8 giugno 2025: PENTECOSTE
At 2,1-11; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20
Oggi, per la Liturgia della Chiesa è la Festività della Pentecoste. Ma già dire festività è ridurre un Mistero a una ricorrenza rituale: il Mistero va ben oltre una celebrazione liturgica, tanto più che, supposto che i cristiani si ricordino che oggi è Pentecoste (una domenica vale l’altra, tranne forse il Natale, conciato per le feste nella sua dissacrazione consumistica), nessuno o ben pochi tra gli stessi cristiani sanno che cos’è la Pentecoste.
Sentono parlare dello Spirito santo ogni morte di papa, perché c’è di mezzo quel Conclave, il cui protagonista, si dice ancora, sarebbe la colomba che scende dal cielo per illuminare la mente di centinaia di cardinali, magari confusi o in conflitto tra di loro per scegliere un successore di Pietro che rientri nelle aspettative della gente, ma prima ancora nei giochi non sempre puliti di vescovi o cardinali che vorrebbero una chiesa così o cosà.
Chiariamo almeno una cosa, e non sarà certo un’impresa facile, visto che oggi solo parlare di qualcosa di divino crea irritazione o rifiuto o menefreghismo.
La Chiesa, nei suoi teologi, afferma: il Natale è importante, ma ancor più importante è la Pasqua, e già qui la strada si fa in salita, visto che il Natale tra la massa anche dei credenti ha preso una tale piega da mettere in secondo piano il Mistero pasquale.
Eppure, per i primi cristiani, a partire dagli Apostoli, il primo annuncio, sintetico o stringato, era questo: “Cristo ha sofferto, è morto ed è risorto”. Un annuncio, che ha un termine greco ben preciso: “kerigma” (letteralmente significa: “gridare” o “proclamare”).
Già interessante quel “gridare”! Gesù stesso aveva detto: «Quello che avete ascoltato all’orecchio gridatelo sui tetti» o dalle terrazze (Mt 10,27).
Gli Apostoli, per annunciare il Mistero pasquale, il “kerigma”, andavano ovunque, affrontavano ogni pericolo, sfidando gli stessi caporioni ebrei, che volevano tappar loro la bocca, ed ecco la reazione di Pietro: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. E per indicare la franchezza, il coraggio, la libertà di parola, Luca, nel suo libro “Atti degli Apostoli”, usa un termine tecnico, in uso nel mondo greco: “parresia”.
Qualcuno dice che il male della Chiesa, anche di oggi, nei suoi vari gradi gerarchici, è una certa afasia, cioè una difficoltà a parlar chiaro: se ne sta muta o usa un linguaggio confuso, ambiguo, populista: ha paura a dire la verità, perché teme reazioni, o ribellioni, per cui cerca quell’equilibrio che danneggia la verità nuda e cruda di Cristo, il quale tra l’altro aveva detto: “il vostro parlare sia sì sì, no no; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37).
Tornando alla festa della Pentecoste, se è vero che il Mistero pasquale è tutto per il credente (l’apostolo Paolo ha scritto: “se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede”, e la risurrezione implica la passione e la morte), il Mistero pasquale, già in quanto tale, include il dono dello Spirito. E anche qui occorre chiarezza.
Cristo, mentre moriva, donava il suo Spirito (lo scrive l’evangelista Giovanni: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito”). Consegnato a chi? Al Padre celeste? Certo, anche al Padre celeste, ma quel consegnare lo Spirito implica il dono dello Spirito all’umanità. Mentre moriva, Gesù di Nazaret ci donava il suo Spirito, lo Spirito santo.
La Pentecoste, dunque, era già anticipata sulla Croce, già nella Gloria, secondo la visuale del quarto Vangelo. Ma c’è di più. Sempre l’evangelista Giovanni racconta: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20, 19-22).
Dunque, la sera stessa del giorno in cui è risorto, Cristo dona lo Spirito agli Apostoli, mentre erano chiusi in casa per paura. Dunque, già qui c’era l’anticipo della Pentecoste.
Certo, il giorno della Pentecoste, ovvero il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in concomitanza con la Pentecoste ebraica, Luca descrive in modo spettacolare la discesa dello Spirito, non più dunque nell’intimo di una casa, chiusa per paura dei Giudei. Sì, in modo spettacolare, comunque vadano intese le immagini legate al fragore, al vento impetuoso, al fuoco diviso in tante particelle posanti sui presenti. Con il rischio che la spettacolarità di queste immagini attenuasse la potenza reale di uno Spirito, purissimo Spirito.
Luca sembra rifarsi alle teofanie del Vecchio Testamento, quando Dio si manifestava tra tuoni e lampi. Forse immagini che erano prese dal mondo pagano.
In questo giorno di Pentecoste, sentendo il primo brano, mi sento costretto a riportare un’altra pagina dell’Antico Testamento: l’incontro di Elia sul Monte Oreb con Dio. Ricordiamo: Elia è in fuga dalla regina Getzabele, che lo vuole assassinare. In pieno deserto, in preda alla disperazione, preso dalla paura e dallo sconforto, chiede a Dio di farlo morire, talmente non ne può più. Proprio in questo tragico momento Dio interviene: gli offre cibo e bevanda per il corpo, ma soprattutto trasforma la sua fuga disperata in un pellegrinaggio con una meta: il monte Oreb, e qui Elia entra “in una caverna”. Rivivrà la stessa esperienza di Mosè. L’incontro con Dio avviene senza testimoni, in piena solitudine, e di notte: sono il tempo e il luogo che nella Scrittura sono i preferiti dell’agire di Dio.
Elia non conosce ancora il volto di quel Dio, a cui dedicava tutta la sua vita. E il Signore, gli si mostra. Lo fa con tappe successive che possono benissimo rappresentare le fatiche affrontate da quel profeta così coraggioso e perseguitato. Ecco un vento impetuoso che spezza le rocce, «ma il Signore non era nel vento». Poi, ecco il terremoto, «ma il Signore non era nel terremoto». Sopraggiunge il fuoco, «ma il Signore non era nel fuoco». Ed ecco «Il sussurro di una brezza leggera»: gli studiosi non sanno come tradurre le tre parole ebraiche “qôl demamah daqqah”: “mormorìo di un vento leggero”, “calma permeata da una lieve voce”, “silenzio sottile”. Elia riconosce il Signore Dio di Israele.
Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco: il contrario di quanto viene descritto nella Pentecoste, come leggiamo nel libro “Atti degli Apostoli”.
Elia, così carnale nella sua focosità e irruenza, arriva ad una conoscenza più reale di quel Dio, che è tale da cambiare la sua persona, da renderlo diverso, veramente “uomo di Dio”. Elia, che ha avuto bisogno di una purificazione attraverso la crisi e la dura prova nel deserto (voleva morire!), si rivela d’ora in poi il vero contemplativo, il padre dei futuri monaci: pensate all’Ordine dei Carmelitani, il primo mistico che conosce in questa “voce di silenzio svuotato” qualcosa di più profondo e vero della realtà divina. E ne rimane letteralmente trasformato.
Il suo incontro con Dio che si rivela come “voce di silenzio svuotato” lo porta in sé, nel mondo del suo essere interiore, un mondo di assoluta intimità, di profondo silenzio, di forza spirituale. Elia diventerà l’uomo umile, che si nasconde dietro la Parola di Dio.
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