Francia in piazza, ma sulle pensioni Macron tiene il punto (e la demografia è dalla sua parte)

Les Echos, Afp

Francia in piazza,

ma sulle pensioni Macron tiene il punto

(e la demografia è dalla sua parte)

di MASSIMO NAVA
La scenografia francese è sempre appassionante per gli osservatori esterni. Piazze in rivolta, manifestazioni oceaniche, un clima che sembra sempre la vigilia della rivoluzione. Lo scontro è fra l’Eliseo e i sindacati, la scintilla è la riforma delle pensioni, ma, più in generale, è in gioco un’idea di Stato sociale cui i francesi sono aggrappati, come dimostrano i sondaggi, favorevoli agli scioperi, nonostante grandi disagi, paralisi di servizi pubblici e persino blocco delle raffinerie (ne ha scritto anche Aldo Cazzullo nel suo editoriale di oggi: «La società francese non avanza per riforme, ma per rivoluzioni. Non è pragmatica, è ideologica. E le strade di Parigi, inutilmente allargate dal prefetto Haussmann per rendere più difficile innalzare barricate, restano un mito politico»).
Ma ciò che sfugge questa volta è un particolare essenziale : il presidente Emmanuel Macron tiene il punto, è deciso a portare in porto la sua riforma delle pensioni, cosa mai riuscita ai predecessori. Nonostante l’annuncio di ulteriori manifestazioni e scioperi nei prossimi giorni, il dibattito all’Assemblea Nazionale e al Senato va avanti, pur fra infuocate polemiche, ricorsi al voto di fiducia e raffiche di emendamenti. E se è vero che il governo ha fatto diverse concessioni ed è pronto a farne altre, è anche vero che alla fine la riforma — benché ammorbidita rispetto ai propositi iniziali — alla fine sarà approvata.
La storia e la cronaca dei prossimi mesi ci diranno se il decisionismo di Macron si sarà tradotto in una vera vittoria politica. Certo è che il presidente, non potendo correre per un terzo mandato, ha potuto permettersi una certa fermezza, pur giocando con carte non certo favorevoli. All’Assemblea non ha la maggioranza e il ricorso al sostegno dei repubblicani/gollisti ha un prezzo. La lunghezza dei dibattiti all’Assemblea Nazionale, imposta dalla strategia di ostruzionismo dell’estrema sinistra de La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, ha avuto un esito opposto, grazie alla destra repubblicana, mercoledì sera al Senato, dove si è discusso l’articolo 7 del progetto di riforma del governo, il punto chiave del testo: l’innalzamento dell’età pensionabile legale da 62 a 64 anni è passato con 201 voti favorevoli e 115 contrari, su 345 votanti.
La maggioranza del Senato aveva tirato fuori l’artiglieria pesante del regolamento, mentre la sinistra ha urlato al colpo di mano. Il dibattito riprende oggi su altri punti controversi, quali la graduale eliminazione dei regimi speciali, già votati per i futuri dipendenti pubblici. Il portavoce del governo Olivier Véran ha detto che il Presidente della Repubblica «rispetta le istituzioni […] ma oggi è il tempo parlamentare ad avere corso». L’esecutivo scommette anche su una perdita di slancio del movimento sociale. Dopo il voto al Senato, una commissione mista di senatori e deputati dovrebbe discutere il testo definitivo che andrà in votazione all’Assemblea il 16 marzo. Nel frattempo i sindacati esaltano la « mobilitazione storica » di sabato e si preparano ad organizzarne altre, ma resta il fatto che l’iter parlamentare va avanti.
Il progetto di riforma, presentato il 10 gennaio dal primo ministro Elisabeth Borne dopo diversi mesi di consultazioni con le parti sociali e le forze politiche, ha come obiettivo il risanamento finanziario del sistema che deve fare i conti con una serie ferruginosa di storiche e anacronistiche norme e sopratutto con la demografia. Si propone di alzare l’età legale a 64 anni nel 2030 — e non da 62 a 65 anni nel 2031, come aveva annunciato il capo dello Stato durante la campagna presidenziale — e di accelerare l’estensione della durata dei contributi a 43 anni dal 2027 (sempre un quarto in più all’anno). Ma nessuno dovrà lavorare più di 44 anni. «Questo progetto è universale perché riguarderà tutti», ha sottolineato il capo del governo: i dipendenti pubblici e gli agenti dei regimi speciali dovranno lavorare due anni in più. Anche se l’estinzione dei regimi speciali (FES, RATP) riguarderà per ora solo le future assunzioni. Ma il governo ha fatto anche concessioni, in particolare sulle carriere lunghe e penalizzanti, che permetteranno un uscita anticipata.
Il governo, privo della maggioranza assoluta in Assemblea, sta lavorando per convincere la destra della bontà del suo progetto: un “sì” dei deputati di LR consentirebbe l’adozione della riforma senza passare per l’articolo 49.3.
***
dal Corriere della Sera

La Francia si arrabbia di nuovo

di Aldo Cazzullo
Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è. La riforma di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui
La Francia ritrova la sua maledizione: la riforma delle pensioni. «L’ossessione della tecnocrazia francese» secondo Jérôme Fenoglio, direttore del Monde. La tomba dei presidenti: François Mitterrand abbassò l’età pensionabile da 65 a 60 anni e si inimicò l’establishment, Jacques Chirac la innalzò e si inimicò il popolo; e ora pure Emmanuel Macron si sente poco bene. Il grande sciopero dell’altro ieri, con tre milioni e mezzo di lavoratori in piazza, è solo una battaglia di una lunga guerra. Macron ha già versato parecchia acqua nel suo vino. Ha posticipato la riforma il più possibile. Ha rinunciato a portare la soglia a 67 anni, accontentandosi di quota 64. Ha riconosciuto esenzioni per i lavori usuranti. Ma qualcosa dovrà pur portare a casa. Resta da capire perché sono proprio le pensioni, e non ad esempio i salari o il lavoro per i giovani, ad accendere la miccia della rivolta. Nel gennaio 1996 la riforma proposta da Chirac e dal suo primo ministro Alain Juppé, un cauto centrista, innescò la più grande ribellione di strada dai tempi del Maggio 1968. Dopo un mese senza treni né metrò, si rividero a Parigi i cortei dei «controrivoluzionari» che avevano sfilato per De Gaulle. Eppure quella volta gran parte dell’opinione pubblica simpatizzava per i dimostranti. Gli chéminots, i ferrovieri che andavano in pensione a 50 anni come se spalassero ancora carbone nelle locomotive dei romanzi di Zola, incarnarono la rabbia della maggioranza dei francesi.
Edgar Morin e Alain Touraine, che erano già allora i più importanti studiosi della società, spiegarono che si trattava della prima rivolta contro la globalizzazione. L’anno dopo Chirac perse clamorosamente le elezioni legislative.
La spiegazione è che nulla come le pensioni fotografa meglio il contrasto tra le élites e il popolo. Tra il vertice e la base della piramide. Tra i tecnici, che spiegano come dovrebbe funzionare il mondo, e l’uomo comune, che il mondo lo deve vivere com’è; e siccome la maggioranza degli uomini comuni fa lavori duri e malpagati, e accoglie la «retraite» come una liberazione, ogni tanto si indigna moltissimo. Non a caso oggi due terzi degli elettori appoggiano la protesta.
La società francese non avanza per riforme, ma per rivoluzioni. Non è pragmatica, è ideologica. E le strade di Parigi, inutilmente allargate dal prefetto Haussmann per rendere più difficile innalzare barricate, restano un mito politico. Anche se in questo inizio secolo non è più la Libertà a guidare il popolo, come nel meraviglioso quadro in cui Eugène Delacroix incarnò la Francia in una donna a seno nudo che impugna un fucile e un tricolore sulle barricate; ma spesso è la Reazione, impersonata dalla jacquerie dei Gilet gialli. Ieri si liberavano i prigionieri politici, oggi si scassano i bancomat; però sempre rivolta è.
La riforma delle pensioni di Macron alla fine passerà. Il presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento; ma non esiste neppure una maggioranza contro di lui. Quel che rimane della destra moderata potrebbe appoggiarlo; e in ogni caso la Francia è una Repubblica semipresidenziale, i meccanismi di protezione dell’esecutivo consentono di far passare una legge anche senza la maggioranza dei voti. Ma non è con queste forzature che si sciolgono i nodi politici, che si governa un grande Paese europeo.
Jean-Luc Mélenchon, il capo della sinistra radicale, sta ovviamente con i dimostranti, e chiede di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Non le avrà: Macron non vuole rischiare. Marine Le Pen è più prudente. Da antisistema è diventata o vuole diventare «femme d’Etat», donna di Stato. I francesi, che la consideravano un’outsider, cominciano ad abituarsi a vederla all’Assemblea nazionale alla testa di quasi novanta deputati: la pensano ormai dentro il Palazzo, non più fuori e contro.
Macron ha rappresentato per il sistema francese la diga contro il populismo, quello di sinistra e quello — più forte — di destra. Ha ancora quattro anni di potere, ma non potrà ricandidarsi; e il suo successore designato, Edouard Philippe, già portavoce di Juppé, sta male, soffre di una malattia misteriosa che potrebbe metterlo fuori gioco. Solo il tempo dirà se Marine Le Pen è condannata ad arrivare fin sulla soglia dell’Eliseo senza entrarvi mai, o se si rivelerà la Mitterrand di destra, che perde più volte ma alla fine vince.
In ogni caso, la Francia sente di non contare molto più di nulla nel nuovo ordine mondiale; e chiede almeno di vivere meglio. Le disuguaglianze mordono la coesione sociale. Per restare ai fatidici chéminots, le Ferrovie dello Stato hanno chiuso l’ultimo bilancio con oltre due miliardi di utili; ma per un Tgv che sfreccia, ci sono dieci treni pendolari sporchi e lenti. Però i pendolari sono molti di più dei passeggeri dei treni ad alta velocità. E sono arrabbiatissimi.

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