Sull’omelia di Mario Delpini per i nuovi Diaconi permanenti

Sull’omelia di Mario Delpini

per i nuovi Diaconi permanenti

Dopo aver ascoltato l’omelia che Mario Delpini ha tenuto ieri sera, sabato 9 novembre, nel Duomo di Milano, durante la solenne Ordinazione di 8 nuovi diaconi permanenti (diciamo, mentre egli parlava, senza dover aspettare la fine: oramai i giri di parole e di riflessioni a cerchi chiusi seguono immancabilmente lo stesso standard, col solito timbro di voce), mi ponevo la stessa domanda, ogniqualvolta l’attuale arcivescovo di Milano tiene omelie o conferenze, o rilascia intervista: egli non si pone mai almeno un dubbio, ovvero che perde infinite occasioni di Grazia illuminante?
Perdere occasioni di Grazia credo che sia ancor più grave (un peccato quasi imperdonabile contro lo Spirito santo), più del fatto che Mario Delpini sia lui il vero problema di essere all’altezza del buon pastore evangelico.
Ne puoi perdere una tra le infinite occasioni di Grazia, ma perderle tutte per un non volontà di aprirsi nell’intelletto, sì, questo è imperdonabile.
Poi, come si diceva una volta in latino, “supplet Ecclesia”, ovvero ci pensa, non tanto la chiesa istituzionale, quanto quella di Cristo, che è il Cristianesimo allo stato puro.
C’è anche la “comunione dei santi”, dal cui scrigno fluisce abbondantemente la Grazia di Dio, che non è mai del tutto personale, chiusa nel cerchio di una persona o di un gruppo “chiuso” di persone (pensiamo ai Movimenti ecclesiali).
E così sono convinto che ieri sera gli otto diaconi permanenti abbiano ricevuto lo stesso infinite Grazie dal Signore (ne basterebbe una, che è già infinita in sé), non per le parole di un vescovo piatto piatto, quanto per il sacramento stesso ricevuto, e per i riti liturgici, che hanno sempre un fascino del tutto speciale (anche qui ne basterebbe un segno carico di Mistero divino).
E allora, perché sempre criticare, quando non si offrono alternative? In breve: che cosa avrei detto, al posto di Mario Delpini, ieri sera?
Avrei iniziato così: cari uomini, ringraziate il Signore di essere nati maschi, altrimenti, se foste al posto delle vostre mogli, non avreste ricevuto il dono del diaconato, visto che ancora oggi il papa e i vescovi hanno ufficializzato che per il diaconato femminile bisogna ancora aspettare. In nome di che cosa?
Voi maschi, che fortuna avete! E le vostre mogli… aspettino, facendo ancora da contorno. Non dico che accanto al marito per forza ci siano mogli diaconesse: è sempre una scelta non necessariamente familiare. Ma non sarebbe l’optimum una famiglia di diaconi, marito e moglie? Ma la Chiesa perché divide là dove Dio probabilmente (diciamo così) non vuole? Ma il volere di Dio chi lo stabilisce, forse la stessa Chiesa istituzionale? Sembrerebbe di sì, visto che i tempi della Chiesa sono di piombo, mentre quelli di Dio sono leggerissimi, sfidando i lunghi tempi di una Chiesa talmente ingessata da richiedere, in questo caso, ben più di migliaia di secoli?
Mi è sembrato che nei giorni scorsi le mogli abbiano speso più tempo per assistere da “diaconi” ai mariti in attesa di ricevere il sacramento, dividendosi le stesse gioie e preoccupazioni.
Sì, si può essere “diaconi” per il battesimo, e si può essere diaconi anche senza il battesimo. Si è figli di Dio per nascita e si vive da figli di Dio mettendosi in stato di diaconato, come ha fatto Gesù Cristo, al servizio del Volere del Padre.
E vorrei chiedere a Mario Delpini, che ha tanto insistito secondo il solito schema/gioco dei ritornelli sul “troppo poco”. Certo, parole che possono essere stimolanti, ma rivolte a chi anzitutto? Solo ai credenti, alle stesse comunità cristiane, o forse non andrebbero rivolte alla stessa Chiesa istituzionale che talora e spesso mortifica l’osare di più, in nome proprio della prudenza del poco alla volta, o di quel minimo per non disturbare troppo l’ingessatura o l’ossessivo irrigidirsi della Chiesa istituzionale di fronte a qualsiasi spirito libero? Forse che Mario Delpini si riferiva al tempo materiale da dare per gli altri (tempo come crònos più che tempo come kairòs), alle energie fisiche più abbondanti, al servizio di una parrocchia oramai decadente? Appena il pensiero va oltre l’ingessatura dogmatica della Chiesa istituzionale, allora no: bisogna restare nei ranghi, altrimenti ti emargino, ti faccio fuori. Vero Mario Delpini, tu come ti comporti?
E poi che significa “fallimento” della croce o di Cristo come esempio di una persona umanamente fallita che si riscatta con la risurrezione?
Forse ho capito male, anche perché il caro vescovo Mario preferisce essere un po’ troppo enigmatico, per non esporsi troppo: lui sì ama il “troppo poco”, tranne quando va in giro come una trottola, allora eccede dando però non dico un minimo di Grazia, ma forse nemmeno un alito dello Spirito.
Forse avrei preferito, è un mio pensiero, che il vescovo citasse le parole di Cristo: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Il seme cresce con la Grazia, che produce i frutti.
Quante volte questo vescovo parla sul serio della Grazia di Dio? Quando ero in teologia, moltissimi anni fa, c’era un Trattato proprio sulla Grazia, e mi ricordo le bellissime ore di lezioni sulla Grazia del nostro Professore indimenticabile, don Pino Colombo.
A questi candidati Diaconi permanenti, dovevi parlare anzitutto di Grazia di Dio, da servire con tutto il proprio essere, “umilmente”.
Ecco, l’altra parola che dovevi pronunciare: umiltà. Servizio e umiltà sono due parole che sono indissolubilmente unite, perciò da non staccare tra loro.
Non mi rivolgo agli altri, quando parlo di umiltà, senza dimenticare il mio ego, ma l’ego aumenta con il potere gerarchico. Più si sale, l’ha detto il Maestro fallito, e più si dovrebbe servire perché il potere si fa autorevolezza, e non autoritarismo.
Oggi la Chiesa istituzionale quale autorevolezza ha? Certo, sta disperatamente aggrappata ancora al potere, poco o tanto che sia, solo per salvare la propria faccia, imponendo ancora una certa schiavitù morale e dogmatica, pur sapendo che sta parlando al vento.
Diaconato, servizio, umiltà e Grazia: perché non tenere un’omelia proprio sulla interconnessione di queste quattro parole?
Perché non dire che il compito dei nuovi Diaconi è servire la propria comunità, anche pulendo i cessi se fosse necessario? La Grazia divina trova mille occasioni per farsi notare, anche nei posti impensabili, perché ritenuti umanamente umilianti?
No, assolutamente non sto dicendo che i futuri diaconi dovranno fare il tappabuchi: la parte del sacrestano o del cerimoniere.
Dovranno essere pronti a tutto, e in caso di necessità sostituire anche il parroco, tranne per ora celebrare la Messa, che però si può sostituire con una paraliturgia, dando più importanza alla Mensa della Parola. E in questo, il diacono, che avrà più tempo per prepararsi, dovrebbe dare il massimo, annunciando quella Buona Novella che dovrà sempre essere Buona, quella Novità di Bene, l’Unico Bene Necessario, da cui emana ogni seme o raggio di Bene per la salvezza del mondo.
È a tutti nota la situazione drammatica (o provvidenziale) del calo delle vocazioni nella nostra diocesi. Dal nostro seminario escono ultimamente pochi preti novelli, i quali poi vengono destinati alle comunità parrocchiali, anche con qualche riserva sulla loro tenuta e sul loro criterio pastorale.
I diaconi permanenti sono oggi più che mai necessari, ma andrebbero anche loro destinati alle comunità pastorali più bisognose, e non succeda che in alcune parrocchie, ancora singole, vedi Viganò, sia rimasto un diacono per me “sciupato”.
E in questo senso parlavo di servizio più radicale, nell’umiltà, perché servire le comunità nella loro emergenza (i preti sono pochi), esige più impegno in una pastorale che non comporti cariche da lasciare ai cosiddetti laici. E qui il discorso si farebbe aperto, ma non saprei quanto ciò potrebbe entusiasmare il vescovo Mario restio a recepire le mie idee, che poi non sono proprio del tutto mie. In breve: istituire diversi ministeri, da affidare ai laici, i quali non si sentiranno solo tappabuchi o capaci solo di organizzare feste del salamino.
E qui la figura del Diacono permanente diventa importante. Mi spiego. Conosco diversi parroci, oramai immobili aggrappati al loro cadreghino, sia per l’età avanzata, sia per problemi di salute, sia per chiusure mentali paurose: per di più si fanno circondare da laici inadatti (chiamerei imbecilli), che invece di stimolare il parroco per il meglio lo consigliano per il peggio. E non è vero che nelle nostre parrocchie non ci sia più nessuno disposto a collaborare per il bene della comunità. Ma: o vengono di proposito scartati, oppure ignorati. Uno dei compiti dei Diaconi permanenti è andare a scovarli, a tirarli fuori dalle case, invitandoli ad assumersi qualche responsabilità. I frutti verranno, e con collaboratori intelligenti e aperti al Nuovo, le comunità, ne sono sicuro, rifioriranno.
Ma che cosa pretendere da un vescovo che tutto il giorno sta visitando su navette spaziali i pianeti privi di vita, o per incontrare e dare Buon Viaggio ai resti di astronauti morti in qualche missione extraterrestre fallita?
Una ragione in più perché i Diaconi permanenti si diano da fare, con i piedi sulla terra, e con lo sguardo verso il Cielo, da dove il Divino irraggia la sua Luce. Certo, la responsabilità crescerà, ma sarà accompagnata dalla Grazia, che è anzitutto Gioia gratuita di Vita, che sarà superiore ad ogni difficoltà che incontreranno.
Ogni tanto, anche tutti i giorni, i nuovi Diaconi leggano la pagina delle Beatitudini.
per leggere il testo omelia
Ordinazioni-diaconali-9-nov-2024-la-dove-sono-io-sara-anche-il-mio-servitore
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