Ero e sono tuttora tentato di porre alcune domande come premessa.
D’istinto mi verrebbe da esclamare: “Ben vengano questi preti di periferia!”.
Poi, riflettendo, vengono forti dubbi. Lo dico anche pensando alle mie precedenti esperienze, sul campo aperto ad ogni lotta anche politica.
Dubbi e domande che mi faccio, pensando al mio passato. A che cosa è servito, se poi, lasciato il campo per diversi motivi, tutto è rientrato nel solito tran tran?
E se un prete d’avanguardia nel campo socio-assistenziale viene per promozione e per bisogno spostato in altri campi più difficili, non è perché tutto il suo darsi da fare è solo pragmatico, senza quel pensiero profondo, già di per sé dissidente, e perciò scomodo alle autorità gerarchiche?
Ma l’agire senza un grande pensiero a cosa serve? Resta in superficie… Un fare e strafare, coinvolgendo tutto e tutti, e poi? A che serve, se non c’è un pensiero di fondo, che resterà nel tempo?
Questo prete che sa coinvolgere tutto e tutti mi fa letteralmente paura, se tutto rimanesse all’esterno di quell’essere che andrebbe educato nei suoi valori più profondi.
Alla gente puoi anche dare tutto ciò che serve per aiutarla nelle sue emergenze più drammatiche, e poi? Che cosa resterà?
Un agitarsi per che cosa?
La gente ha bisogno, certo. La gente va aiutata, certo. Ci sono fenomeni giovanili allarmanti, e questi restano lì, sotto gli occhi di tutti. Certo, però sarebbero più allarmanti se non ci fosse nel frattempo un’opera di prevenzione. D’accordo. Ma come agire prevenendo? Su che cosa agire prevenendo? Solo dando ai giovani, per toglierli dal male, qualche spazio in più perché si trovino per fare ciò che vogliono, ma in modo più accettabile?
Certo che il problema è complesso, certo che richiederebbe la sinergia di più forze educative in campo. Certo…
Il problema sta nella continuità di questa energia di più forze in campo. Ma… via il prete, per motivi diversi, che cosa succede?
E allora, che fare?
Ci poniamo il problema vero, ed è che oggi sembra tutto così marcio o manchevole di quel qualcosa di essenziale che potrebbe aprire strade nuove?
I bisogni cambiano, così le povertà, le strutture assistenziali, la società, non si può correre dietro a tutto, inventando di tutto. Ma l’uomo resta sempre monco di qualcosa, ed è la realtà più importante: il suo essere interiore.
Mai sentito parlare dell’essere interiore, neppure nella GMG di Lisbona: si è parlato di tutto, di questo e di quello, anche di ambiente, di pace, ma basta?
Questi preti tutto fare, questi preti impegnati a inventarsi ogni giorno strutture nuove per alleviare le sofferenze della gente, si sentono ministri di quel Cristo che invitava urlando: Metanoèite!, ovvero cambiate mentalità?
Questi preti tutto fare mi fanno letteralmente spavento!
La gente povera ha bisogno di questo e di quello, è vero. Ma ha bisogno solo di “qualcosa”? E i giovani “fuori di testa” di che cosa hanno bisogno?
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da La Repubblica
La lotta del parroco
tra le Torri Bianche al Gratosoglio:
“Rabbia, spaccio, povertà:
qui una rissa al giorno”
Storia di Zita Dazzi
Chi abita al Gratosoglio lo sa. Bisogna guardarsi davanti e di dietro quando si va in strada da quelle parti, e se ti siedi sulle panchine di via Saponaro, all’ombra delle storiche Torri Bianche, tempo cinque minuti, e arriverà qualcuno, in genere minorenne, a proporre un campionario di droghe da tutto il mondo. Il nuovo parroco di Santa Maria Madre della Chiesa, situata proprio lì, nella piazza dei vecchi palazzoni Aler, al civico 28 di via Saponaro, si chiama don Paolo Steffano, 58 anni, prete di strada fra i più coriacei. Da luglio ha l’incarico ufficiale di questa, oltre che delle altre tre parrocchie della zona, San Barnaba, Santi Pietro e Paolo ai tre Ronchetti e quella nuovissima intitolata a Madre Teresa di Calcutta, dall’altra parte di via dei Missaglia, alle “Terrazze”, la parte chic del Gratosoglio, da dove le Torri Bianche vengono viste come una specie di Bronx dal quale girare al largo. Già da due anni, don Paolo è stato trasferito dall’arcivescovo Mario Delpini da Baranzate, dove aveva l’oratorio più multietnico d’Italia, a questa altra terra di confine, luogo dove la città avvicina le sue radici alla campagna, ma trattiene tutti i suoi miasmi sociali, come un male difficile da debellare.
Don Paolo prima di prendere ufficialmente in carico quella che è una delle parrocchie più complicate di Milano, ha consumato le suole delle scarpe battendo in lungo e in largo il territorio, frequentando i bar «dove è più facile capire con che gente avrai a che fare», andando a conoscere la miriade di associazioni e gruppi di volontariato che si danno da fare per offrire una speranza ai novemila abitanti delle case popolari. Tiene molto in considerazione i consigli del vicequestore del commissariato Scalo Romana, Achille Perone, e il comandante dei carabinieri della stazione Missaglia, Domenico Auriemma, angeli custodi della zona, «due persone che assicurano una presenza discreta ma continua nel quartiere, dove altrimenti la gente dovrebbe girare armata per difendersi dai pericoli». Sì, perché don Paolo, che a Baranzate era un’istituzione e riusciva a far dialogare assieme tantissime realtà diverse, qui al Gratosoglio, ancora più desolato nel caldo di agosto, non esita a parlare dei rischi che corrono anche le persone che stanno alla larga dai brutti giri, dalle baby gang, dai clan che si combattono per il controllo dello spaccio. «Qui ogni giorno c’è una rissa, un pestaggio, un qualcuno che minaccia qualcun altro per una sciocchezza, e poi sbandati che dormono per strada, soprattutto nei pressi della “casa gialla” dove c’è il centro d’accoglienza, ma anche sulle scale dei palazzi popolari. Scene di ordinario degrado che fanno parte delle panorama umano di questa enclave chiusa fra via Baroni e via Saponaro, una specie di piovra di cemento, con i tentacoli che sono le vie interne collegati a gruppi di numeri civici. Un quartiere nel quartiere».
Tutto ruota attorno alla piazza di cemento senza nome dove sta la chiesa, quella sotto le Torri Bianche dove nel maggio 2018 si tenne il mega evento dedicato a Frida Kahlo con il sindaco Sala e il presidente di Confcommercio Sangalli che applaudivano, in mezzo a una folla di vip. Uno spettacolo di luci con le proiezioni dei quadri sui palazzi, musica ed essenze profumate. Cinque anni dopo, le essenze profumate sono un lontano ricordo e tutto è ripiombato in quel clima di attesa senza fine che ha sempre contraddistinto il posto. Lo spaccio, la rabbia dei ragazzi, la solitudine dei vecchi, l’abbandono dei senzatetto che gravitano attorno al dormitorio dei Fratelli di San Francesco (Saponaro 40) che adesso gestiscono anche una cascina nella vicina via Selvanesco, dove ci sono letti per minori stranieri non accompagnati. Fra l’una e l’altra struttura centinaia di posti. E quelli che non dormono dentro, rimangono nei paraggi, sulle panchine, dove capita. L’ex frate Clemente Moriggi è sempre in giro ed è ancora il deus ex machina di tutta l’organizzazione.
Da settembre la comunità pastorale nella quale saranno attivi una decina di persone, fra preti e laici, comincerà nuovi progetti, ma don Paolo l’oratorio lo tiene aperto anche in questi giorni assolati, dove pure i gruppi di volontariato più attivi da anni si prendono qualche giorno di riposo. «Ci sono vari livelli di problemi in questo quartiere — racconta don Paolo — . C’è un disagio di base legato alla povertà non solo economica delle persone che sono spesso senza lavoro, ma anche senza alcuno strumento culturale; c’è una aggressività, una vera e propria rabbia repressa a stento dei giovani che qui si sentono ghettizzati, senza futuro. C’è l’alcol, c’è la droga, le lotte fra chi gestisce lo spaccio. E poi c’è il tema dei senzatetto e degli emarginati che ruotano attorno alle strutture d’accoglienza dei frati. Questo incrocio di problemi, fa sì che la tensione e la violenza esplodano per un niente, basta un’occhiata di troppo per dare il via a un regolamento di conti, per vedere botte da orbi anche in pieno giorno. È un posto dove bisogna tenere gli occhi aperti, anche se sarebbe meglio chiuderli, a volte. Ieri, qui davanti alla chiesa, c’era un tizio di 65 anni con un ragazzino che gli passava la bustina, come se niente fosse». Racconta don Paolo che anche da questa parte del Gratosoglio, non alle ricche Terrazze ovviamente, c’è un problema di disagio psichiatrico ignorato, non monitorato dalle istituzioni. «Al capolinea del 3, il quadro più complesso. C’è quello che rincorre la ragazza, quello che si spoglia, quelli che arrivano in quattro e spogliano il primo malcapitato per rubargli tutto. Ci sono persone in condizioni molto difficili, uno è finito in ospedale in questi giorni perché pare sia stato aggredito e violentato da sconosciuti. Ma tutto il quartiere viene al centro d’ascolto della parrocchia. Chiedono aiuto, cibo, soldi. Ne ho già visti cinque a cui è stato tolto il reddito di cittadinanza e che ora non sanno come fare la spesa. Dicono “padre, ora mi devo cercare un lavoro”, e io gli dico che sì, certo, un lavoro occorre sempre cercarlo».
Don Paolo sa che lavorerà in rete con i tanti che qui si danno da fare seriamente per ricostruire il tessuto sociale, per dare dignità e futuro a tutti, soprattutto ai ragazzi, alle donne, a chi si lascia aiutare. «Ci mettiamo tutti assieme, parrocchie, associazioni storiche, polisportive, la fratellanza islamica che gestisce la moschea. Stiamo collaborando a far ripartire in modo ancora più incisivo il laboratorio di quartiere. Io sono andato a presentarmi alla gente, ho fatto vedere ai bulli che vengono fuori dall’oratorio che non ho paura, ho conosciuti altri di posti difficili. E poi sono salito nelle Torri, ho visitato le famiglie, mi sono messo a disposizione. C’è anche grande speranza, a fronte di una grande disperazione».
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Intervista
a Don Paolo Steffano
03/23/2021
Don Paolo Steffano ha 56 anni: è parroco di Baranzate, nella cintura milanese, e dal 2004 ha dato vita a un progetto di animazione della comunità che ha pochi eguali in Italia. ‘Un Pastore con l’odore delle pecore in un quartiere che è l’emblema della multietnicità’ lo ha definito di recente il quotidiano Avvenire in un lungo articolo a lui dedicato, cogliendo con un’immagine molto efficace la vicinanza tra don Paolo e la ‘sua’ gente. Don Paolo è un fiume in piena e il suo racconto ci travolge per un’ora con una parlata meneghina che strizza l’occhio al Milanese Imbruttito e una ironia irriverente che lo fa somigliare decisamente più a Giuseppe Parini, e la storia che dipinge è un continuo colpo di scena.
In questo periodo, cosa le nostre comunità locali devono perdere per salvaguardare se stesse? Con che strategia possono avere un futuro?
Ribalterei la domanda: cosa rimane dopo tutte le perdite? Rimane il radicamento nel territorio che per noi vuol dire investire tutto nelle relazioni. A Baranzate abbiamo costruito con la comunità molti servizi: il doposcuola, la distribuzione dei viveri… la pandemia ha messo tutto in discussione. Non siamo più riusciti a fare le cose come prima, abbiamo perso il nostro modo ‘normale’ di gestire le attività. In tutto questo cambiamento noi ci siamo chiesti non come risolvere i problemi che stavano emergendo, ma come tenere vive le relazioni che avevamo costruito.
Pensare di essere ‘quelli che risolvono i problemi‘ si porta dietro ancora un po’ di ‘puzza di assistenza’. La nostra utilità non è nel risolvere i problemi, ma nel creare relazioni che tengono le persone in gioco ognuno per il proprio ruolo e per la propria esperienza. Dopo tanti anni di lavoro nella comunità ci siamo accorti che l’inclusione non passa da progetti e attività pure belli e interessanti. Passa invece dal radicamento in un territorio che crea relazioni tra le persone.
Noi siamo una realtà di parrocchia ma per lavorare in un modo più aperto e non confessionale abbiamo dato vita prima a una associazione e poi alla fondazione IN-OLTRE che fin nel nome ha la sua vision: IN cioè essere radicati e incarnati, ma anche OLTRE per uscire dai nostri confini.
Faccio un esempio. Abbiamo lanciato la raccolta di punti del supermercato Esselunga per trasformarli in buoni spesa da dare a persone in difficoltà, e ce ne hanno donati una enormità. Ne è nato un progetto che si chiama ‘Esselunga nutre le periferie’ che trasforma i punti e le donazioni raccolte da sponsor in sostegno a piccole realtà vivaci ma senza grandi strumenti anche in territori diversi dal nostro. Come Fondazione abbiamo scelto di andare noi a cercare la piccola associazione che ha aperto un negozietto, il gruppo di donne… Li incontriamo, ragioniamo con loro, e ad ogni 6.000 euro raccolti facciamo partire un progetto di sostegno. La Fondazione non è la banca della parrocchia e i fondi che raccogliamo non servono a mantenere la nostra struttura: certo, sostiene l’associazione di Baranzate ma è nata per andare oltre, per sostenere soggetti piccoli che provano a fare comunità. Non sosteniamo le organizzazioni grandi e note: loro le risorse sanno come cercarle. Ci occupiamo di realtà belle e buone, magari non tanto strutturate, che sono nate come siamo nati noi: dal basso e con pochi mezzi. L’importante è il radicamento territoriale venga prima del progetto, perché i progetti, a volte, sono fini a se stessi. In tempi di pandemia ad esempio alcuni progetti hanno raccolto più fondi di prima, e il dramma di alcuni è diventato ricchezza per altri. Il caso dei migranti è emblematico.
Quindi oggi, dopo 15 anni, tu sei diventato un finanziatore di altre comunità?
Da sempre noi abbiamo chiesto ai finanziatori: aiutateci a essere autonomi. Ora abbiamo anche finanziatori importanti e chiediamo loro di sostenerci non per strutturarci meglio o diventare più grandi avviando nuove attività o assorbendo progetti di altri, magari in difficoltà. Ci sono già tante realtà che gestiscono servizi. Noi abbiamo scelti non di diventare competitor con realtà che ci sono già, ma di occuparci di quello che manca. Per noi il risultato non è passare da 15 a 25 appartamenti che gestiamo per accogliere le famiglie. Il vero successo è coinvolgere un quartiere, prendere 3 appartamenti in affitto calmierato e seguirli così bene da non avere -ad esempio- morosità: che è il segno di un accompagnamento che funziona davvero.
La vera novità su cui stiamo lavorando non è tenere per noi le risorse, ma sostenere l’empowerment delle piccole realtà di cui è piena l’Italia. L’unico vero indicatore di interesse per noi è il radicamento territoriale, la capacità di continuare a lavorare nella comunità nel tempo, anche oltre i progetti: che sia a Molise Calvairate o in Bolivia o in Ucraina, che sono i paesi da cui provengono alcune delle persone con cui lavoriamo a Baranzate. Non solo per noi.
Chi sono gli interlocutori prioritari coi quali condividere una strategia di cambiamento? Come costruisci le tue alleanze?
Per noi il lavoro, anche la costruzione di alleanze, parte dal basso, dalla concretezza del lavoro sul campo. Lavorando sui territori incontri tante persone, a volte anche persone ‘che contano’. Noi non li andiamo a cercare con progetti o proposte politiche. Li incontriamo quando passano da noi, quando vivono la nostra realtà e ci vedono lavorare. Ci sostiene chi si lascia contagiare, chi crede nel nostro modo di proporre il cambiamento. Paolo Barilla, che ci sostiene, è venuto 10 volte a mangiare un panino al bar: non per sentirsi ringraziare e nemmeno per controllare i lavori che ha sostenuto. Viene da noi per sentirsi parte del cambiamento che lui sta aiutando a costruire. E come lui Corrado Passera che ci ha aiutato con delle consulenze, o la Dottoressa Bracco. Anche noi facciamo lo stesso, e andiamo in giro a vedere a Verona, a Torino, a Scampia…
Noi, un po’ per necessità e un po’ per storia, non abbiamo convenzioni con i Comuni che certe volte non si sa se non hanno gli occhi per piangere o il cervello per decidere. Certo le risorse dei bandi aiutano, ma alla lunga quella logica ti logora. Noi abbiamo scelto di essere liberi: certo in questo avere l’aiuto di grandi finanziatori ci aiuta, ma abbiamo sempre lavorato perché le nostre attività fossero sostenibili… quello che non è sostenibile si regge su alleanze, ma sempre nella logica che quello che ci arriva non è solo per noi. Paradossalmente, questa scelta di sostenere altre realtà attira su di noi più risorse.
In una comunità è più funzionale avere un protagonismo diffuso e pochi soggetti trainanti? Quali sono i luoghi decisionali che permettono di garantire la partecipazione di ognuno al progetto di sviluppo della comunità?
Io sono in uscita: a settembre lascio Baranzate, e la pandemia mi aiuterà a fare un passaggio senza enfasi. L’associazione è nata per un protagonismo diffuso. Quando siamo partiti è ovvio che facessi tutto io perché per partire bisogna sfondare, ma sapevamo che era necessario condividere. Oggi abbiamo una struttura decisionale diffusa attraverso il direttivo, i capi area e i coordinatori. Negli ultimi due anni tutto questo è cresciuto, gestisce e decide al di là della mia figura… sicuramente io influenzo, sono anche ingombrante, ma l’organizzazione è cresciuta, e settembre sarà l’occasione piena di un passaggio generazionale che è cresciuto in dieci anni condividendo il senso di responsabilità.
Del resto ‘far crescere’ è il nostro stile: dare una spinta a realtà che procedono per conto proprio. E’ un modo per non appesantire la propria organizzazione e per far sì che ciascuno si prenda le proprie scelte in mano fino in fondo.
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Don Paolo Steffano insignito
dal Presidente della Repubblica
È stato un giorno di festa per il sacerdote, rimasto nel cuore dei cernuschesi.
Martesana, 06 Febbraio 2018
Don Paolo Steffano è stato insignito dal Presidente della Repubblica. E’ stato un giorno di festa per il sacerdote, rimasto nel cuore dei cernuschesi.
Don Paolo Steffano insignito dal Presidente
Don Paolo Steffano è stato insignito dal Presidente della Repubblica. E’ stato un giorno di festa per il sacerdote, rimasto nel cuore dei cernuschesi. Sergio Mattarella infatti ieri, lunedì, ha consegnato al sacerdote l’onoreficenza dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana “per il suo contributo a favore di una politica di pacifica convivenza e piena integrazione degli stranieri immigrati nell’hinterland milanese”.
Sacerdote per l’integrazione
Il 52enne è il parroco di Sant’Arialdo di Baranzate, ma dal 1996 al 2004 ha ricoperto i ruoli di vicario parrocchiale e responsabile della pastorale giovanile in città. In un contesto difficile come quello dell’hinterland milanese è difatti riuscito a unire ben 72 tradizioni differenti, celebrando per tutti un’unica Messa, come ha spiegato più volte. A Cernusco è ancora nel cuore non solo dei parrocchiani e dei ragazzi che sono cresciuti con lui, ma di tutta la comunità.
I complimenti di Cernusco (e non solo)
La notizia del prestigioso riconoscimento ha iniziato a diffondersi a Cernusco nella tarda serata di ieri. Non sono quindi mancati attestati di stima da parte del mondo della parrocchia e della società civile, tra cui quelli del sindaco Ermanno Zacchetti e del suo predecessore Eugenio Comincini. Il primo cittadino di Baranzate Luca Elia ha ringraziato il don e ha sottolineato che “per Baranzate è un grande onore”.
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