I bambini soli al confine, la disperazione di Gaza
da AVVENIRE
8 febbraio 2019
Al valico di Erez.
I bambini soli al confine,
la disperazione di Gaza
Fiammetta Martegani, Tel Aviv
I padri palestinesi ottengono permessi per portare i figli a curarsi negli ospedali israeliani. Poi restano illegalmente a lavorare nel Paese per mantenere la famiglia. E spediscono indietro i piccoli
Il bambino era lì, da solo. Palestinese. Quattro anni. Aspettava sul versante israeliano del valico di Erez, al confine con Gaza. I soldati l’hanno trovato così il 5 febbraio. Era entrato in Israele con il padre che aveva ottenuto i permessi per uscire dalla Striscia e accompagnarlo in ospedale per le cure mediche: nella Striscia le strutture sono al collasso, manca tutto, e la necessità di un ricovero è uno dei criteri prioritari che permette ai palestinesi di attraversare il confine legalmente. Anche quando si tratta di genitori che accompagnano i figli minorenni. Il padre ha poi però deciso di restare – illegalmente – in Israele. Ha consegnato il bambino a un altro palestinese affinché lo riaccompagnasse al valico, per farlo rientrare a Gaza. E il piccolo è stato mollato lì.
Succede. E succede sempre di più, lungo il confine tribolato di Gaza. «Questo mese – ha spiegato il Colonnello Iyad Sarhan del Cogat (Coordinator of Government Activities in the Territories), l’unità del governo israeliano che si occupa del coordinamento delle questioni civili tra Israele e i Territori – abbiamo trovato al valico di Erez altri bambini abbandonati. Erano entrati in Israele per ricevere cure mediche. I genitori, che si supponeva dovessero accompagnarli per garantire loro un senso di sicurezza, hanno scelto di restare qui in maniera illegale, rispedendo i figli da soli a Gaza. Come essere umano e come padre, spero che questo fenomeno abbia presto fine».
Tania Hari, amministratore delegato di Gisha, una Ong di avvocati israeliani che segue la logistica al fine di garantire la tutela dei diritti umani a Gaza, ritiene però che il fenomeno vada contestualizzato. «Certo, è terribile quello che sta succedendo. Ma bisogna allargare lo sguardo. La situazione economica a Gaza ha raggiunto picchi mai toccati finora, con circa il 55% di disoccupazione. Padri disperati adottano l’unica strategia che consente loro di far curare i figli e, insieme, varcare il confine per poter lavorare, illegalmente, in Israele, e quindi mandare i soldi alla famiglia rimasta nell’enclave».
Anche la definizione di “abbandono” secondo Hari non è sempre corretta, perché questi bambini, una volta terminate le cure mediche necessarie, non vengono lasciati a se stessi, ma affidati a qualche altro palestinese, spesso a sua volta in cura nello stesso ospedale israeliano, che, una volta giunto al confine, dopo averli consegnati temporaneamente al Cogat, li metterà poi in contatto con la madre e il resto della famiglia a Gaza. «C’era un periodo in cui nella Striscia la gente cercava di scavalcare il confine illegalmente, rischiando la vita pur di poter ottenere un lavoro. Oggi scavalcare il confine è diventato impossibile, per cui si ricorre ad altre strategie».
Il fatto è che queste strategie comportano gravi rischi per la sicurezza. E mettono a repentaglio anche il lavoro, fondamentale, di quanti, in Israele, si occupano di predisporre progetti sanitari di aiuto ai palestinesi. Tra questi, in particolare, il Centro Peres per la Pace, fondato dall’ex presidente Peres nel 1996 grazie ai fondi ottenuti con il Nobel della Pace nel 1994. Tra le varie iniziative, “Saving Children” si occupa specificamente del ricovero di bambini palestinesi in Israele, curandone un migliaio ogni anno. E oltre alle cure uno degli obiettivi fondamentali del progetto è quello di costruire ponti tra i due popoli, creando interazioni tra bambini in cura, le famiglie che li visitano, i medici israeliani e palestinesi, che in questi ospedali si formano.
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