Omelie 2014 di don Giorgio: Prima di Quaresima

9 marzo 2014: Prima Domenica di Quaresima
Is 58,4b-12b; 2Cor 5,18-6,2; Mt 4,1-11
La Quaresima è uno dei due periodi cosiddetti forti dell’anno liturgico. L’altro è l’Avvento. Forte, nel senso di intensità di fede e di impegno caritativo. Solitamente questo periodo che ci prepara al Mistero pasquale è caratterizzato da una intensa preghiera, da una catechesi più sistematica e da una particolare penitenza, anche corporale.
Nei primi secoli della Chiesa, la Quaresima era il momento più adatto per la preparazione dei catecumeni in vista del Battesimo, che era celebrato proprio durante la Veglia pasquale del Sabato santo, ed era anche il periodo di ravvedimento e di penitenza per i peccatori pubblici. Non era stata ancora inventata quella confessione individuale che assumerà lungo i secoli quella particolare morbosità dei peccati personali, con paranoici interminabili elenchi. Fino ai nostri giorni, la Quaresima doveva portare alla Confessione e alla Comunione pasquale. Ecco il terzo dei cinque precetti della Chiesa Cattolica: confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a pasqua. Cose assurde!
Come si può vedere, la Quaresima col tempo ha assunto diverse fisionomie, talora perdendo di vista il vero fine, ovvero quello della preparazione spirituale al Mistero pasquale. E qui ripeto ciò che avevo detto all’inizio dell’Avvento: non si tratta di fare qualche opera in più, ma di rientrare in se stessi, e riprendersi la mente, una nuova mente. Gesù Cristo parlava di metànoia, che in greco significa “cambiamento della mente o del modo di pensare”. Mentre i profeti dell’Antico Testamento insistevano sul cambiamento di rotta, sulla inversione di marcia in senso diciamo moralistico, per tornare così all’Alleanza con Dio, Gesù Cristo parlava di qualcosa di più impegnativo: le cose non cambiano in profondità, se la mente (nous) rimane quella che è. Se io vedo le cose sempre allo stesso modo, posso anche migliorare nel mio comportamento, ma l’intendimento di fondo è sempre il medesimo. Invece, è la visuale delle cose o del mondo o dell’essere umano che va cambiata. Occorre, dunque, cambiare la mente. Gesù ci invita a fare un passo in avanti, ma di qualità: un cambiamento radicale del nostro modo di vedere, di giudicare e di agire.
Nel brano del libro di Isaia (è la terza parte) troviamo una pagina tremenda contro l’ipocrisia del digiuno rituale. Pur rimanendo nel campo morale, le parole del profeta sono ancora attuali. Altro che dire che il prete non deve fare politica in chiesa. Qui il profeta tocca un aspetto della vita reale, che dovrebbe ancora oggi far rabbrividire di vergogna certe classi sociali o imprenditoriali o affaristiche, incluse certe strutture ecclesiali.
Certo, non sono le classi sociali in sé o le strutture che dovrebbero vergognarsi, ma chi vi appartiene. Dice il profeta: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno (aggiungerei: magari mentre portate anche il cilicio), voi curate i vostri affari, angariate (opprimete) tutti i vostri operai”. Inoltre: “Ecco, voi digiunate tra litigi e alterchi, menando pugni senza pietà”. Dio non aspetta dall’uomo gesti esteriori come inchini, prostrazioni, sacco e cenere. Egli desidera il digiuno come liberazione dall’ingiustizia. A più riprese Dio, tramite il profeta, ribadisce che il vero atto penitenziale gradito a Dio si manifesta nel vincere le oppressioni sociali, nello spezzare il pane all’affamato, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire i miseri, nell’evitare la calunnia e la maldicenza.
E questo che cos’è? Non è sentirsi coinvolti nella realtà della polis (città) (da qui la parola politica), del proprio paese, del proprio ambiente di lavoro? Come si può separare la religione dalla realtà esistenziale? La religione entra in crisi, quando si stacca dal vivere comune. Se i profeti alzavano la voce contro le ingiustizie sociali e contro l’ipocrisia di un culto staccato dalla realtà, perché noi preti dovremmo essere accusati di fare politica, quando ci sentiamo coinvolti nella società, e denunciamo le incongruenze della Chiesa e le ingiustizie di una politica che pensa solo ai propri affari?
Nella seconda lettera che San Paolo ha scritto alla comunità cristiana di Corinto, troviamo due parole che la Chiesa ha fatto proprie in questo periodo quaresimale. La prima parola è tolta da questa espressione: è “un momento favorevole”. Che significa “favorevole”? Dio ci offre sempre delle opportunità: la Quaresima è una di queste. Una opportunità che, come dicevo all’inizio, va sfruttata al meglio. Ogni anno, dobbiamo puntare al meglio, purificando anzitutto la mente, togliendole pregiudizi, nebulosità. La seconda parola è “riconciliazione”. Occorre anzitutto prendere coscienza che è Dio che per il primo ci ha riconciliati. Inoltre, l’apostolo Paolo invita ciascuno di noi a farci riconciliare con Dio. Bisogna intendere bene la parola “riconciliazione”, e non ridurla a un puro sacramento, quello della Confessione. Noi credenti siamo bravi nel sostituire le parole: oggi non si dice più “sacramento della confessione”, ma “della riconciliazione”, e tutto è sistemato. La riconciliazione va oltre un sacramento. Già la parola sacramento, se intesa bene, va al di là di un rito, di una pratica religiosa. Il mondo intero è un sacramento. Anche la parola sacramento deriva da “sacer” e, lo ripeto per l’ennesima volta, dire sacro non è la stessa cosa che dire religioso. La sacralità fa parte dell’universo.
La riconciliazione che cos’è? È Dio che torna ad abbracciare il mondo intero, diviso dal peccato che lo ha separato dal Divino. In Dio tutto è riconciliato: il creato, tra cui l’essere umano. Non mi sento riconciliato solo con Dio, ma anche tra noi, con l’intero universo. Dire riconciliazione è dire fratellanza, è dire armonia cosmica.
Il brano del Vangelo riporta la famosa pagina delle tentazioni di Cristo nel deserto. Una pagina drammatica, da intendere proprio anche nella sua rappresentazione scenica. Qui non ci sono dubbi d’interpretazione: non è una pagina da leggere in senso letterale. Immaginate Cristo che vola da una parte e dall’altra, che discute e litiga con il demonio. L’evangelista Marco spende solo due parole per dire che Gesù, dopo il Battesimo, è stato condotto dallo Spirito nel deserto, e qui è stato tentato per quaranta giorni. Matteo e Luca non vanno d’accordo sulla sequenza delle tentazioni, invertendole. Il racconto assume un aspetto teatrale, e questo è servito agli evangelisti per esprimere, diciamo in modo plastico, ciò che è avvenuto nell’animo di Gesù. Le tentazioni, dunque, sono state interiori. La scenografia ci aiuta a cogliere il significato delle tentazioni di Gesù. Ma non dobbiamo fermarci alla scenografia, e magari riderci sopra, come se il demonio avesse preso per la collottola Gesù, trasportandolo ora sul pinnacolo del Tempio ora su un alto monte.
Anzitutto, il deserto. Non sto a dire tutti i richiami che il deserto può suggerire in riferimento alla storia del popolo ebraico. Il deserto è stato il luogo della prova, ma nello stesso tempo è stato anche un passaggio verso la Terra promessa. I profeti hanno visto nel deserto altri significati: come luogo della maturità (ogni prova porta a crescere), e soprattutto come il luogo dell’amore riconquistato con Dio.
Domenica scorsa, nel primo brano della Messa, abbiamo letto che il profeta Osea ha voluto la sposa infedele nel deserto, e lì parlare sul suo cuore.
Il deserto dice aridità, ma dice anche silenzio. A parlare è il silenzio. Il deserto per la sua enorme estensione di sabbia suscita brividi d’infinito. Per questo si dice che bisogna ritirarsi in qualche luogo solitario per tornare in sé e riflettere.
Non è necessario andare nel deserto. Si può fare deserto in noi, in qualsiasi posto. Se poi l’ambiente naturale ci aiuta, meglio ancora. Siamo vicini al parco, io abito nel Parco del Curone. Basta poco per immergerci nella natura. In silenzio. Provo tristezza quando vedo gente che va nel Parco con le cuffie per ascoltare la musica. Ma la natura che cos’è? Non è una musica meravigliosa?
Non posso soffermarmi sulle tre tentazioni, a cui fu sottoposto Gesù dal diavolo. Non ho più il tempo. Brevemente: gli evangelisti non parlano di demonio, ma di diavolo, e diavolo significa colui che separa, colui che divide. Maligno è colui che divide il nostro essere: dentro di noi, siamo come spaccati in due, scissi i due, da una parte il nostro ego e dall’altra il divino. Noi non ci ascoltiamo più: siamo smarriti, siamo una cosa separata dal proprio spirito. Inoltre, la tentazione di per sé non è un male, o un peccato: è semplicemente una prova. Nel Padre Nostro preghiamo: “e non c’indurre in tentazione” significa; “Signore, fa’ sì che non cediamo!”. Ogni epoca ha le sue tentazioni, ovvero le sue prove: anche il momento difficile di oggi, sia economico che politico, è una prova. Come poterla superare? Noi siamo solo preoccupati di uscire dal tunnel, senza magari chiederci se, quando usciremo, quale sarà domani la nostra vita. Avremo imparato la lezione? Il deserto parla anche di essenzialità. Ci siamo troppo riempiti di cose inutili, di desideri per un mondo di superfluo, che ora ci sta angosciando per crisi di astinenza.
Ogni prova porta a maturare. Ogni prova porta a purificare il nostro modo di vedere il mondo. Basta con le solite lamentele! Basta parlare solo di economia! Basta parlare solo di pane materiale! Alle parole del diavolo: “Di’ che queste pietre diventino pane”, Gesù Cristo come risponde? “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. L’uomo moderno può dire ciò che vuole, ma non può negare che ha bisogno soprattutto di un pane che possa nutrire il suo essere sterile e smarrito.

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