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08 Novembre 2023
Così l’Europa non ha futuro.
Mario Draghi: “Se non sarà più Unione,
resterà solo il mercato unico”
di Angela Mauro
Mentre a Bruxelles la discussione sul Patto Ue è al palo, con Berlino che la fa da padrona, e si fa un altro piccolo step (ancora senza data) sull’allargamento verso est, l’ex presidente del Consiglio rilascia un’intervista al Financial Times: “Valori a rischio, dobbiamo combattere per difenderli. Sul Medio Oriente siamo responsabili della nostra indifferenza: non basta erogare soldi, serve una politica estera comune”
La guerra in Ucraina è stato uno shock “inaspettato”, che “mi ha fatto pensare profondamente che il nostro mondo è cambiato”. È finito il tempo in cui “per la difesa spendevano gli Usa, l’export si faceva in Cina, dalla Russia si prendeva l’energia”. Ed è finito anche il tempo in cui l’Europa si trascinava avanti con 27 politiche differenti sulle diverse materie, è il senso del ragionamento di Mario Draghi. Mentre a Bruxelles la discussione sulle nuove regole fiscali è incagliata tra le opposte richieste degli Stati, con la Germania che riesce a piantare solidi paletti delle sue posizioni, l’ex premier rilascia un’intervista al Financial Times in cui accenna anche al report sulla competitività che sta elaborando su incarico della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Le parole dell’ex banchiere suonano definitive: “O l’Unione agisce insieme e diventa una Unione più profonda, capace di esprimere una politica estera comune e una politica economica comune, oppure non sopravviverà che il mercato unico”.
È finito il tempo in cui ci si poteva trastullare su una Unione non vera fino in fondo, ammesso che questo tempo abbia mai avuto davvero una sua legittimità. Dalla stessa guerra in Ucraina si potrebbe imparare tanto, sostiene Draghi. “La guerra in Ucraina è stata preceduta da una lunga serie di arretramenti sui nostri valori fondamentali: l’ammissione della Russia al G8 nonostante il mancato riconoscimento della sovranità ucraina, la promessa mancata di un intervento in Siria nel caso in cui Assad avesse usato il gas come arma, la Crimea, il ritiro dall’Afghanistan. La lezione che se ne può trarre è che non dobbiamo mai scendere a compromessi sui nostri valori fondamentali”, dice l’ex premier.
Anche sul Medio Oriente, alla luce del dramma in corso, l’Ue è responsabile, benché, riconosce Draghi, “non abbiamo un ruolo attivo”. Ma, aggiunge, proprio per questo, “quello che impariamo è che dobbiamo essere molto più attivi in futuro nel contribuire a un processo di pace e ad un accordo politico che sia sostenibile per tutti gli attori della regione”. In sostanza, è la critica, “siamo responsabili per la nostra indifferenza: abbiamo sempre pensato che erogare fondi”, come quelli erogati all’Autorità nazionale palestinese, l’Ue è il primo donatore dell’Anp, “sia abbastanza, ma non è così”.
Per questo Draghi guarda alla missione assegnata da von der Leyen come al suo contributo personale e politico per stabilizzare l’attuale maggioranza europea, cercando di rafforzare la diga contro i nazionalismi euroscettici in agguato alle elezioni di giugno, ma al tempo stesso cercando di apportare quelle novità necessarie alla sopravvivenza dell’Unione. Nell’intervista concessa al forum live del Financial Times e nello specifico a Martin Wolf, capo editorialista economico del quotidiano britannico, l’ex premier dà un accenno della filosofia del report sulla competitività europea che sta preparando per Bruxelles. “Dobbiamo avere un’economia capace di maggiore produttività – dice – Ci sono tante cose che possiamo imparare dagli Usa, ma anche dalla Gran Bretagna. Per esempio, possiamo puntare ad avere dei cluster tecnologici e culturali così come gli Stati Uniti hanno la Silicon Valley e il Regno Unito ha Oxford, Cambridge, Londra”.
Ma la precondizione è che l’Ue “diventi qualcosa di più di una Unione di diversi paesi in competizione tra loro anche sulle spese per la difesa. Dobbiamo invece veramente pensare a razionalizzare la spesa per la difesa, anche perché l’Ue è al secondo posto nel mondo tra le istituzioni che spendono per la difesa: l’avreste mai pensato?”.
Tra le note ‘positive’ (diciamo così), il fatto che la “recessione” in arrivo “non sarà destabilizzante” e, aggiunge Draghi, “non vedo una minaccia globale al dollaro. Abbiamo conosciuto altri periodi in cui gli Usa sono stati una potenza globale esitante, negli anni ’70 per esempio. Ora la situazione non è così diversa ma non vedo altre monete che possano prendere il posto del dollaro, non c’è un potere globale diverso dagli Usa”. Certo, c’è da essere “preoccupati” perché intorno aumentano “le autocrazie, le democrazie illiberali”, il rischio che alle prossime presidenziali negli Usa Donald Trump riesca a riconquistare la Casa Bianca è concreto. “Ma dobbiamo combattere nelle nostre sfere personali e collettivamente per impedire che la negazione dei nostri valori possa prevalere”, è la conclusione di Draghi.
Parole che a Bruxelles non suonano lontane, visto che l’ex presidente del Consiglio non è considerato ‘in pensione’, bensì è stato chiamato ad assumere un ruolo europeo attivo con il report sulla competitività dell’Unione. Al tempo stesso ai tavoli di discussione tra i leader la realtà sembra diversa da quella tracciata dall’ex governatore della Banca centrale: esitazioni, prevalenza di interessi nazionali, freni e veti incrociati. “A dispetto delle esitazioni la volontà c’è”, Draghi resta ottimista. “È vero che la giungla sta tornando, come scrive Robert Kagan”, aggiunge l’ex premier citando il libro dello storico americano sugli ultimi sconvolgimenti globali e il ruolo insostituibile degli Usa. “Ma dobbiamo reagire: abbiamo scoperto che il mondo che davamo per scontato non lo è, ma dobbiamo combattere, non ho dubbi sul successo finale”.
Realizzata una settimana fa, l’intervista a Ft viene diffusa oggi, nel giorno in cui Ursula von der Leyen presenta il ‘pacchetto allargamento’ per accogliere nuovi membri nell’Unione, a partire da Ucraina e Moldavia. Propositi che restano senza una data, anche perché sono legati ad inevitabili quanto difficili riforme dei trattati: così com’è ora, l’Unione non solo rischia di sparire travolta dai cambiamenti mondiali, ma di certo non è in grado di accogliere altri Stati membri. Ma oggi a Bruxelles si riunisce anche l’Eurogruppo, che si chiude ancora una volta senza certezze da parte italiana sulla ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Domani i ministri finanziari si riuniscono nell’Ecofin e anche lì è stallo e scontro sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, sospeso tre anni fa per la crisi da covid e pronto a entrare in vigore a gennaio in attesa delle nuove regole. Le ultime bozze di lavoro segnano una distanza sempre maggiore dalla prima proposta della Commissione europea improntata ad una maggiore flessibilità della governance dell’Ue.
Sta prevalendo l’impostazione della Germania, che ha ottenuto l’introduzione di una percentuale minima di riduzione del debito (da quantificare) e anche una soglia ulteriore di salvaguardia per mantenere il deficit sotto il 3 per cento (pure da decidersi). Nessuna concessione sullo scomputo degli investimenti dal calcolo del deficit. Le spese per il Pnrr e quelle sulla difesa vengono prese in considerazione solo come ‘fattori rilevanti’ ai fini della richiesta di poter raggiungere il traguardo di riduzione del debito in 7 anni invece che 4 e per evitare la procedura per debito eccessivo. È uno scomputo ex post, insomma, non ex ante, come chiede l’Italia e paesi ad alto debito come la Grecia. Paesi che rischiano di non ottenere nulla dalla trattativa, ragion per cui il ministro Giancarlo Giorgetti arriva a Bruxelles – oggi per l’Eurogruppo e domani per l’Ecofin – sul piede di guerra, pronto a bloccare la riforma del Patto.
“Se si raggiunge un accordo sulle nuove regole fiscali ci sarà un assestamento tra la fase attuale e la fase successiva. Se non si raggiunge un accordo sulle nuove regole tornano in vigore quelle precedenti”, ricorda il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, prima di entrare alla riunione dell’Eurogruppo. Sulla trattativa per riformare il Patto di stabilità, avverte, “il tempo non è illimitato”. Scade a fine anno e i negoziati sono in alto mare.
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