Una donna eccezionale che non aveva nulla di eccezionale
di don Giorgio De Capitani
Maria Airoldi, deceduta sabato scorso, 5 novembre, nel primo pomeriggio, in località Rovagnate (La Valletta Brianza), a causa di un incidente stradale, era una donna normale, che faceva tutto così normale che il paese quasi non se accorgeva, pur notando la sua particolare vivacità, ancora da anziana (aveva 82 anni), per il suo continuo girare di casa in casa per essere di aiuto alla Parrocchia e anche al Comune, oltre che per il suo senso di generosità, animata dalla gratuità, per servire i più bisognosi.
Non so se l’avevano anche sfruttata, proprio per la sua grande disponibilità. Forse l’avrei fatto anch’io, se fosse stato il suo parroco o il sindaco del suo paese, ma l’avrei fatto sapendo la persona che era. Anzi, forse per questo Maria era ancora più eccezionale, perché non badava alle varie strumentalizzazioni, ma faceva ciò che le sembrava più giusto fare, nella più elementare normalità.
Certo, come sempre succede, dopo la sua morte tutto il paese se ne è accorto, e tutti si sono uniti in elogi sperticati (anche da parte di chi in vita l’aveva magari contestata), anche perché talora è il modo con cui si muore, ad esempio per un incidente stradale o per un fatto tragico che interrompe improvvisamente una esistenza, che crea forti emozioni. Se Maria Airoldi fosse morta dopo una lunga malattia, certo ciò non avrebbe diminuito il suo valore, anzi; ma la gente si sarebbe rassegnata e non avrebbe reagito come ha reagito ora.
Ma non sono gli elogi di oggi che contano, anche perché durano pochi giorni e poi tutto torna nella normalità più normale di chi banalmente pensa solo a se stesso.
Vorrei che la gente di Rovagnate tenesse più aperti gli occhi, e non solo dove interessa tenerli aperti, e mantenesse viva la memoria. Nel passato, ci sono state persone, che hanno fatto del bene al paese, sotto forme diverse, magari poco note, ma nessuno oggi se ne ricorda. C’è quasi la mania di esaltare alcuni, chissà perché, e di dimenticare altri, chissà perché. Mi hanno sempre detto, e a Monte lo ricordavo spesso ai miei parrocchiani (anche nelle omelie dei funerali), che ogni comunità poggia su delle colonne, e queste colonne sono diverse (magari stile barocco o gotico o più semplice), ma soprattutto di persone umili e magari disprezzate. A Monte, se potevo, facevo celebrare da altri preti i funerali dei ricchi o dei cosiddetti caporioni del paese. Mi sentivo più a mio agio, quando mi toccava celebrare i funerali dei più umili, le vere colonne del paese, e le omelie mi uscivano dal cuore.
Non volevo citare un caso che riguarda la mia famiglia, ma lo faccio (ed è la prima volta) solo per confermare quanto ho appena scritto.
Tanti ancora sanno chi era “Pinin mecanec”, detto anche ”el precis” (per la sua precisione nel fare le cose): era a capo di uno Stabilimento di Rovagnate, della famiglia Airoldi (senza parentela con Maria), dove c’erano numerosi telai (forse una ventina): prima erano azionati a mano, poi elettricamente; numerose ragazze e anche mamme del posto vi lavoravano guadagnandosi così il pane per la famiglia. Ma mio padre non era uno che si faceva facilmente sottomettere, neppure dai suoi padroni (Airoldi): quante volte, quando entravano nel “loro” stabilimento, li buttava fuori, appena si permettevano di fare osservazioni che, secondo mio padre, non erano pertinenti al buon funzionamento della ditta. Quando litigava coi padroni, noi ci accorgevamo quando tornava a casa a mezzogiorno per il pranzo o per la cena (facendo ogni giorno a piedi chilometri e chilometri, anche quando pioveva o nevicava). Chiedevamo: “Perché sei arrabbiato?”. La risposta era sempre la stessa: “Quelli giù (si riferiva ai suoi padroni) non capiscono niente di tessitura e vogliono mettere il becco quando non devono metterlo”. E alla domanda: “Perché ci vai ancora, e non cambi fabbrica?”. Lo poteva fare: era molto richiesto altrove, proprio per la sua serietà e bravura. “Come faccio? Non penso tanto alla mia famiglia, ma a quelle ragazze che lavorano con me”. Era convinto che, senza di lui, la fabbrica con la testa dei suoi padroni sarebbe finita male. Mi hanno raccontato che un giorno gli fu offerta la possibilità di andare altrove. Ci pensò e ripensò, perché era esasperato, sempre per il solito motivo. I signori Airoldi chiesero al parroco del paese (mi pare fosse don Pompeo) perché intervenisse a convincere mio padre a restare. E ci restò, rifiutando una offerta più vantaggiosa.
Quando gli fu proposto di entrare in Comune, subito rifiutò, dicendo: “Non posso sopportare le cose ingiuste, per cui continuerò a fare il mio lavoro”. Non dico altro, anche se la storia dello Stabilimento Airoldi meriterebbe altre considerazioni, soprattutto quando definitivamente fu chiuso, quando mio padre andò in pensione e, insieme a mia madre, mi seguì nei miei ministeri pastorali. Quando sono morti i nostri genitori, noi tre figli, anche se lo avessimo voluto, non abbiamo litigato per l’eredità: l’unica eredità è stata quella di genitori onesti (i soldi che ci hanno lasciato si potevano contare sulle dita di una mano). Lo dico anche per far capire quanto guadagnasse mio padre, quando era a capo dello Stabilimento Airoldi.
Ho voluto raccontare questa storia riguardante mio padre per dire che in ogni paese ci sono belle figure, ma di cui purtroppo nessuno ricorda, neppure quando il Comune pubblica un libro sulla storia del paese.
Come figlio non chiedo oggi un riconoscimento, ma che si sappia che non bisogna esaltare alcuni, e dimenticare altri. I nobili esempi del passato servano di lezione per il presente. Sono state le colonne del paese “migliore”, anche se ora queste colonne si sono ricoperte di polvere.
Io dico invece che in un mondo di persone molto spesso menefreghiste, per non dir di peggio, sono invece eccezionali quelle che, invece di pensare a cosa gli altri possono fare per loro, pensano a cosa loro possono fare per gli altri.
Probabilmente se fossero in maggior numero, il mondo andrebbe sicuramente meglio.
Sono queste le persone che hanno tenuto e tengono in piedi l’Italia. Se riusciremo a ridare dignità e valore (non in senso di denaro) a queste persone forse il Paese ripartirà, altrimenti sarà il disfacimento progressivo. Da piccolo certi valori li percepivo poiché nel parlare comune si esaltava la maestria o la bontà di certe persone che pur non avendo raggiunto posti di prestigio o cariche o ricchezza erano esempi da citare. Oggi quei valori sono quasi ridicolizzati e i giovani (non per colpa loro) sono abbagliati da altri esempi che mettono in primo piano la visibilità e il successo economico. Spiace dirlo, ma la politica ha avuto e ha ancora grosse responsabilità nel promuovere una società impostata sull’immagine più che sulla sostanza e lo fa adducendo la scusa che il mondo sta cambiando per cui bisogna adeguarsi. Ma adeguarsi significa partecipare supinamente ad una involuzione che non porterà benefici all’umanità. Se c’è qualche barlume di ribellione a questo stato di cose cerchiamo di valorizzarlo e incanalarlo nella giusta direzione senza tarpare le ali a chi (e sono tanti) vorrebbe agire in quella direzione.
Fausto