Alla Scala, “Giovanna d’Arco” di G. Verdi ha entusiasmato i milanesi, che il Discorso di Scola nella Basilica di S. Ambrogio aveva addormentato. Solo Roberto Maroni è rimasto sempre in coma, sia alla Scala che in Sant’Ambrogio

scoladis
di don Giorgio De Capitani
Ho fatto un enorme sforzo, ma sono arrivato fino alla fine. Dovevo farlo. Non potevo, certo, ignorare il Discorso alla Città, tenuto dal cardinale Angelo Scola, nella Basilica di Sant’Ambrogio, in occasione della Festività in onore del patrono Ambrogio, anticipato quest’anno venerdì 4 dicembre. Un Discorso diventato tradizionale, e molto atteso dagli ambrosiani. 
Già dire Discorso alla Città porta a pensare a qualcosa di molto impegnativo, e soprattutto con risvolti anche civili. Una prova è la presenza in Basilica di numerosi sindaci della Diocesi e della massime autorità regionali, provinciali e cittadine. Sembra che è proprio a loro che il Vescovo di Milano si rivolge con il Discorso di S. Ambrogio.
Ricordo ancora, e talora vado a rileggerli, i Discorsi dei grandi Vescovi milanesi del passato, più o meno recente. Sempre attuali.
Ed è per tutto questo che, quando un discorso è al di sotto delle aspettative, si rimane profondamente delusi, quasi traditi. Ma la delusione, oramai, dura da alcuni anni, da quando sulla cattedra di Ambrogio è stato imposto un vescovo, che ben pochi milanesi si aspettavano e volevano.
So che non bisognerebbe giudicare un discorso dalle sue reazioni, anche nel mondo politico, ma è triste constatare che le parole di Angelo Scola difficilmente, in questi ultimi anni, hanno varcato le porte della Basilica ambrosiana. Sul volto delle autorità presenti, man mano il cardinale leggeva i suoi numerosi fogli, notavo una certa noia, quasi una insofferenza.
Il Discorso alla Città di Angelo Scola, quest’anno, è durato esattamente trenta minuti e pochi secondi, da dividere in due parti. Nella prima, di quindici minuti, il linguaggio del cardinale mi è sembrato particolarmente ostico, duro, involuto, secondo lo stile comunicativo da incallito ciellino. D’altronde, comunicare verità complesse in modo semplice è un dono, ma Scola sembra avere il dono di guardarsi allo specchio, e di auto-compiacersi, dimenticando volentieri di avere un pubblico davanti. E, più il pubblico è delle grandi occasioni, più Scola si auto-compiace, ignorando inoltre che le autorità delle grandi feste sono sì abituate al linguaggio politichese, ma non certo ad un linguaggio tipicamente accademico.
È già impegnativo rivolgersi alla Città, tanto più che è sorda ai richiami di valori profondi. Se poi si usa un linguaggio sofistico o solipsico, allora la frattura è assicurata. La Città avrebbe, invece, bisogno di un linguaggio evangelico, quello di Gesù, tanto schietto e tanto immediato, da attirare le folle per poi farsi tradire, e da attirare, fin dall’inizio, le ire dei capi religiosi del tempo. 
Mi illudevo che almeno quest’anno Angelo Scola irritasse qualche politico presente in Basilica, ma nessuno è scattato in piedi pronto a uscire. Anche loro stavano per addormentarsi.
Quando, nella seconda parte, il cardinale ha trattato il tema dell’immigrazione, pensavo che dicesse almeno una parola fortemente provocatoria, una di quelle staffilate alla Sant’Ambrogio. Nulla. Roberto Maroni continuava a dormire.
Che dovrei dire? Sorpreso? Lo sarei stato, se Scola fosse uscito dal suo gergo ciellino. Incazzato? Non più di tanto, visto che talora i miracoli sono impossibili perfino a Dio, quando i suoi presunti ministri sono in realtà servitori di un altro dio, quello anestetizzato e anestetizzante.
Angelo Scola, in fondo, è stato un vescovo che si è illuso di dare una svolta alla Diocesi milanese, in realtà ha gettato solo fumo su una città rimasta religiosamente ferma, e su una diocesi altrettanto delusa. Non è riuscito neppure a farsi notare, se non come nebbia, un banco di nebbia. Certo, da parte mia non mi aspettavo nulla di diverso. Ero sicuro che Scola non sarebbe riuscito a tirar fuori dai milanesi qualcosa di buono. Sarà ricordato come un vescovo “inutile”, non nel senso evangelico del termine.
Purtroppo, nei momenti attuali l’inutilità produrrà, in futuro, seri problemi ad una Diocesi che non è riuscita a dire nulla di “buono” o di “umano” ad una società che, invece, avrebbe avuto bisogno di una pastore forte, intuitivo oltre gli steccati, profondo oltre l’ortodossia, umano oltre il diritto ecclesiastico. 
Ciò di cui ora ha bisogno la nostra Diocesi sarà un Pastore pronto ad avventurarsi in campi distesi, sotto cieli aperti, verso orizzonti sconfinati. Occorrerà subito un Pastore dalle grandi Idee, che ci faccia perciò un po’ sognare, anche se sarà difficile seminare nuove speranze in campi arati da praticoni, come purtroppo sono i preti milanesi. Certo, non solo per colpa di Scola, ma per mancanza di una pastorale a termine indeterminato, e non legata continuamente all’alternarsi di pastori d’avanguardia con pastori mediocri.
Non si tira fuori l’anima da una Città del fare con giochi opportunisti di una gerarchia, preoccupata solo che la Città riprenda coscienza di se stessa, assumendosi responsabilità civili e umane, senza legarsi per forza ad una religione strutturata su dogmi e sul potere. 
Adesso ci si mette anche il Giubileo di papa Francesco a fare da deterrente per chi vorrebbe una Chiesa “altra” da quella attuale: una Chiesa dove l’Umanità sia la casa comune, e non un paravento per coprire le magagne di una religione in crisi.
Stavo per dimenticarlo: il tema scelto quest’anno poteva essere interessante: “Misericordia e giustizia nell’edificazione della società plurale”, ma Scola ha perso un’altra occasione per tentare almeno di elevare la mente dei praticoni milanesi a qualcosa di diverso dai soliti scontati discorsi, ma è caduto nel solito ermetismo.
Il cardinale avrebbe potuto richiamare coloro che nel passato avevano già affrontato questo argomento. Cito solo un nome: don Primo Mazzolari, che nei suoi numerosi scritti spesso torna sul rapporto giustizia e carità. Ma non è stato l’unico. A caso ho trovato questo articolo, che vi invito a leggere.
Angelo Scola ha preferito cimentarsi da solo, e ha fatto flop!
Ora ci penserà il Giubileo diocesano a riparare il vuoto di parole, ma sarà un altro colpo a vuoto, spero l’ultimo, in attesa di un autentico Giubileo, ovvero che Dio nella sua infinita misericordia provveda a donare a Milano un vero Pastore, che sappia prendere per mano le pecore perdute e deluse, e così ridare alla Città e alla Diocesi quell’anima, che da tempo si è spenta. 

3 Commenti

  1. dioamore ha detto:

    Molto azzeccato il link all’articolo di approfondimento sul rapporto tra giustizia e misericordia.

    Si cade spesso nell’errore di confondere la giustizia con il giudizio pensando che la giustizia consista nel giudicare attraverso processi giurisdizionali, secondo il metro di giudizio che vede il rispetto o meno di leggi fatte e volute da uomini spacciate per leggi volute da Dio, contraddicendo così il principio di non giudicare per non essere giudicati.

    La giustizia, in verità, la si può riassumere nella conoscenza di Gesù e del suo Spirito che non sempre è scontata.

  2. GIANNI ha detto:

    Questa volta, lo dico in tutta sincerità, non userò neppure un secondo per ascoltare il discorso di Scola.
    Non solo perché noioso, come suo solito, ma perché, ormai ne abbiamo diverse riprove, ogni volta nulla aggiunge a quanto già sappiamo della religione, della storia, o di quant’aLtro.
    Se offrisse qualche spunto nuovo, che so, filosofico o teologico, allora sarebbe interessante coglierlo e fare lo sforzo di comprendere il suo linguaggio spesso ermetico ed autoreferenziale, ma tant’è, troppo volte mi è capitato, in passato, di stare lì a decodificare, per poi capire che quello che diceva lo si trovava, esposto in modo molto più semplice e comprensibile, altrove, per cui……..

  3. Giuseppe ha detto:

    Non si può dare quello che non si ha…

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