“Il viaggio di Vittorio”, libro-biografia di Egidia Beretta Arrigoni

di don Giorgio De Capitani

Egidia Beretta Arrigoni ha scritto un libro-biografia sul figlio, dal titolo “Il viaggio di Vittorio”, stampato presso la Casa editrice Dalai e uscito nelle librerie il mese di ottobre del 2012. Ve ne consiglio vivamente la lettura, soprattutto in occasione del secondo anniversario della sua tragica morte, avvenuta il 15 aprile del 2011. Acquistandolo, potrete sostenere anche la Fondazione “Vittorio Arrigoni – Vik Utopia”.

Non intendo ora farvi un riassunto, ma evidenziare qualche tratto caratteristico della figura di Vittorio, al di là dei fatti o delle avventure rischiose che ha dovuto affrontare nelle sue varie esperienze umanitarie. Ho detto “varie”, sì perché Vittorio non è stato solo il pacifista di Gaza. Ha girato mezzo mondo, prima di approdare tra i palestinesi. È stato in Sud America (Perù), in Africa (Togo, Tanzania e Ghana) e ha girato mezza Europa (Belgio vallone, Austria, Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Russia, Estonia, Ucraina). Tra l’aprile del 1997 e il luglio del 2001, compì dodici viaggi tra l’Europa e l’Africa. Superfluo dire che non si trattava di viaggi di piacere.

Il titolo del libro è già indicativo, parla del viaggio di Vittorio: viaggio dunque al singolare. I vari viaggi non si comprendono fuori dal contesto di ciò che possiamo definire a ragione il grande e unico viaggio, come cammino al centro, nel cuore dell’Umanità, «un viaggio che, come scrive lo stesso Vittorio ad un’amica, più che intorno al globo si può identificare come all’interno dell’uomo». 

La vita di Vittorio non è stata una variegata avventura alla ricerca di sensazioni o di emozioni o di esperienze personali e neppure di un mondo di volontariato dove esprimersi al meglio, ma sempre in modo settoriale. No. La sua ansia era l’Umanità. Ne fanno fede quelle parole che compaiono in fondo ai suoi articoli: “Restiamo Umani”. Certo, non si trattava di un ideale campato per aria. La sua era una Umanità da incarnare nell’impegno sociale, pur nell’Utopia di chi non si ferma all’immediato, all’emergenza, ma guarda oltre, verso una maggiore umanizzazione di questa società in balìa di forze cieche e di violenze incontrollabili, ma governate dai poteri più forti.  

Nella lettera scritta all’amica, che porta la data del 30 maggio 2004 e che ritengo assai illuminante, Vittorio scrive: «Ho sempre pensato che oltre a lasciare un segno nelle anime delle persone, segno possibilmente indelebile, segno di umana passione, compassione, condivisione delle pene e infinita empatia, è necessario anche imprimere una traccia più fisica, visibile e che rimanga nel tempo, come la pietra angolare di un ospedale, le fondamenta di un orfanotrofio per i bimbi tristemente rinnegati dal mondo. Il motore che mi ha spinto verso luoghi via via meno ospitali, a offrire la mia mano e la mia anima al servizio di opere benefiche, non è filantropia, né tantomeno il tanto vantato orgoglio di esibirsi come generosi, ma la mia nuda umiltà ordina di definirlo egoismo. Perché queste esperienze mi donano la pura essenza del vivere…».

Le esperienze accumulate in diversi anni di volontariato nelle zone più disparate del mondo e in situazioni di gravi difficoltà ed emergenze, «mettendosi semplicemente al servizio degli altri», hanno costituito per Vittorio, scrive la madre, «un lungo cammino di preparazione, un cammino che l’ha condotto fino in Palestina, all’interposizione pacifica, alla difesa disarmata degli altri. Lì è venuta fuori tutta la sua umanità. Quell’esperienza ha reso Vittorio più maturo, più riflessivo, meno irruente, ma senza fargli smarrire la sua passionalità». «Nei precedenti viaggi aveva incontrato soprattutto la povertà materiale o morale, in Palestina incontrò l’aspirazione alla libertà».

A proposito di “pacifista”, la madre scrive: “Vittorio non ha mai sostenuto di essere il classico pacifista, ed è riduttivo descriverlo semplicemente così, anche perché le etichette a casa nostra non sono mai piaciute. Non era certo per stare sotto qualche bandiera che ci impegnavamo nelle nostre piccole e grandi battaglie… Anche a me è capitato di parlare di mio figlio definendolo tale, ma nel senso ampio di colui che cerca la pace attraverso la ricerca della giustizia».

E a proposito della finalità umanitaria, nella lettera che ha scritto all’amica, Vittorio tra l’altro scrive: «Il fine umanitario è essenziale, non si può minimamente pensare, per esempio, di visitare l’Africa senza sporcarsi le mani di tutta la sua mortifera miseria, senza sentirsi bruciare arso dalla sete di giustizia, bucato lo stomaco dai morsi della fame. Bisogna allora lasciare tracce del proprio passaggio nei cuori, innanzitutto dei poveri incontrati e delle vittime di un’ingiusta guerra, mostrando loro come esiste un occidente alternativo, che si sa spogliare dei propri dettami culturali di superbia e arroganza, che sa porsi come accogliente ed empatico, lontano da ogni circuito di sfruttamento e via dalla macchina della guerra che succhia ogni riserva di soldi e di vite umane. Che porga le mani e non le ritragga sottraendo, ma che anzi sia in grado di porgere doni, che si mescoli nell’anonimato per generare alleanza, sotto nessuna bandiera che non sia emblema di pace, solidarietà, convinta amicizia. Il motivo umano è quello». 

In un articolo apparso sul sito Guerrilla Radio, del 3 settembre 2008, Vittorio scrive: “La vera storia siamo noi, la storia non la fanno i governanti codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti. La storia la fanno le persone semplici, gente comune… Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione per tutte le persone comuni a non delegare la vita al burattinaio di turno, a prendersi di petto la responsabilità di una rivoluzione, rivoluzione interiore innanzitutto, verso l’amore, l’empatia, che di riflesso cambierà il mondo».

La madre scrive che «Vittorio scelse di praticare l’interposizione non violenta. La scelta di mettersi tra due belligeranti, sia che si tratti di due persone, di un carro armato e di alcuni bambini, di manifestanti e di poliziotti pronti a spararti con dei proiettili di gomma. Frapporsi, mettersi in mezzo. Mio figlio sosteneva che si trattava proprio di ciò che nella Striscia di Gaza avrebbe dovuto fare l’ONU. Per lui fu un concetto guida».

Sono davvero drammatiche le pagine del libro che descrivono l’operazione “Piombo fuso”. Durò 22 giorni dal 28 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, con una tregua di alcuni giorni. Bilancio: dalla parte palestinese 1203 morti di cui 410 bambini, feriti 5300; dalla parte israeliana, morti 13, di cui 3 civili e quasi 300 feriti.

Scrive la madre di Vittorio: «È sbagliato considerare “Piombo fuso” una guerra, il suo vero nome è “strage”», una «carneficina di civili, soprattutto bambini». «Le notizie sui nostri mezzi di informazione erano scarne, il potente bavaglio israeliano funzionava bene. Si iniziò a capire quanto fosse preziosa la presenza di Vittorio e il suo impegno come reporter. I suoi pezzi pubblicati dal “manifesto” e poi su Guerrilla Radio divennero il punto di riferimento per tutti coloro che non si accontentavano delle verità ufficiali propinate dalla grande stampa o dai pochi servizi in tv realizzati da Gerusalemme da inviati filo israeliani».

In un articolo apparso su Guerrilla Radio l’8 gennaio 2009, Vittorio descrive la strage attraverso un’immagine impressionante usata da un chirurgo. «”Prendi dei gattini, dei teneri gattini e mettili dentro una scatola”, mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartoni, coperti di chiazze di sangue. “Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato”. Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua: “Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste… “. Jamal continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. “Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l’ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quali sono state le reazioni del mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo più tutelati”. A questo punto il dottore si china verso una scatola e me le scoperchia davanti. Dentro ci sono gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime”.

Di fronte a simili stragi, in un articolo del 17 gennaio 2009, Vittorio scrive: «Vi confido che il mio “restiamo umani” ha vacillato spesso in questi ultimi giorni, ma resiste. Resiste come l’orgoglio, l’attaccamento alla terra natia intesa come identità e diritto all’autodeterminazione della popolazione di Gaza…».

Vorrei infine aggiungere il suo amore per l’ulivo, “emblema della Palestina e simbolo della pace. Scrive la madre: “Vittorio parlava di questo albero con sacralità, sapeva quanto fosse vitale per i palestinesi e raccontava come gli israeliani non esitassero ad abbattere anche ulivi centenari durante i lavori per la costruzione del muro… Quando l’esercito si muoveva con i carri armati e i caterpillar, non aveva rispetto di nulla: degli uomini, degli animali e della natura».

Lascio a voi la lettura degli eventi e delle emozioni che ha suscitato in tutto il mondo la tragica fine di Vittorio. A conclusione, vorrei porre solo una richiesta. Da anni è stata istituita la Giornata della memoria a ricordare la Shoah. Perché non istituire un’altra giornata, quella della memoria delle stragi israeliane nei riguardi dei palestinesi?

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1 Commento

  1. GIANNI ha detto:

    Il viaggio di Vik, una serie di esperienze legate da un filo rosso conduttore, quello della riscoperta dei diritti umani e dell’umanità.
    Ma la funzione svolta da persone come Vik è importante anche al di là di tali aspetti, come recupero di testimonianza storica di fatti, sui quali spesso abbiamo poche e dominanti interpretazioni storiografiche.

    Anche la storia che ci viene insegnata a scuola, come ricostruzione di fatti, è spesso solo un’interpretazione, che dovrebbe essere più o meno corretta, ma che spesso invece non lo è.
    E spesso, sopratutto in materia di diritti umani violati, non è neppure necessario andare troppo lontano.
    Basta rimanere in Italia.
    Molti libri di storia parlano della repubblica italiana come stato di diritto, ma se poi consideriamo le violazioni di diritti umani, che vanno dai processi ai comportamenti delle forze dell’ordine, ad altri fatti ancora, allora ci rendiamo conto che spesso quello che troviamo sui libri di storia è solo una ricostruzione retorica e patriottarda.
    Del resto, basta pensare ai molti crimini, anche di guerra, che sono stati compiuti durante il Risorgimento, e di cui spesso non esiste traccia alcuna nella maggior parte delle ricostruzioni storiografiche ufficiali.

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