
da rivista.vitaepensiero.it
Un mondo secolarizzato può bastare
a se stesso?
04.12.2021
di Dario Antiseri
Il cancro che sta attanagliando l’Europa è in primo luogo la sua scristianizzazione, vale a dire la sua progressiva secolarizzazione. È un’Europa che sta perdendo la propria memoria e non sa più dove andare.
Nel secolo scorso, quando le idealità cristiane cessarono di essere una forza viva, alla fede religiosa intere popolazioni europee sostituirono una “religione sociale” e la trovarono nel socialismo e nel fascismo, nel comunismo e nel nazismo. Ai nostri giorni, si stende sull’Europa la notte del nulla – si cerca di riempire il vuoto dell’anima genuflettendosi davanti al dio-denaro e, intrecciato a esso, al dio-del- potere, del potere sugli altri.
Scriveva circa sessant’anni fa Wilhelm Röpke: «Sono giunto così alla radice di un pensiero che spero condiviso da molti: sono sempre stato riluttante a parlarne, perché appartengo a quella categoria di persone che portano malvolentieri in piazza i propri convincimenti religiosi. Oggi dico senza mezzi termini: la malattia della nostra civiltà ha le sue radici più profonde nella crisi spirituale e religiosa ch’è in ogni individuo; e solo nell’anima di ogni individuo può trovare il proprio superamento. Benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus, tendiamo sempre più, da un secolo a questa parte, a fare a meno di Dio, mettendo al suo posto l’uomo, con la sua scienza, con la sua arte, con la sua tecnica e con il suo Stato, tutti lontani da Dio o addirittura senza Dio. Verrà un giorno in cui ciò che ora è chiaro soltanto a pochi apparirà chiarissimo a tutti: si vedrà che questo tentativo ha creato una situazione incompatibile con la vita etica e spirituale dell’uomo, il quale non potrà continuare a esistere così, malgrado la televisione, le autostrade, i viaggi di piacere, gli appartamenti confortevoli».
«Non bisogna aspettarci dalla filosofia ciò che ci si aspetta dalla scienza, cioè risposte, anche se parziali. Il compito della filosofia è porre domande, non lasciare l’uomo senza domande, e fare intendere che al di là delle risposte della scienza c’è sempre una domanda ulteriore, non appagarci mai della risposta, per quanto ardita e geniale, dello scienziato; renderci conto che, per quanto sia stretta la zona di luce del nostro sapere, c’è sempre una zona d’ombra, che non sembra diventare più piccola per il solo fatto che la nostra esplorazione nel cosmo si è perfezionata. Anzi, in un certo senso, credevano di saperne di più sull’universo quelli che sapevano meno. Oggi tanto più sappiamo, tanto meno sappiamo». Questo diceva Norberto Bobbio in una conferenza tenuta a Cattolica nel 1980. La filosofia, insomma, pone domande alle quali non può dare risposta. E questo per la ragione che l’orizzonte della filosofia è la totalità «e nessuna mente umana può abbracciare la totalità». Ma, sempre per Bobbio, «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della mente umana, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea».
La “grande domanda” – la domanda filosofica – è fuori dalla scienza; è la domanda più urgente, inestirpabile: è una richiesta di senso e non una spiegazione scientifica. «Richiesta di senso», esplicita Bobbio, «significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e alla vita di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all’universo intero». In realtà, davanti a ogni più piccolo problema ci poniamo sempre due perché: «un perché causale e un perché finale. Ovvero: 1) quali sono le cause per cui accade quello che accade? 2) perché è accaduto proprio quello che è accaduto, e non altro? O meglio: in quale disegno universale dell’universo si inserisce l’accadimento di cui conosciamo perfettamente le cause che l’hanno prodotto? In altre parole, nell’un caso si tratta di spiegare un fatto, nel secondo di giustificarlo. Il sapere scientifico, quando riesce, dà una risposta al primo perché. Non al secondo». La scienza individua le cause della morte di un bambino, ma non può offrirne il senso.
La ragione umana non è la Dea-Ragione
Scrisse Wittgenstein: «Noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati». È la vita a porre ogni uomo, in modo inesorabile, davanti al bivio dove egli dovrà scegliere tra l’assurdo e la speranza. La richiesta di senso si configura allora come un’invocazione di un senso ultimo – e, quindi, religioso – che l’uomo non sa e non può costruire con le sue forze, con la sua ragione. Questa non è la Dea-Ragione; l’uomo non è Dio. E in realtà, come sottolineato da F.A. von Hayek (e non solo da lui, ovviamente), «il compito di gran lunga il più difficile e di primaria importanza per la ragione umana è quello di comprendere razionalmente le proprie limitazioni» (L’abuso della ragione, 1967). Quello della filosofia – è ancora Bobbio a parlare – dovrà essere «un compito umile, molto umile, ma necessario»: «un compito di sentinella, più che presuntuosamente di “guida”. La sentinella che deve stare ad ascoltare l’avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l’allarme prima che sia troppo tardi».
Ne I racconti dei Chassidim Martin Buber parla del rabbi Mendel di Kozk, il quale «stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?”. Ma egli rispose da sé alla propria domanda: “Dio abita dove lo si fa entrare”». Da qui l’urgenza di una filosofia “sentinella” in grado di metterci in guardia di fronte, soprattutto oggi, alle sirene di uno scientismo riduzionistico tanto più insostenibile quanto più dogmatico. L’ateismo, nelle sue varie forme, non è una teoria scientifica. È una teoria filosofica costretta ad ammettere che il nucleo originario della materia si sarebbe autocreato. Una posizione, questa, più realistica di quella del credente? Certo, credere non è facile, e chi non ha dubbi, non ha fede. Con Kierkegaard: «Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta [Mt 7,14] (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità… proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa». La via della fede è stretta e buia. Ma forse è razionalmente fondata e illuminata la via battuta dall’ateo? Aveva torto Étienne Gilson a dire che l’ateismo è difficile?
L’intento di Wittgenstein, come noto, è quello di delimitare il dicibile – il dicibile dalla scienza – per proteggere l’ineffabile: quello che la scienza non può dire, l’etico e il religioso. E, in realtà, «noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero neppure sfiorati». Esiste una domanda: una richiesta di senso per la nostra vita, la storia degli uomini, l’universo intero. «L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega», afferma Norberto Bobbio, «la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo delle domande senza dare le risposte». Dunque: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Tale interrogativo è «una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio rinvia a una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica». Né la scienza né la filosofia potranno mai rispondere all’interrogativo di una richiesta di senso e la ragione di ciò è ravvisabile nel fatto che non si tratta di una interrogatio cui la ragione umana possa far fronte con una teoria scientifica o una proposta filosofica: non è, dunque, una interrogatio; è qualcosa di altro, è semplicemente rogatio, invocazione di un senso non costruibile da mani umane. È così, allora, che la richiesta di senso rinvia a una risposta che par difficile chiamare ancora filosofica. Il “senso”, ripete Lacan con Freud, è sempre religioso. Ogni uomo, prima o poi, giunge al bivio dove dovrà scegliere tra l’assurdo e la speranza: «La speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola».
Ancora Wittgenstein: «Che so io di Dio e del fine della vita? Io so che questo mondo è […], che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso […]. Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita». E ancora: «Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso».
Un’Europa sconsacrata è ancora Europa?
Sempre Bobbio ha detto: «L’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor di più quella contemporanea». E Röpke: «Benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus […], della spaventosa scristianizzazione e laicizzazione della nostra civiltà nessuna persona umana onesta verso se stessa può ormai dubitare». Ma, allora, un’Europa secolarizzata, che pare aver dimenticato le idealità cristiane quando le rifiuta o addirittura le calpesta, ebbene questa Europa è ancora Europa?
Nel 112 d.C. Plinio il Giovane, a quel tempo governatore della Bitinia, invia un resoconto all’imperatore Traiano, dove gli notifica di aver condannato a morte tutti quei cristiani che si erano rifiutati di adorare Cesare come Signore (Kýrios Kaýsar) e di maledire Cristo (Anáthema Christós). «Signore, […] ecco come mi sono comportato con coloro che mi sono stati deferiti quali cristiani. Domandai a loro stessi se fossero cristiani. A quelli che mi rispondevano affermativamente ripetei due o tre volte la domanda, minacciando il supplizio: quelli che perseveravano li ho fatti uccidere […]. Coloro che negavano di essere cristiani o di esserlo stati, se invocavano gli dèi secondo la formula che io avevo imposta, e se facevano sacrifici con incenso e vino dinnanzi alla immagine tua, che avevo fatto recare per tale intento, e inoltre maledicevano Cristo, tutte cose che, mi dicono, è impossibile ottenere da coloro che sono veramente cristiani, io ho ritenuto doveroso essere rilasciati».
È «per semplice osservanza della verità» che con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nella storia degli uomini l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. È per decreto religioso che Káysar non è Kỳrios. Con ciò, il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità di coscienze inviolabili, di persone «fatte a immagine e somiglianza di Dio».
La Grecia ha passato all’Europa l’idea di razionalità come discussione critica e, in questo senso, per dirla con P.B. Shelley, «noi tutti siamo greci»; ma non fu la Grecia a passare all’Europa i suoi dèi. Questi, come ha scritto Giovanni Reale, erano già stati resi vani dai filosofi a cominciare dai presocratici, Senofane in testa. Il Dio delle popolazioni europee è il Dio della Bibbia e del Vangelo. Che cosa sarebbe l’Europa o, ancor più esattamente, l’Occidente senza il cristianesimo? Sostiene Wilhelm Röpke: «Soltanto il cristianesimo ha compiuto l’atto rivoluzionario di sciogliere gli uomini, come figli di Dio, dalla costrizione dello Stato e, per parlare con Guglielmo Ferrero, di demolire l’esprit pharaonique dello Stato antico». Ed ecco, da parte sua, cosa, «per semplice osservanza della verità», volle precisare Benedetto Croce in Perché non possiamo non dirci cristiani: «Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto». E la ragione di ciò, precisa Croce, «è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità». E, dopo Croce, Karl Popper: «Riconosco», egli scrive ne La società aperta e i suoi nemici, «che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influenza del cristianesimo […]. I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa». E la coscienza, quale ultima corte di giudizio nei confronti del potere politico, in unione con l’etica dell’altruismo, «è diventata la base della nostra civiltà occidentale. È la dottrina centrale del cristianesimo (“ama il prossimo tuo”, dice la Scrittura, e non “ama la tua tribù”) ed è il nucleo vivo di tutte le dottrine etiche che sono scaturite dalla nostra civiltà e l’hanno alimentata».
È stato Benjamin Constant ad affermare che «l’epoca nella quale il sentimento religioso scompare dall’animo degli uomini è sempre vicina a quella del loro asservimento». Ed Eduard Laboulaye, riflettendo anch’egli sulla differenza fra la libertà antica e quella moderna (L’État et ses limites, 1865), scorge le radici più profonde della nostra libertà moderna nel coraggio di quei cristiani i quali, in nome dei diritti dell’anima individuale, si opposero al dispotismo del tardo impero. Scriveva, dunque, Laboulaye: «I palazzi dei papi hanno rimpiazzato il palazzo di Cesare; il Vaticano parla di potenza alla Chiesa; ma al di sotto di questo splendido edificio ci sono le catacombe, le quali parlano di libertà». Un’idea – questa – sulla quale solo qualche anno fa è tornato a insistere l’allora cardinale Ratzinger, vale a dire «sulla distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato […] Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberaldemocratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Agli inizi degli anni Cinquanta, Nikita Kruscev, nel corso di un colloquio con Harold Macmillan, all’epoca ministro degli Esteri della Gran Bretagna, chiese a costui che cosa fosse ciò in cui crede l’Occidente. E Macmillan rispose: «L’Occidente crede al cristianesimo». È un ateo come Renan a dire che «tutta la storia è incomprensibile senza Cristo»; ed è un altro ateo come Salvemini a dichiarare che è Gesù Cristo il maestro che «ci ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto». Ma ecco che è proprio il tratto più importante dell’identità europea, cioè il messaggio cristiano, che da più parti oggi viene messo in discussione, quasi ospite indesiderato nella propria casa. È quanto accadde, in modo eclatante, allorché – soprattutto per insistenza dell’allora presidente francese Chirac – si decise che dal Preambolo della Costituzione europea venisse cancellato il richiamo alle radici cristiane dell’Europa. E, in altri contesti, cosa analoga è accaduta e accade di continuo, a più riprese, con la richiesta che venga tolto il crocifisso dai luoghi pubblici, come i tribunali, o ancor più dalle scuole, o che venga vietato l’allestimento del presepe negli asili e in tutti gli altri ordini di scuole e in ogni altro edificio pubblico. E ciò – si dice – per la ragione che si tratterebbe di “simboli” che offenderebbero quanti credono in fedi diverse dal cristianesimo.
Viene qui subito da chiedere: e per quali mai ragioni fedeli di altro credo, fuggiti dai loro Paesi dilaniati dagli orrori del fondamentalismo, dovrebbero sentirsi offesi da “simboli” e “tradizioni” di una fede – quella cristiana – costitutiva di una civiltà disposta ad accoglierli e a strapparli dalla morte e dalla fame? Tutti costoro dovrebbero piuttosto guardare con rispetto a “simboli” e “tradizioni” di una civiltà che affonda le proprie radici nel messaggio di colui che è morto in croce. E all’attenzione di quanti, in nome di un laicismo – non di rado dai tratti fondamentalisti – immaginano una società sconsacrata, mi permetto di sottoporre un pensiero di T.S. Eliot: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie». E, per concludere, un ammonimento di Antonio Rosmini: «Chi non è padrone di sé, è facilmente occupabile».
Dario Antiseri
Dario Antiseri (Foligno, 1940) è uno dei più importanti filosofi italiani. Già professore ordinario di Metodologia delle scienze sociali, è fra i massimi specialisti del moderno pensiero liberale angloamericano e austriaco, da Popper a von Hayek, e autore di numerosi volumi e articoli. “La sua grande Storia della filosofia” (con G. Reale) è stata più volte riedita e tradotta.
Negli anni ’60 e ’70 ho frequentato la comunità di Russia Cristiana di Seriate guidata allora da padre Romano Scalfi. In lui c’era una spiritualità fuori del comune.
http://www.russiacristiana.org/padre-romano-scalfi
Di lui ricordo molte cose, ma una mi ha particolarmente colpito:
“Nell’U.R.S.S. il cristianesimo è sopravvissuto nonostante le persecuzioni del regime perché viveva nell’animo della gente.
In occidente se si limiterà ad occupare solo il corpo dell’uomo fatalmente morirà.”