Omelie 2025 di don Giorgio: QUINTA DOPO L’EPIFANIA

9 febbraio 2025: QUINTA DOPO L’EPIFANIA
Ez 37,21-26; Rm 10,9-13; Mt 8,5-13
Partiamo da questa verità: se è vero che la Bibbia è un libro sacro ispirato dallo Spirito santo, il quale tuttavia ha lasciato intatte le doti diciamo letterarie dell’autore, oltre la sua personalità umana, e senza disincarnare i suoi scritti dal contesto storico, è altrettanto vero che, trattandosi di un libro ispirato, bisogna saper leggere fatti e parole con “intelligenza”, il che significa: “in profondità”, al di là della cronaca o della storicità degli eventi.
Ovvero, i fatti parlano più di quanto narrano, invitando perciò il lettore a cogliere quel senso spirituale, che si trasmette nel tempo e al di là del tempo. Se è preziosa, direi necessaria una lettura esegetica, fatta da studiosi seri e competenti, è fondamentale una lettura spirituale, che va oltre l’esegesi, e che richiede una fede tanto semplice quanto mistica.
Se già una lettura esegetica di per sé non basta se si fermasse a spiegare un brano a se stante, senza avere una visuale d’insieme di tutto il testo sacro, secondo l’antico detto: “la Bibbia si spiega con la Bibbia”, a maggior ragione una lettura spirituale ci permette di cogliere l’insieme del Piano divino, secondo l’invito della Mistica, per cui tutto proviene, scaturisce, emana dall’Uno, il Bene Sommo, perché tutto poi torni all’Uno, secondo l’immagine del cerchio, da cui nulla esce, ma tutto circola all’infinito.
Dunque, siamo usciti dal Pensiero divino perché torniamo alle origini trinitarie, e ciò richiede, non solo che ci lasciamo prendere da una tensione verso l’Uno che ogni creatura ha al suo interno, tensione cosciente e anche incosciente (tutto il Creato tende all’Unico Bene da cui è scaturito), ma mettendosi, per chi è cosciente, in quanto essere “intelligente”, in un continuo cammino di conversione, appena si devia dalla strada del ritorno: conversione significa anzitutto fermarsi, per riprendere la strada dell’armonia cosmica. Già la parola “armonia” richiede uscire da quella frammentazione che rompe ogni Unità divina.
Sant’Agostino, rifacendosi alla sua personale esperienza, quando da giovane aveva ceduto ad ogni dissolutezza sia morale che intellettuale, poi convertitosi aveva scritto nel libro autobiografico “Le Confessioni” che per tanti anni si era disperso nella “regio dis-similitudinis”, regione della dis-somiglianza, ovvero lontananza dall’ Uno, dimensione alienante del molteplice.
Questa lunga doverosa e impegnativa premessa ci permette di spiegare anche la scelta e come leggere i brani proposti dalla Liturgia in questa domenica.
Partiamo dal primo brano. Fa parte del capitolo 37 del libro di Ezechiele. Segue il racconto della Visione delle ossa aride, una delle pagine più celebri della Bibbia. Un forte messaggio di speranza per gli ebrei esuli a Babilonia, convinti che oramai tutto è perduto. No, dice il profeta, è ancora possibile rinascere a nuova vita sotto l’azione di Dio creatore e salvatore. Il profeta compie poi un’azione simbolica: su due tavole di legno incide il nome di Giuda e quello di Giuseppe, alludendo alle rispettive tribù e ai regni che si erano costituiti. Come sappiamo, alla morte di Salomone, sotto la guida della tribù di Efraim, discendente da Giuseppe, era sorto il regno settentrionale, detto di Israele o di Samaria. Al sud la tribù di Giuda aveva stabilito il regno di Davide con capitale a Gerusalemme. Ora i due legni vengono stretti insieme dal profeta, quasi a costituire un unico pezzo.
Ed ecco il brano di oggi: il Signore vuole riportare il suo popolo all’unità: esso vivrà nell’unica terra e sotto un unico sovrano. Ci sarà una nuova alleanza tra il Signore e il suo popolo, un nuovo tempio, una nuova e perfetta presenza del Signore in mezzo ai suoi fedeli. Tutte le genti riconosceranno la grandezza del Dio di Israele, e un orizzonte di pace e di speranza si aprirà per sempre.
Sappiamo che, se intesa letteralmente o storicamente, la profezia di Ezechiele cadrà nel vuoto, sarebbe stata una pia illusione, tanto più che, invece di tornare ad essere un piccolo popolo “profetico”, proprio perché eletto con la missione di lanciare un messaggio universale all’intera umanità, il popolo d’Israele fortemente unito ne combinerà di tutti i colori, facendosi odiare dal mondo intero e nello stesso tempo usando la prepotenza di dettare legge a tutti. Lo vediamo in questo periodo altamente drammatico, in cui lo Stato d’Israele sembra incontenibile in una sete di sangue tale da aver cancellato Dio dalla sua storia.
Nonostante questo, nella profezia di Ezechiele parla ancora lo Spirito di Dio, che tramite i giusti, pochi o tanti che siano, forse solo un pugno di spiriti liberi, lancia ogni giorno un messaggio di speranza. La parola “pace” è grossa, e rischia di essere solo uno slogan che cade nel vuoto: noi ci accontentiamo di qualche speranza quotidiana, che ci sostenga in vita appena apriamo gli occhi dopo una notte magari pesante.
Lo stesso apostolo Paolo, nel secondo brano, ci assicura, citando la Sacra Scrittura: «Chiunque crede in lui (nel Signore) non sarà deluso». Ma credere nel Signore è aprirsi alla Grazia che sovrabbondante si estende su tutto l’Universo. Più ci si apre al Bene Assoluto, che, proprio perché Assoluto, è sciolto da ogni limite o vincolo, più ci si sente liberi nello Spirito, e ogni catena carnale si scioglie. La Grazia non è legata neppure agli anni giubilari, che, invece, sembrano fare di tutto per incatenare la Grazia divina.
E l’apostolo Paolo è chiaro: «non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”».
Tutto chiaro fin dagli inizi del Cristianesimo! E poi che cosa è successo? Le strutture istituzionali, man mano ingrossandosi, hanno incatenato la Grazia liberante e illuminante dello Spirito. Più ci si ingrossa carnalmente, più si creano quei diritti di appropriazione, dell’”amor sui”, sorgente di ogni male.
Anche il terzo brano meriterebbe una particolare attenzione. Si tratta di un miracolo, di un “segno” come direbbe l’evangelista Giovanni, che rivela quanto la Grazia di Dio liberante si apre a tutti, anche agli schiavi, superando gli spazi, al di là di ogni contatto fisico.
Chi crede ha già la sua liberazione. La Grazia non esige andare fisicamente a qualche santuario, andare a Roma per il giubileo, toccare le reliquie di un santo.
Bisogna essere pagani come il centurione per avere una fede più pura degli stessi credenti? «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!».
Cristo è il Giubileo, è l’Anno di Grazia! Il Cristo Risorto, il Cristo della fede, e non il Cristo che pretendiamo ancora che si rivesta di carnalità da toccare, da adorare, da cui prendere qualcosa di miracoloso.
Certo, siamo fatti anche di corpo, e il corpo ha le sue esigenze o pretese. Ma lo spirito dov’è? Se non rientriamo in noi stessi, lo stesso corpo ne risente, e non basterà un milione di indulgenze per farlo star bene. Si sta bene fuori, quando si sta bene dentro.

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