La politica distratta e bloccata

Gli incidenti creati dai sostenitori di Bolsonaro a Brasilia (Epa)
dal Corriere della Sera

La politica distratta e bloccata

di Walter Veltroni
Preoccupano gli incidenti a Brasilia, dopo quelli a Washington un anno fa e in tanti altri casi. La democrazia non vive senza la cristallina differenza delle opzioni tra schieramenti diversi e senza forze che si legittimano e rispettano reciprocamente
A Brasilia in questi giorni e a Washington un anno fa, la democrazia ha vacillato. È stata attaccata secondo un modello i cui prodromi avevamo visto anche vicino a noi, a Parigi con i gilet gialli e a Roma con l’assalto alla Cgil. Leader che non riconoscono l’esito elettorale e che cercano di sovvertirlo facendo appello alla piazza o forze, spesso di destra estrema, che soffiano sul fuoco di un reale malcontento sociale per trasformarlo in attacco alle istituzioni tout court.
La democrazia ha resistito, per fortuna. Però quello che è accaduto non rimanda solo alla irresponsabilità di chi cerca di minarla ma investe problemi reali del suo funzionamento, del suo prestigio, della sua efficienza percepita e reale.
Guardiamo, su altra scala, al nostro Paese. I partiti che sono all’opposizione gridano contro l’uso esagerato dei decreti legge da parte del governo. I partiti che sono al governo, che protestavano allo stesso modo quando loro erano all’opposizione, una volta insediati adottano esattamente gli stessi metodi del passato. Chi prometteva la cancellazione delle accise sulla benzina, ora, dal governo, si accorge di non poterlo fare. Lo spoils system viene amato o avversato secondo la vicinanza o la distanza da chi lo pratica.
Nella grande democrazia americana, già ferita dal terremoto del tragico sei gennaio di Trump, il partito repubblicano, per la prima volta in cento anni, ha faticato ad eleggere il proprio speaker alla Camera dei rappresentanti.
Potrei fare altri esempi — molti, troppi — che riguardano la crisi dei sistemi democratici. Qui mi preme dire che la democrazia non vive senza la politica, senza la cristallina differenza delle opzioni tra schieramenti diversi e senza forze che, legittimandosi e rispettandosi, rappresentino questa meravigliosa diversità. La democrazia non vive se i partiti si trasformano in puri contenitori di ambizioni private, se personalismi e correntismi senza politica prevalgono sulle ragioni fondanti delle identità culturali, programmatiche, valoriali.
La democrazia non regge se chi la interpreta non capisce che la società è profondamente cambiata. Che i tempi e i modi della politica di un tempo, quando i governi potevano cadere a ripetizione per i raffreddori delle correnti o dei singoli, non sono più praticabili. Perché tutto il contesto storico si è modificato. Perché i partiti non funzionano più da recinti. Perché il debito pubblico non riesce più a contenere tutti i costi dell’ingovernabilità. Perché la rapidità della comunicazione consuma tutto rapidamente, leadership e promesse. Come se si fosse alla ricerca, non disperata ma indifferente, di un nuovo programma televisivo o come se governi e partiti si fossero ridotti solo a una immagine da «scrollare» per noia, l’universo degli elettori, trasformato in spettatori e consumatori, applica alla cosa pubblica le stesse categorie con le quali ormai si è abituato a vivere.
I partiti, tutti, hanno bisogno di costruire argini, non più i vecchi muri ideologici, costruiti dalla forza di valori e programmi fondamentali condivisi e dalla costante verifica di essi nella pratica quotidiana.
Paolo Giordano ha parlato, sulle colonne del nostro giornale, della «insufficienza emotiva» con la quale ha avvertito di leggere e vivere la pesantezza del presente: «Mi sono trovato ad assistere al martirio di ragazzi e ragazze neanche maggiorenni con un’impressione colpevole di estraneità».
Questa solitudine del singolo è prodotta anche dalla distrazione della politica. Dalla assenza di capacità di interpretare rabbia, trasformandola in battaglia civile, e di evocare sogni.
E così le ragazze e i ragazzi iraniani vengono massacrati nel silenzio da un mondo in cui le coscienze sembrano appagate da un tweet. Così da un anno si combatte una guerra spaventosa senza che le piazze si riempiano, come è sempre successo, di manifestazioni per la pace e il diritto di ogni popolo a vivere sicuro nella sua terra.
Così si perde tempo a parlare dei temi imposti da un circo mediatico sempre più frivolo invece di alimentare di pensiero complesso lo sforzo di dare nuova forza e nuova identità a parole grandi come destra, centro, sinistra.
La democrazia ha bisogno di politica. La politica, in parlamento è rappresentata dai partiti. Fuori, nel Paese, da un reticolo di soggetti: sindacati, associazioni, movimenti che la retorica sulla disintermediazione, il totem illusorio del «uno vale uno», con tutto il suo apparato di semplificazione e radicalizzazione apparente, ha ridotto tutti in uno spazio angusto.
C’è da essere preoccupati per le sorti della democrazia. Ma non tanto per le minacce evocate da forze che sarebbe meglio venissero combattute per le loro idee di oggi piuttosto che per quelle del passato.
La vera preoccupazione è il logorarsi progressivo della partecipazione, l’astrazione dei partiti e delle loro logiche dalla vita reale, anche l’esaurimento delle novità da sperimentare.
Il Conte Ugolino senza teste da mangiare. Ormai diverse interpretazioni del canto XXXIII della Divina Commedia affermano che il Conte non fu cannibale, ma morì di inedia.
Ecco, il vero rischio della democrazia è questo. Incapace di decidere, paralizzata da divisioni personali e non politiche, deprivata della bellezza delle differenze valoriali e ideali, la principale conquista del novecento può sembrare un guscio vuoto, uno spreco inutile di risorse.
Può apparire preferibile, specie in tempi di crisi sistemiche, il modello dell’uomo solo al potere, in fondo quello incarnato dai nuovi potenti del mondo, i capi delle grandi aziende multinazionali. Ma loro devono fare solo profitti, o perlomeno pensano sia esclusivamente questo il loro scopo.
Quel modello, seducente e rassicurante, alla fine però mostra la corda. Lo dimostrano le difficoltà di Musk o, sul piano politico, la situazione in Russia e in Cina.
La democrazia ha come missione ultima quella di curare il bene della collettività. Per questo ha bisogno di decisione e di passione, di concretezza e di sogno.
Oggi la libertà soffre di solitudine. È una condizione dolorosa non solo per le ragazze iraniane mandate a morte o per le famiglie ucraine senza luce e cibo.
Ma lo è per tutti noi. Che rischiamo di essere attanagliati da una diversa, ma non minore, sensazione di solitudine, «l’insufficienza emotiva».
La solitudine del senso più profondo della nostra esperienza di vita.

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