tempio Ram di Ayodhya era un evento preparato da un trentennio.
Modi cominciò la sua ascesa nel 2001 come governatore dello Stato del Gujarat. Quell’anno per gli americani è associato all’11 settembre; in India fu nel 2001 che un gruppo di terroristi islamici attaccò il Parlamento uccidendo 22 persone. In quanto ai dirottamenti multipli di aerei, la tecnica usata da Al Qaeda per l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono, quella era stata sperimentata prima in India dagli stessi jihadisti. All’epoca della sua prima vittoria nazionale era noto come il governatore del Gujarat, colui che era stato a guardare – o peggio si era macchiato di abominevole complicità – quando nel 2002 si scatenarono in quello Stato violenze degli induisti contro i musulmani: più di mille morti. Modi veniva da una famiglia di commercianti di tè, piccola borghesia appena sopra la soglia della povertà. Una biografia provinciale, banale e mediocre rispetto agli «aristocratici» Gandhi formati nelle migliori università inglesi. Un self-made man della politica, con una capacità istintiva di interpretare gli umori della nazione. O meglio, della sua maggioranza induista.
Dall’arrivo di Modi al governo un rovesciamento spettacolare è avvenuto nella percezione esterna dell’India. A guidare questo revisionismo sono stati per primi gli intellettuali indiani che hanno visibilità e influenza in Occidente. Tutta la diaspora degli scrittori indiani che fanno la spola tra New York e Londra, ha cominciato a saturare la conversazione globale con il nuovo messaggio: Modi è la versione indiana di Donald Trump e Boris Johnson, Marine Le Pen e Matteo Salvini, un reazionario razzista, con l’aggravante del fondamentalismo religioso che riabilita l’induismo delle caste, aizza i pogrom anti-islamici.
In realtà il nazionalismo in India ha una storia antica: il Mahatma Gandhi era un nazionalista oltre che un leader spirituale. Ma ben più antica è la storia delle guerre di religione. L’islamofobia di Modi è reale: tanto quanto l’indofobia che fa parte della storia dei musulmani. In quell’area del mondo, molto più che in Europa, l’Islam è stata una religione conquistatrice, aggressiva e dominatrice, mille anni prima di Al Qaeda e dell’Isis. La conquista dell’Andalusia, l’assedio di Vienna sono episodi importanti per noi occidentali, ma in realtà le puntate dell’Islam in Europa furono ben poca cosa nella storia globale di quella religione. Le grandi offensive di proselitismo e conquista militare – due cose spesso legate nell’avanzata dell’Islam – furono dirette dal Vicino Oriente verso l’altro Oriente. Molto più durevole e cruento dello scontro fra musulmani e cristiani fu quello fra l’Islam e le grandi civiltà asiatiche che lo avevano preceduto. Dalla Persia all’India, dall’Afghanistan all’Indonesia, tutte dovettero soccombere, furono dominate e finirono nell’area del Corano. Zoroastriani, induisti, giainisti e buddisti hanno conosciuto secoli di oppressione e persecuzione delle loro religioni, culture, costumi e tradizioni artistiche. Noi occidentali rimanemmo giustamente inorriditi quando i talebani afgani fecero esplodere le statue di Buddha di Bamyan – tesori archeologici del VI secolo – nel marzo 2001, sei mesi prima dell’11 settembre. Ma per gli asiatici quello era solo l’ultimo gesto di una lunga scia di vandalismi, distruzioni iconoclaste, atti di odio verso l’arte, che durano da un millennio.
Ci furono anche periodi felici di tolleranza e dialogo tra le religioni, di convivenza armoniosa sotto sovrani illuminati: Akbar fu uno fra gli imperatori Moghul (musulmani) che viene ricordato come un esempio di moderazione nell’applicare le regole islamiche, di apertura alle altre religioni e sincero interesse ecumenico. Ma la storia nei tempi lunghi annovera altrettanti periodi di oppressione in nome della shariah. Lo zoroastrismo che fu la principale religione della Persia è quasi scomparso in Asia, è ridotto a minoranze esigue in Iran e qualche diaspora famosa (i farsi dell’India, tra cui ci sono grandi capitalisti come i Tata). Induismo e buddismo non sono scomparsi ma hanno sempre sentito di dover lottare per la sopravvivenza contro i grandi monoteismi. Sia l’Islam sia il cristianesimo sono stati percepiti come religioni aggressive, importate da popoli conquistatori, con un’agenda geopolitica e di dominazione culturale che si nascondeva dietro le conversioni religiose. Queste ultime peraltro hanno spesso avuto una giustificazione socio-economica: Bibbia e Corano non impongono le caste, i monoteismi di derivazione semitico-abramitica sono delle fedi più egualitarie nella loro visione della comunità umana. E’ tra le caste più basse, i dalit o intoccabili, che le conversioni continuano ancora oggi.
Il partito induista Bjp di Narendra Modi cominciò la sua ascesa nel 1992, sull’onda degli scontri proprio attorno a questo sito carico di simboli storici, e oggi tornato al centro dell’attenzione. È appunto la città di Ayodhya dove sorge la Babri Masjid del XVI secolo costruita su un antico tempio dedicato a Rama. Nel 1992 una folla decise di cancellare l’onta e distrusse la moschea. Episodi come questo costellano tutta la storia dell’India, in un flusso e riflusso di avanzate e arretramenti fra le due grandi religioni rivali, quella locale e quella venuta dall’Arabia. Le prime incursioni musulmane dall’Arabia alla costa indiana risalgono all’anno 643 dopo Cristo, al Califfato Rashidun, poco dopo la morte di Maometto. Da allora i tentativi di conquistare e soggiogare l’India non sono mai cessati e sono stati vittoriosi per lunghi periodi. La dinastia Ghurid, convertita dal buddismo all’Islam sunnita, è la prima dominazione musulmana sull’India settentrionale, poco dopo l’anno Mille. Poi tocca al sultanato islamico di Delhi: dura 320 anni, inaugurato nel 1206 dalla dinastia dei Mammalucchi, s’installa fino al 1526. Seguirà l’impero Moghul, anch’esso musulmano, destinato a durare fino agli inglesi.
L’India è stata sotto dominazione islamica molto più a lungo di quanto sia stata una colonia dell’Occidente. Tra le sue regioni più martoriate dalle guerre religiose c’è proprio il Kashmir: sotto il regno di Sikandar (1389-1413) subì conversioni forzate all’Islam e persecuzioni così crudeli che alla fine rimasero in tutta la vallata solo undici famiglie induiste: tutte le altre si erano piegate a obbedire alla religione dei dominatori, o erano fuggite. Un altro periodo terribile per l’intolleranza religiosa il Kashmir lo attraversò dopo la conquista da parte degli afgani, forse il regno più oppressivo. Non deve stupire che il Kashmir sia sempre un territorio gravato di memorie dolorose, e anch’esso altamente simbolico per gli indiani. Tra le mosse più controverse di Narendra Modi, una riguarda la cancellazione dell’autonomia del Kashmir.
Lo «scontro di civiltà» continua. Non riuscì a pacificarlo neppure il Mahatma Gandhi, il leader spirituale che guidò il movimento per l’indipendenza nazionale contro gli inglesi. Nel 1947 la Partizione fu la sua sconfitta più grave. Gandhi voleva una grande India non confessionale, inclusiva di tutte le comunità religiose. Fu avversato dagli estremisti indù (uno dei quali lo uccise), ma soprattutto dalla classe dirigente musulmana che scelse la strada della secessione. Il Pakistan nacque appunto da quella separazione geografica su basi religiose, voluta anzitutto dalla élite islamica. Fu una divisione territoriale segnata da massacri reciproci, esodi in massa, spostamento di milioni di profughi. Lasciò in eredità un ulteriore giacimento di odio, serbatoio ideologico per le successive guerre tra le due nazioni.
Le superpotenze esterne hanno a loro volta giocato con il fuoco, pagando dei prezzi. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, l’America tollerò e incoraggiò il sostegno dei regimi pachistani e delle loro forze armate ai mujahiddin anti-Urss, dalla cui costola si sarebbe formata la jihad islamica che poi colpì gli Stati Uniti. La Cina oggi si scopre prigioniera di un meccanismo simile. Protegge e foraggia il regime pachistano per interessi geostrategici ed economici, e in chiave anti-indiana. Però da qualche anno le milizie jihadiste sul territorio pachistano hanno cominciato a prendere di mira manager e maestranze cinesi, con attentati, uccisioni, rapimenti. Xi Jinping a casa sua ha rinchiuso un milione di uiguri musulmani in campi di internamento e rieducazione nella regione dello Xinjiang: è la sua versione dello «scontro di civiltà». Ma altrove nel mondo anche lui gioca a fare l’apprendista stregone foraggiando regimi islamisti, proprio come l’America fece negli anni Ottanta.

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