“Adolescence”: a lato di una serie TV

da www.settimananews.it

“Adolescence”:

a lato di una serie TV

10 aprile 2025
di: Gian Paolo Bortone
Negli ultimi anni la serialità televisiva ha acquisito un ruolo sempre più centrale nell’immaginario collettivo ed è diventata oggetto di studi, discussioni e convegni. Questa centralità nasce dalla convergenza di due fattori: da un lato, la ridefinizione delle modalità di fruizione grazie all’innovazione tecnologica e all’aumento delle piattaforme; dall’altro, la capacità delle Serie TV di raccontare le trasformazioni che attraversano la società contemporanea, anche grazie a fenomeni narrativi interessanti come il camouflage (ovvero la proposta di riflessioni complesse utilizzando generi narrativi popolari come la fantascienza, il genere horror ecc…).
L’abbondanza di contenuti, tuttavia, oltre a generare un sovraccarico cognitivo, ha reso difficile l’emergere di racconti universalmente condivisi, in grado di diventare veri e propri eventi culturali. La visione non è più scandita dalla messa in onda tradizionale, ma segue ritmi personalizzati imposti dallo streaming, il che ostacola la creazione di momenti di discussione collettiva, complicati ulteriormente dal rischio di spoiler e dalla conseguente perdita di interesse. Solo alcune serie riescono a superare questa frammentazione, instaurando legami affettivi con il pubblico e alimentando pratiche «postspettatoriali» di condivisione e analisi (interpretazioni, critiche, meme, ecc.).
A questa regola non sembra sottrarsi nemmeno Adolescence, miniserie britannica approdata su Netflix nel marzo 2025, che ha immediatamente suscitato un acceso dibattito per l’intensità del suo contenuto (il femminicidio della giovane Katie Leonard per mano di un coetaneo, Jamie Miller) e per la rappresentazione spietata, quasi documentaria, dell’adolescenza e delle sue fragilità.
Tuttavia, questi dibattiti paiono essersi sviluppati soprattutto all’interno di una nicchia di pubblico adulto (con la proposta di proporne la visione all’interno delle scuole), forse anche a causa di scelte stilistiche radicali: l’uso insistito, quasi ossessivo, dei piani sequenza, che sospendono la narrazione in un tempo denso e ininterrotto, obbligando lo spettatore a un’esperienza immersiva, una sorta di apnea percettiva, distante anni luce dai ritmi frammentati e incalzanti della serialità mainstream. Mi permetto alcune considerazioni a partire dalla sua visione.
Il linguaggio: il cantiere e i muri
Un paio di settimane fa ho mostrato ai miei studenti la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio. Alla fine, ho chiesto loro di descrivere ciò che avevano visto. Una ragazza ha provato a dire qualcosa, ma a bassa voce. Quando le ho chiesto di alzarla un po’, alcune sue amiche hanno commentato che non poteva farlo perché era «acciento». Curioso, ho indagato: pare che su TikTok circoli un trend in cui le persone vengono classificate come «acciento» o «caribe», in base all’inflessione dialettale e, per estensione, a presunte caratteristiche della personalità.
Tuttavia, ricostruire il significato preciso è stato faticoso e persino frustrante: anche tra chi usava questi termini regnavano confusione e incertezza su cosa indicassero esattamente e su chi vi rientrasse. Il dibattito che ne è scaturito ha prodotto un effetto interessante: la parte della classe, composta soprattutto da ragazzi, che non conosceva affatto quel linguaggio, ha iniziato a manifestare insofferenza, percependolo come qualcosa di fumoso, difficile da afferrare e, soprattutto, divertente solo per pochi.
Adolescence riesce a restituire perfettamente questo senso di straniamento, sbattendoci in faccia un universo lessicale che si autoalimenta e si sottrae nel momento stesso in cui si mostra. Jamie e i suoi coetanei parlano una lingua che sembra concepita più per escludere che per comunicare, e che muta con la stessa rapidità con cui cambia l’umore di un adolescente. «Incel», «redpill», «manosfera», «legge dell’80/20», insieme all’uso criptico delle emoticon: Adolescence ci catapulta dentro un lessico polarizzato, innescato da un risentimento di genere che, complice la viralità dei social, è uscito dai confini di piccole nicchie per diffondersi, senza diventare universale, e segnare differenze. Non a caso, l’ispettore che conduce le indagini fraintende completamente il significato delle emoticon lasciate da Katie, la ragazza uccisa, sul profilo Instagram di Jamie.
Il linguaggio nasce come strumento per ridurre le distanze (fisiche, psicologiche, sociali) tra gli individui, ma da sempre ha svolto anche la funzione di marcare le differenze: geografia, storia e contesto sociale hanno generato idiomi che riflettono distinzioni di classe, identità, cultura, appartenenza e generazione. Ad esempio, nell’esperienza scolastica europea, lo studio del latino serviva a riconoscersi come classe dirigente capace di parlare una lingua che immediatamente marcasse la differenza rispetto alle classi inferiori con le quali si condivideva la «naturale» lingua della quotidianità.
Anche le parole di Gesù sono state oggetto di simili analisi: già a partire da Julicher, si è ipotizzato che le parabole, originariamente pensate come strumento popolare e inclusivo, abbiano poi assunto nella tradizione evangelica una funzione escludente, volta a distinguere i discepoli dai suoi oppositori. Allo stesso modo, anche il linguaggio giovanile è stato identificato come un cantiere aperto, in bilico tra desiderio di autonomia e ribellione, una «meteora velocissima» composta di espressioni che brillano e cadono in disuso nel giro di pochissimi anni.
Il vero nodo critico sollevato da Adolescence non risiede tanto nell’inevitabile distanza generazionale né nell’evoluzione del linguaggio in sé, quanto piuttosto nelle nuove forme espressive che, chiuse su sé stesse e spesso autoreferenziali, finiscono per erigere barriere invalicabili. Questo processo ostacola il dialogo, generando un’incomunicabilità che non si limita allo scarto tra le età, ma contribuisce a polarizzare il tessuto sociale, cristallizzando le differenze in corpi contrapposti, incapaci di riconoscersi reciprocamente.
La scuola come luogo di contenimento
L’episodio ambientato nella scuola è tra i più emblematici: Adolescence mette in scena il fallimento profondo della missione educativa dell’istituzione scolastica. Un fallimento che assume i tratti di una resa incondizionata. «Sembra un luogo di contenimento», osserva il poliziotto incaricato delle indagini, attraversando le aule e i cortili frequentati sia dalla vittima che dal colpevole. «Come si fa a imparare qualcosa qua dentro, con questa puzza?» si chiede, ricevendo dalla collega una risposta lapidaria: «Le scuole puzzano».
Un breve scambio che restituisce un’immagine di una scuola in decomposizione morale. La scuola è descritta come un luogo di alienazione, dove la presenza degli adulti è flebile, intermittente, talvolta puramente repressiva: il professore assenteista viene coperto dagli studenti; gli interventi educativi si attivano solo in risposta a episodi problematici (un litigio, una mancanza di rispetto) senza una reale capacità di prevenzione o accompagnamento.
In questo vuoto, gli studenti costruiscono una forma di autarchia radicale, che si riflette nei comportamenti quotidiani. In una scena emblematica, una studentessa interrogata dalla polizia non solo rifiuta di rispondere, ma ribalta i ruoli, trasformando il colloquio in un controinterrogatorio: chiede al poliziotto di spiegare le stranezze del proprio figlio, anch’egli alunno di quella scuola. È il segno di un meccanismo inceppato, che fatica a tenere il passo con le trasformazioni antropologiche e tecnologiche in atto e dove persino un evento estremo come un omicidio finisce per essere trattato come l’ennesima pratica burocratica da archiviare perché tanto «non è avvenuto all’interno della scuola».
Si configura così un paradosso inquietante: mentre emergono questioni sempre più urgenti, che interrogano profondamente la società sul tipo di strumenti da mettere in campo, l’istituzione scolastica procede quasi tetragona, impermeabile alle sollecitazioni del reale, scalfita solo in modo marginale, se non con fastidio, dagli eventi. Una rappresentazione ben lontana dagli obiettivi di un’istruzione di qualità, che l’Unione Europea, il Ministero e le singole scuole si propongono di perseguire: dall’Orientamento formativo, inteso non solo come scelta dell’indirizzo ma come percorso di consapevolezza, scoperta delle proprie inclinazioni e ricerca di realizzazione personale, all’insegnamento dell’Educazione civica, con la sua vocazione alla cittadinanza attiva, alla cultura democratica, all’educazione all’affettività e al rispetto reciproco. La distanza tra gli obiettivi dichiarati e la fatica della realtà appare, in questo contesto, non solo evidente, ma strutturale.
Genitori in crisi
Nella serie, la figura paterna viene messa profondamente in crisi, e questa crisi si condensa attorno a una parola che ritorna con insistenza quasi ossessiva: «imbarazzo». È continuamente in imbarazzo Eddie, il padre di Jamie; Adam, il figlio del poliziotto, va a parlare con il padre perché la sua mancanza di comprensione delle dinamiche è imbarazzante. L’imbarazzo è la cifra delle relazioni conflittuali, irrisolte, spesso interrotte tra padri e figli.
Gli uomini sembrano spaesati, incapaci di prendere decisioni: all’inizio della prima puntata il poliziotto non risponde a un messaggio del figlio perché preferisce lasciar decidere alla moglie; Eddie, nominato tutore del figlio, non sa come comportarsi. La ridefinizione dei ruoli sociali, a partire da quello genitoriale, ha riguardato in primo luogo la «mascolinità», sollevando interrogativi, resistenze, sarcasmi, rifiuti espliciti.
Nel terzo episodio, incentrato sul colloquio tra Jamie e Briony, la psicologa di parte incaricata di tracciarne un profilo psicologico, Jamie cerca di contestare, sottrarsi, eludere tutte le domande sul padre e sul loro rapporto, tentando di rifugiarsi in rassicuranti cliché di buon senso: «mio padre è un brav’uomo, non mi ha mai picchiato, non ha mai alzato le mani su mia madre». Nella quarta puntata verrà smascherato il non detto che si cela dietro quel cliché: il padre di Jamie è sì un brav’uomo, ma fatica a controllare la rabbia, impone la propria agenda familiare, è sereno solo quando moglie e figlia assecondano le sue volontà.
In quella superficie apparentemente ordinaria si apre una crepa, e da lì affiorano i tratti di una maschilità ancora ancorata a modelli di forza, invulnerabilità e paternalismo. Proprio quella idea di maschio, di dominio, di controllo che Jamie aveva provato a imporre con il proprio atteggiamento di sfida, mettendosi in piedi di fronte alla psicologa in una posizione dominante, urlando, gettando gli oggetti, irridendo la psicologa perché ha paura di un bambino…
Ma nelle crepe della cosiddetta normalità emergono anche le cicatrici: Jamie racconta che ogni volta che giocava a calcio, il padre andava a fare il tifo per lui, ma ogni volta che faceva un errore, il padre distoglieva lo sguardo, incapace di sostenere quegli errori e dissimulare la propria delusione.
Le dinamiche quotidiane di una famiglia normale, in cui non ci sono episodi di violenza, in cui i figli sembrano essere cresciuti con attenzione, costituiscono l’elemento più inquietante della storia perché interroga radicalmente lo spettatore: di fronte all’inspiegabilità delle azioni del figlio, i genitori si chiedono quasi inermi dove hanno sbagliato. «Avremmo potuto fare di più», dice la madre di Jamie nell’ultima puntata. «Non è colpa nostra» le risponde il padre. Lo stesso che si era chiesto: «Come abbiamo fatto a crescere una figlia perfetta come Lisa?», ricevendo in risposta dalla moglie: «Allo stesso modo in cui abbiamo avuto un figlio come Jamie».
Adolescence mette in luce una verità scomoda: la famiglia è lasciata tremendamente sola. E non riesce a individuare con chiarezza l’origine del malessere: quei figli che fino a poco tempo prima erano bambini felici e solari si scoprono essere perfetti sconosciuti. Ed è una dinamica che tocca tutte le famiglie che, per esempio, vengono chiamate a scuola e non credono che il proprio figlio possa aver fatto qualcosa, perché loro lo conoscono e non ne sarebbe capace. C’è un mistero che cresce dentro casa, in una bolla di incomunicabilità ordinaria fatta di camerette chiuse, cellulari, gruppi social…
Adolescence ci interroga su che cosa significa essere uomini, essere genitori, essere educatori in un’epoca in cui i riferimenti si sgretolano e le figure genitoriali faticano a ridefinire sé stesse. Giovanni Paolo II ha utilizzato una frase durissima a tal proposito: sta crescendo una generazione di «orfani di genitori ancora vivi»; schiacciati tra la tentazione di soddisfare ogni desiderio dei figli e la rigidità dell’autorità tradizionale, padri e madri (ma soprattutto padri) oscillano, si ritraggono, si dissolvono. E ciò che rimane, troppo spesso, non è libertà, ma un deserto affettivo e relazionale.
La scomparsa della Chiesa. Una profezia
Uno degli aspetti più significativi di Adolescence è la rappresentazione della crisi della fede. In linea con una delle tendenze della serialità contemporanea, si assiste a una progressiva evaporazione del religioso, non soltanto nella sua dimensione istituzionale e riconoscibile, ma anche nel suo valore come risposta alle domande di senso. I giovani protagonisti, infatti, si trovano spesso a confrontarsi con un vuoto esistenziale che né la famiglia né la società sembrano in grado di colmare. La religione, un tempo riferimento imprescindibile per la costruzione dell’identità individuale e collettiva, appare oggi materialmente e simbolicamente assente.
La famiglia rappresenta uno dei temi tradizionalmente forti della pastorale ecclesiale. Tuttavia, si ha spesso l’impressione che l’attenzione ad essa riservata sia filtrata da una visione ideologica, lontana dalle complessità reali della vita quotidiana. In molte parrocchie resistono ancora corsi di preparazione al matrimonio ormai stantii (o, come preferiscono dire alcuni vescovi più attenti al maquillage linguistico che alla sostanza, «percorsi»), mentre risultano marginali non solo l’impegno concreto verso le famiglie in difficoltà, ma anche un’autentica riflessione e ripensamento dei processi educativi. Questi ultimi appaiono spesso ingessati in modelli astratti, spiritualizzati, talvolta arroccati su questioni liturgico-sacramentali che, per quanto rilevanti, faticano a dialogare con le forme, i linguaggi e le inquietudini delle nuove generazioni. Generazioni che percepiscono la Chiesa e le sue espressioni locali come qualcosa di remoto, distante, forse ancor più della scuola o delle stesse figure genitoriali.
Questo segnala come non più rimandabile la presa di coscienza della Chiesa cattolica della propria complicità sistemica – talvolta ideologica – con una cultura intrisa di maschilismo. Sono trascorsi più di dieci anni dalla pubblicazione de La fuga delle quarantenni di Armando Matteo, ma le problematiche allora evidenziate non solo permangono, bensì si sono ulteriormente aggravate. A ciò si aggiunge l’assenza di una riflessione seria e, soprattutto, di una prassi concreta sul maschile, la cui espressione emerge purtroppo, e troppo spesso, solo nei suoi aspetti più degenerati: gli episodi di abusi fisici e psicologici che continuano a scuotere la comunità ecclesiale.
Un panino al formaggio e sottaceti
Uno dei padri dell’ermeneutica contemporanea, Roland Barthes, ha dedicato un breve ma denso saggio al cinema di Sergej Ejzenštejn, un innovatore nelle tecniche del montaggio e per la potenza espressiva di immagini con migliaia di figure, entrato anche nell’immaginario popolare grazie alla celebre battuta sulla corazzata Potëmkin pronunciata dal ragionier Fantozzi (a proposito: auguri!). Eppure, Barthes non si sofferma su questi aspetti tecnici o monumentali.
Nel saggio Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenštejn (in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985), propone una lettura spiazzante, individuando tre livelli di senso: il primo, informativo, riguarda la narrazione, il racconto degli eventi. Il secondo è quello simbolico, il significato, l’universo dei messaggi che il film trasmette, sovrapponendosi alla semplice comprensione della trama e interpellando le competenze interpretative dello spettatore. Eppure, per Barthes, anche questo secondo livello è ancora «ovvio»: si tratta di un senso costruito, orientato, frutto della strategia narrativa, che inchioda lo spettatore al ruolo di destinatario di una comunicazione.
Ma è nel terzo livello, quello del senso ottuso, che si apre una zona perturbante, poetica, aperta all’erranza. È il senso che non comunica ma disturba; non spiega ma interroga. Si manifesta nei dettagli apparentemente insignificanti: un’espressione del volto, un’acconciatura, un gesto fuori fuoco. È il significante senza significato, ciò che eccede il piano della narrazione e quello del simbolo, e proprio per questo apre alla possibilità di nuovi sensi.
Nel terzo episodio di Adolescence entra in scena un panino con formaggio e sottaceti. Prima di entrare nella stanza del colloquio, Briony aveva preso una cioccolata calda e ci aveva messo dentro dei marshmallow. «A lui piace così». Ma questa offerta gradita, questa attenzione, è accompagnata da un mezzo panino al formaggio e sottaceti. «Non c’erano i pomodori? L’insalata?». No, solo sottaceti. «Sa, i sottaceti non mi convincono». Questo piccolo scambio, all’apparenza banale, si carica di valenze interpretative. Quel panino, con i suoi sottaceti non graditi, diventa una metafora della dinamica psicologica messa in atto: accettare o rifiutare qualcosa di sgradito diventa una chiave per leggere il comportamento di Jamie, il suo rapporto con l’autorità, la sua capacità di obbedire o opporsi.
Quel panino costantemente in scena in questo lungo piano sequenza è, però, anche un dettaglio ottuso: disturba, resta sul margine, ma da quel margine irradia una tensione. È un’offerta amichevole ma sgradevole, una «polpetta avvelenata» che interroga anche lo spettatore. Come reagiamo di fronte a ciò che non ci piace, ma ci viene comunque offerto? Che cosa facciamo di fronte alla realtà non addomesticata?
In uno dei film più emblematici di Luis Buñuel, Il fascino discreto della borghesia, il pranzo intorno al quale ruota la vicenda viene continuamente interrotto e rimandato, generando frustrazione. Allo stesso modo, Adolescence è quel panino ai sottaceti offerto agli spettatori: una realtà disagevole, non edulcorata, che ci viene posta davanti senza filtri. La scelta a questo punto ricade so ogni spettatore: mangiarlo o lasciarlo, affrontare quella realtà oppure voltare lo sguardo da un’altra parte.
Pubblicato in due puntate sul blog Vino Nuovo, 7-8 aprile 2025

Commenti chiusi.