da www.huffingtonpost.it
Barbara Gallavotti:
“Il Covid? Forse durerà meno della Spagnola”
Intervista alla biologa e divulgatrice Barbara Gallavotti: “Immunità di gregge? Senza un vaccino, ma facendo correre l’epidemia non è strada percorribile”
di Adalgisa Marrocco
08/11/2020
“Quanto durerà il Covid? L’influenza spagnola durò circa due anni facendo 50-100 milioni di morti, in modo particolare tra i giovani. Se oggi non esistessero i farmaci e non fosse in corso la sperimentazione dei vaccini, i tempi della fase acuta di questa pandemia potrebbero non essere dissimili. Le terapie e la ricerca ci fanno sperare in uno svolgimento molto meno drammatico”. A parlare all’HuffPost è Barbara Gallavotti, biologa, scrittrice, giornalista scientifica e autrice di trasmissioni televisive, in particolare Superquark e Ulisse.
E, a proposito del vaccino, Gallavotti sottolinea che “sarà uno strumento per proteggere il prima possibile i più fragili, ma questo non autorizzerà a far circolare il virus liberamente tra il resto della popolazione. Senza contenimento, anche i più giovani potrebbero contrarre la malattia in maniera più grave”.
Parlando di circolazione del virus, si discute molto di immunità di gregge. È una strada percorribile?
Senza un vaccino, ma facendo correre l’epidemia no: su questo la maggioranza della comunità scientifica concorda. Alcuni hanno fatto notare che nella storia non si è mai cercato di affrontare un’epidemia perseguendo volontariamente questa strada. Non sappiamo neanche quale dovrebbe essere il numero di persone che dovrebbe contagiarsi. Forse il 50%, ma qualcuno dice il 20%, altri il 70%: la verità è che questa percentuale si può capire soltanto a posteriori, una volta raggiunta l’immunità. E di norma il raggiungimento si ottiene attraverso un vaccino, non certo a tavolino. Altro punto interrogativo riguarda l’effettiva durata dell’immunità che segue il contatto con il virus: è chiaro che se le persone si possono riammalare, come già verificatosi in alcuni casi, il discorso perde di valore. Pensiamo poi a posti come Bergamo dove il Covid-19, circolando molto durante la prima ondata, ha causato moltissime vittime su un territorio relativamente limitato: non si può lasciare che questo accada su scala nazionale. E pensiamo anche a Manaus, città del Brasile colpita molto duramente nei mesi scorsi: si calcola che il 66% dei circa 2 milioni di abitanti sia stato contagiato dal virus e si riteneva di aver raggiunto una sorta di immunità di gregge. Invece a settembre sono comparsi i casi della seconda ondata.
Il vaccino sarà la soluzione?
Lo sarà, se e quando arriverà. Abbiamo molti vaccini in fase di sperimentazione avanzata e questo fa decisamente ben sperare, ma sono molti gli elementi da considerare. Per esempio, bisognerà tenere conto della durata della campagna di vaccinazione: la Germania aveva stimato circa un anno per l’intera popolazione. Il vaccino sarà uno strumento per proteggere il prima possibile i più fragili, ma questo non autorizzerà a far circolare il virus liberamente tra il resto della popolazione. Senza contenimento, anche i più giovani potrebbero contrarre la malattia in maniera più grave.
Lei ha scritto “Le grandi epidemie” (Donzelli, 2019), un libro che prima dell’esplosione di questo virus ha ripercorso la storia delle malattie contagiose che hanno minacciato e minacciano la nostra specie. Cosa ci insegna la storia? Quando finirà la pandemia di Covid-19?
Sappiamo che, per esempio, l’influenza spagnola durò circa due anni facendo 50-100 milioni di morti, in modo particolare tra i giovani. Se al giorno d’oggi non esistessero i farmaci e non fosse in corso la sperimentazione dei vaccini, i tempi della fase acuta della pandemia di Covid potrebbero non essere molto dissimili. Il supporto dato dalle terapie e dalla ricerca ci fa sperare in uno svolgimento molto meno drammatico e in un numero assai minore di vittime. Nella storia non abbiamo mai affrontato un’epidemia di questa portata con gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi. In maniera banale, nel 1918 perfino le mascherine chirurgiche non esistevano davvero. Per non parlare poi dell’odierna possibilità di svolgere lavoro e attività da remoto, che costituisce un’ulteriore modalità di protezione e distanziamento.
Restrizioni, chiusure, contenimento: stiamo andando nella giusta direzione?
È difficile dire chi abbia fatto le scelte più giuste su scala globale. Sicuramente un approccio vincente è stato quello di Oceania ed estremo Oriente, che però sono due realtà molto lontane da noi: nel primo caso, la specificità è data dalla scarsa densità di popolazione e dalle caratteristiche geografiche; nel secondo caso, ci sono state probabilmente delle restrizioni e il rispetto di una disciplina che per noi sarebbero difficilmente applicabili. Se guardiamo Paesi omogenei all’Italia, che ci assomigliano di più, direi che durante la prima ondata abbiamo fatto molto bene.
E la seconda ondata?
È presto per dirlo, ma credo che un fattore cruciale sarà rappresentato da quale grado di espansione presentava il virus quando i primi provvedimenti sono stati adottati. Germania, Francia, Italia, Svizzera e Inghilterra hanno imposto restrizioni, ma in momenti in cui il livello di diffusione dell’epidemia era diverso. I tedeschi sono intervenuti quando c’era un nuovo caso positivo a settimana ogni mille abitanti, noi quando ce ne erano due, gli altri Paesi a seguire. Se dovessi dire chi ha fatto meglio, punterei su chi è intervenuto più precocemente, anche se bisognerà attendere i dati.
Durante la sua partecipazione a DiMartedì su La7 ha citato uno studio condotto dal MIT di Boston, che rivela come quando qualcuno tossisce ed è asintomatico il suono che produce con il suo colpo di tosse è diverso dal suono prodotto da una persona che non è stata infettata: si tratta di una differenza che l’orecchio umano non riesce a distinguere, ma che un programma di intelligenza artificiale può cogliere. Sarà l’IA l’àncora di salvezza del nostro futuro?
In generale, questo tipo di tecnologia ci aiuta a “trovare l’ago nel pagliaio”, a cogliere piccoli dettagli rivelatori. Programmi di intelligenza artificiale, per esempio, si utilizzano per analizzare esami radiologici e riscontrare focolai di cellule tumorali che all’occhio umano sfuggirebbero. Il supporto che possono dare alla scienza è grandissimo.
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