11 maggio 2025: QUARTA DI PASQUA
At 21,8b-14; Fil 1,8-14; Gv 15,9-17
Ho già detto nelle omelie precedenti, e lo ripeto: nel periodo pasquale, che va dalla Pasqua alla Pentecoste, la Liturgia ci offre da leggere, rileggere e meditare, un brano tolto dal libro “Atti degli Apostoli”, scritto dall’evangelista Luca, che tutti i cristiani dovrebbero conoscere. Chiedete a un prete se ha letto per intero questo libro? Eppure, si tratta della testimonianza di un cammino progressivo di fede nello Spirito del Risorto, da parte dei primi credenti, tra difficoltà e debolezze anche umane, su cui tutti dovremmo riflettere.
O per una moda passeggera o come disgustoso alibi, si sente parlare della necessità di un ritorno alle origini, ma quali origini se non le conosciamo, o solo per sentito dire?
Basterebbe soffermarsi sul brano di oggi, breve, ma denso di spunti di riflessioni. Non c’è tempo per metterlo nel giusto contesto, oltrepasserei il tempo canonico di una omelia festiva.
Tuttavia, almeno diciamo che l’apostolo Paolo, uno dei protagonisti del libro, sta tornando da uno dei suoi numerosi viaggi apostolici, esattamente il terzo. Viaggi che servivano a Paolo anche per rivisitare le comunità cristiane, fondate direttamente da lui o evangelizzate da altri apostoli. Sulle primitive comunità non c’era il monopolio di nessuno: l’unico era lo Spirito del Risorto a porre il proprio sigillo, l’unico che non condiziona la libertà interiore.
Ebbene, queste fresche genuine visite pastorali, con l’intento di confermare nella fede i primi cristiani già alle prese con un mondo estraneo e ostile (pensate al mondo giudaico e al mondo pagano), non avevano nulla di quanto poi succederà, quando, secoli e secoli dopo, le visite del vescovo assumeranno più un aspetto inquisitoriale che pastorale, che stride con la figura del buon pastore evangelico, che si preoccupa anzitutto del bene delle sue pecorelle, e delle loro guide, le quali avrebbero bisogno del volto paterno o materno del loro vescovo, riflesso del volto dello stesso Padre celeste.
I primi apostoli, testimoni diretti del Risorto, sentivano vivamente di aver generato nella fede queste comunità, e perciò era forte in loro il senso di una paternità, a cui interessava solo il bene anche materiale, ma soprattutto spirituale, dei credenti, difendendoli anche dai cattivi maestri.
Quando parlo di paternità o maternità – non stiamo qui a giocare sulle parole – sto male al pensiero di pastori che nulla fanno per essere padri o madri anche per i loro preti, talora abbandonati, lasciati ai margini, perché il pastore è stretto, soffocato, per non dire prigioniero di una struttura che tra l’altro non sta più in piedi, sta sfaldandosi – e sarebbe anche un bene se si iniziasse a dare più essenzialità a quel Bene che è l’Unico Necessario – lasciando però un vuoto, perché, sparita la struttura, ci si sente nudi, in una diocesi senz’anima.
Paolo, dunque, visitava le prime comunità cristiane, magari già fiorenti, ancor più bisognose di essere spinte per il meglio. Basta poco per farsi prendere da delusioni, o dall’abbracciare altre sètte, anche loro inganni per i più deboli.
Ma, nello stesso tempo, Paolo trovava anche delle belle sorprese, diciamo non previste, ma frutto dell’opera di quello Spirito che proteggeva il cammino nella fede delle prime comunità, seminando in alcune persone dei carismi umanamente inimmaginabili.
Carismi, o grazie, come chiarirà lo stesso Paolo, che, se provengono da Dio, sono a vantaggio del bene delle comunità, ma succederà che, lungo la millenaria storia della Chiesa, questi carismi, per nulla divini, diventeranno come dei flagelli che frantumeranno il bene comune della Chiesa in tanti gruppi e gruppuscoli fondamentalisti, o integralisti, o saranno come dei virus che inquineranno la mente, ovvero lo spirito, ovvero l’intelletto che per natura è luce, assoggettando anime e corpi dei più deboli ai voleri di guru, chiamati leader carismatici, in più con una benedizione particolare della Chiesa istituzionale.
D’altronde, diciamolo apertamente, il proliferare dei Movimenti ecclesiali, capitanati da leader indiscutibili, anche se ne combinano di tutti i colori, psichicamente poco stabili, con un ego tale da sottomettere ai loro piedi le anime più deboli, anche approfittando dei loro corpi, è dovuto a una carenza, a un vuoto (succede così anche nel campo politico) per il venir meno di associazioni tipo Azione Cattolica, e soprattutto di comunità cristiane da tempo alla deriva, anche per pastori che pensano solo agli aspetti più esteriori, credendo così di fermare le emorragie di credenti che se ne vanno a pascolare altrove.
Ed ecco la bella sorpresa: a Cesarea, dove Paolo soggiorna per alcuni giorni nella casa di Filippo, uno dei sette diaconi, ordinati dagli stessi Apostoli per servire la mensa dei poveri, trova le sue quattro figlie, nubili, che avevano il dono della profezia. Qui gli studiosi discutono, e discuteranno all’infinito per conoscere esattamente in che cosa con consisteva questa profezia: una sorte incipiente di ministeri, che però ben presto scompariranno, fatti abortire da una chiesa sempre più rigidamente maschilista?
Eppure, tutto era iniziato così bene, almeno per le donne, che si sentivano così stimate da far parte della stessa struttura ministeriale della chiesa. Sacerdotesse o non sacerdotesse, almeno potevano essere “diaconesse”. E non si tratta di supposizioni, visto che ci sono nomi di sacerdotesse famose: pensiamo al rapporto di profonda amicizia della sacerdotessa Olimpia con san Giovanni Crisostomo, vescovo e patriarca di Costantinopoli (siamo nel IV secolo). Ci sono rimaste numerose lettere che il Vescovo in esilio scriveva a Olimpia.
È stato istituito nelle diocesi, anche nella nostra, il diaconato permanente, ma solo per uomini anche sposati (non sto qui a contestare sulla loro ancora limitatezza nel campo ministeriale, senza prevedere che un domani ci sarà un vuoto di vocazioni sacerdotali, con l’inevitabile conseguenza che le parrocchie sempre più numerose resteranno senza preti), ma è proprio così impossibile permettere anche alle donne di far parte del diaconato permanente? Qualcuno sta dicendo: il nuovo papa aprirà le porte anche alle donne. Aspetta e spera! Scenderanno forse fulmini dal cielo, se si permettesse alle donne, non dico di accedere al sacerdozio (forse tra mille anni!), ma almeno al diaconato permanente? Se già nei primi secoli della Chiesa, c’erano le diaconesse, e non vado oltre, come mai si ha paura a tornare alle origini?
Pensate, sono passati quasi duemila anni, e siamo ancora qui a dover obbedire a un papa, quasi fosse un re o un imperatore, con tutti gli onori che stridono con quel “servus servorum dei”, di cui si vanta di essere, che apre e chiude le porte quando decide lui, fingendo di interpellare vescovi, preti e laici (si è visto nell’ultimo Sinodo italiano, un vero disastro).
So benissimo le reazioni dei cosiddetti fondamentalisti, amanti dell’antico cadaverico, ma chi crede nello Spirito santo dovrebbe sapere di avere una protezione di ferro. Paura di che allora, se lo Spirito in fondo difende Se stesso, in quanto Spirito che come un vento soffia dove vuole, parole di Gesù a Nicodemo, e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va. E tutto ciò che riusciamo a dire è: Speriamo nel nuovo papa! Che significa? Dipendiamo dal papa o dallo Spirito Santo?
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