11 febbraio 2024: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Is 54,5-10; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
Pensando e riflettendo sul terzo brano di oggi, che riporta la famosa pagina in cui Luca ci dà una presentazione quasi caricaturale del fariseo e del pubblicano che nel tempio pregano in modo diverso, siamo quasi costretti a parlare della virtù dell’umiltà. Di per sé il fariseo è il modello dell’uomo borioso, mentre il pubblicano è il modello dell’uomo precario.
Diciamo che non solo per il credente che si mette di fronte al suo Creatore in tutta la sua nudità di creatura bisognosa, ma per ogni essere umano l’umiltà è una virtù fondamentale. Già il tempo che passa e la morte dovrebbero far riflettere tutti, credenti o non credenti, sulla finitudine della esistenza umana. Sì, il tempo passa per tutti, e la morte rende ridicolo, denudandolo, ogni delirio di onnipotenza. Nessun ego può reggere al tempo che passa, e la morte lo riduce in polvere. Imperi che sembravano invincibili sono crollati miseramente, e oggi vediamo i loro ruderi. Solo il genio è perenne, non muore, è di un’altra pasta, non carnale. Seppellitelo pure, ma prima o poi il genio, del tutto spirituale, riemergerà sulla pochezza di chi si crede dio in terra, tra l’altro ignorante, senza cervello.
In latino uomo si dice “homo”, che deriva da “humus”, terra, da qui la parola “humilitas, umiltà. Già la sequenza di queste tre parole latine, tra loro connesse (homo con humus e humus con humilitas), ci fa comprendere che la virtù più tipica dell’uomo dovrebbe essere l’umiltà, perché è la più conforme al suo essere fatto di terra.
Siamo fatti di polvere (la Bibbia ce lo dice, sì con un racconto mitico, ma in ogni mito è presente una verità divina), e in polvere torneremo, in quanto corpo e psiche, su cui si regge l’ego come delirio d’onnipotenza. Lo spirito è eterno, ed è qui, in quanto spirito, che siamo divini, in quella essenzialità che è radicale distacco da ogni orgoglio umano.
Il rito penitenziale dell’inizio quaresima comprende il gesto dell’imposizione delle ceneri sulla testa dei fedeli, accompagnato con le parole: “Ricòrdati che sei polvere, e in polvere tornerai”. Anni fa, il sacerdote le diceva in latino, facendo uno strano ma efficace effetto anche su noi ragazzi: “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”. Oggi si preferisce sostituirle con queste altre parole più evangeliche: “Convertitevi e credete al vangelo”. Ma per convertirsi occorre partire dall’umiltà, che è rientrare in sé, e scoprire chi siamo realmente.
In greco si trovano diversi termini a indicare l’umiltà o l’abbassamento, tra cui uno che merita la nostra attenzione: ταπείνωσις (tapèinosis), da cui ταπεινός (tapeinòs), da cui è derivato il termine dispregiativo italiano di tapino, cioè una persona meschina, piccola, infima, umile non per sua libera scelta, ma perché costrettavi dalle vicende della vita o dalle sue condizioni di povertà e di ignoranza. Questo era anche il significato originario che i Greci davano alla parola “tapeinós” con la quale indicavano gli schiavi e gli strati più bassi della società.
Anche nella Bibbia troviamo il termine greco ταπεινός, però non con senso dispregiativo. Non ho il tempo per elencarvi diversi passi, soprattutto presenti nei Salmi, in cui si parla di Dio che ascolta i poveri e gli umili, mentre disprezza i superbi, ovvero chi ha il cuore altezzoso: almeno una citazione la vorrei fare, ed è di un versetto del libro dei Proverbi, dove c’è scritto che «il Signore, dei beffardi si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza». Queste parole hanno lasciato un segno nel tempo, tanto che gli apostoli Giacomo e Pietro le riprenderanno nelle loro lettere.
Ed è proprio nel Nuovo Testamento che il termine ταπείνωσις assume un significato più ampio e più pregno di valori. Non possiamo non partire da Cristo, nel suo abbassamento radicale fino a farsi carne umana, morendo su una croce.
Qui chiariamo. Per i Greci e per i Latini, anche per noi che siamo costituiti per lo più da questa eredità, l’umiltà non era una buona notizia, né come condizione né come valore. L’uomo sembra fatto per innalzarsi (sia pure senza cedere alla ὕβϱις, hýbris, “tracotanza”, che vorrebbe il superamento di qualsiasi limite) e l’abbassamento desta nell’uomo anche moderno orrore e ripulsa.
Davanti all’umiliazione, all’abbassamento di Gesù (la croce), l’apostolo Paolo registra il giudizio dei “greci” e degli “ebrei”: per i greci la croce è stoltezza, per gli ebrei è debolezza. Confrontati con la croce sia “pagani” che “credenti” si trovano insieme nel loro rifiuto: chi cerca la grandezza della sapienza oppure della forza, anche se in un primo momento viene affascinato dal Maestro di Nazaret, non può che restare deluso (scandalizzato) dalla piccolezza/umiliazione che costituisce l’esito della sua vicenda.
Ma per chi “crede”, dice Paolo, la croce di Gesù è sapienza e forza! Ecco la sfida: riuscire a vedere lì, nella stoltezza e nella debolezza, la vera sapienza e la vera forza di quel Figlio di Dio che si è incarnato sì, ma sulla croce, mentre moriva, donava il suo Spirito.
Non dimentichiamo che lo stesso Cristo in diverse occasioni ha richiamato la virtù dell’umiltà, anzitutto presentando se stesso come una persona umile e rimproverando gli stessi discepoli quando volevano primeggiare l’uno sull’altro o sognavano nel nuovo regno un posto del tutto privilegiato.
Ma non possiamo dimenticare il Magnificat, che troviamo nel Vangelo di Luca (1,46-55), con cui la madre di Gesù ringrazia la misericordia di Dio per aver “guardato” la ταπείνωσις, l’umiltà, della sua serva, tenendo anche presenti quelle dure parole contro i tracotanti: saranno rovesciati dai troni, e al loro posto saranno innalzato gli umili.
Se devo dire una parola sulla parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio, è per chiarire che non era intenzione di Cristo contrapporre tra loro due atteggiamenti diversi per categorie sociali o religiose. È sempre stato presente, e lo è tuttora, il vizio manicheo che separa da una parte il bene e dall’altra il male, dimenticando che siamo impastati di bene e di male: in ognuno di noi c’è una tensione innata al Bene, da cui proveniamo, e nello stesso tempo siamo portati a fare il male, e qui san Paolo è stato chiarissimo, quando nella Lettera ai Romani (7,18-23) confessa: «Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra».
In ognuno di noi, dunque, c’è anche una parte di quel fariseismo che però vediamo sempre negli altri, e la cosa allucinante e provocatoria della parabola è che Gesù l’ha ambientata nel tempio, nel luogo sacro, quasi a dire che i credenti dovrebbero essere i primi a vigilare: l’ego talora si riveste di privilegi che dividono, separano, condannano in nome di un dio fantoccio.
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