Mario Delpini, una vacuità pastorale: è oramai irrecuperabile

Mario Delpini, una vacuità pastorale:

è oramai irrecuperabile

Vorrei parlare ancora di Mario Delpini, che, anche se non è ancora cardinale, è però vescovo o arcivescovo di una che è tra le più grandi diocesi del mondo, e che è la mia.
Delpini non è mai stato un tipo da andare sui giornali, anche perché non ha mai offerto, se non raramente, alcun buon motivo perché attirasse l’attenzione dei mass media.
Improvvisamente, all’ultimo giorno di agosto di quest’anno, ecco il colpo di scena: una sparata di ironie sulla mancata nomina a cardinale, in un contesto che richiedeva rispetto e gratitudine per la pur “strana” nomina a cardinale del vescovo di Como, Oscar Cantoni.
Già l’ho detto: il cardinalato è solo un titolo che oggi andrebbe tolto. Non aggiunge nulla alla pienezza di essere vescovo. Sulla “pienezza” avrei da dire, visto che sembra che a noi semplici preti manchi qualcosa. Che cosa?
La sparata a raffica di ironie, a dir il vero fuori posto, ha suscitato un certo stupore non gradito tra i preti milanesi, e una generale sarcastica critica da parte dei mass media anche nazionali.
Il buon senso che cosa poteva suggerire al buon e ingenuo Delpini, vistosi così bersagliato da critiche negative?
Che si scusasse seriamente, con poche righe, e magari dopo di essersi ritirato per qualche giorno in un Convento di clausura, per riflettere a lungo sul suo stato di salute.
Una volta lo si faceva, e si faceva anche qualche penitenza, proprio a partire dai capi gerarchici. Segno di umiltà, no?
No! Delpini è fatto così, anche se sembra del tutto composto: non conosce l’umiltà, ma trova sempre, come papa Francesco, qualche motivo per giustificarsi, cadendo così in quel grave difetto di peggiorare la situazione. L’errore che si giustifica è ancor più grave dell’errore precedente.
Così ha fatto papa Francesco giustificando la gaffe, per aver detto che era una “brava innocente ragazza” la figlia di Dugin saltata in aria per un attentato a Mosca.
Oggi tutto si vorrebbe giustificare, dimenticando che anche il papa, i vescovi, ecc. sono esseri umani che pssono sbagliare.
Un bel bagno di umiltà ci vorrebbe! O no?
E poi il papa e i vescovi dicono ai loro preti di essere umili e obbedienti… E loro?
Ebbene, anche il nostro buon ingenuo Delpini, trovatosi costretto a difendersi, ha fatto un intervento alla fine della Messa solenne per la celebrazione della festività in onore di Maria Bambina, a cui è dedicato il nostro Duomo, iniziando con un’altra barzelletta e poi tirando fuori una serie di chiarimenti per le sue battute ironiche (sarcastiche!) lanciate dalla Cattedrale di Como.
Come si dice: di male in peggio!
E il peggio sembra un fondo senza fondo di una Chiesa che nei suoi capi è sempre più imbecille e supponente.
Una Chiesa povera di beni spirituali!
Esteriorità, pura pelle, un agitarsi nel nulla.
Così sembra anche il vescovo o arcivescovo di Milano, il quale crede, per non essere cardinale, di essere più umile e modesto.
Appena càpita un’occasione, ecco l’ego che esce rivestito di ironie sgradevoli e irritanti.
Anche Gesù ha detto: sì sì no no, e lui stesso ha dato il buon esempio.
Certo, anche nel Vangelo di Giovanni, dicono gli studiosi, è presente una sottile ironia divina, ma l’ironia di Dio non è senz’altro quell’ego che si riveste di sarcasmi difensivi di quell’orgoglio che i Mistici medievali chiamavano “amor sui”.
Che dire di Delpini?
Sempre più non lo capisco in quel suo enigmatico modo di comportarsi, ma capisco bene una cosa: non sarebbe ora che si dimetta?
Che sia cardinale o no il vescovo di Milano, non ci interessa, senza tuttavia dimenticare che il cardinalato è legato alla diocesi e di conseguenza al tizio o caio o sempronio che è vescovo di quella diocesi, per cui il vescovo non può dire, come ha detto Delpini: «Io non desidero diventare cardinale, non mi sentirei proprio a mio agio. La Chiesa di Milano, però, non deve sentirsi diminuita nel suo prestigio e nella sua bellezza se il vescovo, o almeno questo vescovo, non è cardinale».
Cardinale o no, la gente ha bisogno di un “Buon pastore” nella linea evangelica, e non un pastore che come prezzemolo va bene per tutte le minestre.
I diocesani ambrosiani, a iniziare dai suoi preti, sentono il bisogno di avere un “Buon pastore” che conduca il gregge ad abbeverarsi all’acqua dissetante per la vita eterna.
Un pastore che curi la pelle della gente con le creme più miracolose a che servirebbe oggi, in questa società solo pelle, che perciò avrebbe bisogno di un rimedio del tutto interiore?
Noi ambrosiani non pretendiamo di riesumare Sant’Ambrogio e neppure Carlo Maria Martini: ogni vescovo, anche senza essere cardinale, ha il proprio stile comunicativo, ma secondo quella pastorale che nel passato lasciava segni fortemente evangelici, ma che oggi sembra disperdersi nella nebbia di una vacuità interiore spaventosa.

***
Solo una parola di commento a questa deludente intervista.
Di nuovo si vede il vuoto interiore di un vescovo, a cui piace saltellare spargendo ovunque qualche seme, che lui chiama di buon umore, con l’intento di sradicare quel virus di malumore che egli chiama “lamentazione” o clima di noiosa sopravvivenza.
Non è la prima volta che Mario Delpini parla di una società noiosa o di cristiani annoiati, e pensare che invece io mi annoio e mi deprimo ogni volta assisto alle celebrazioni sacre nella cattedrale milanese, oggi diventata tetra e funerea per le sue omelie deprimenti e stucchevoli.
Che Delpini con la sua irritante ironia vorrebbe tirar su il morale della gente, diciamo che questo è per lo meno una barzelletta che fa ridere solo i polli.
La verità è una: Delpini non vuole proprio capire, proprio per la sua supponenza che lo rende ridicolo, che per fare il Buon Pastore si richiede una fede cristallina e forte, che comporta di conseguenza quella autorevolezza che si impone da sola, perché legata a un vero credente nel Cristo risorto.
Oggi la Diocesi milanese è in balìa del nulla, che si copre di una pastorale carnale, indorata di irritante ironia.
***
dal Corriere della Sera

Delpini dopo le battute su Papa Francesco:

«Criticato per la mia ironia,

vogliono una Chiesa noiosa»

di Giampiero Rossi
L’arcivescovo di Milano torna sul siparietto nel Duomo di Como e denuncia il linguaggio della «lamentazione». Poi un appello alla politica: «Dal prossimo governo mi aspetto lungimiranza, fierezza, resistenza e gentilezza»
Il futuro come uno spaventoso «accumularsi di minacce». Il linguaggio appesantito dalla «lamentazione», mentre l’ironia sembra quasi «proibita». In mezzo a tutto ciò, tuttavia, continua a germogliare «l’impegno per il bene comune». Dal suo osservatorio milanese, l’arcivescovo Mario Delpini segnala che ci sono alcuni aspetti della nostra convivenza che «segnano tutta la società occidentale».
Eccellenza, due giorni fa ha inaugurato l’anno pastorale ambrosiano. Con quali auspici?
«La chiesa è una comunità che vuole seminare speranza nei giorni facili e in quelli difficili. Quindi il mio auspicio è che sappiamo conservare passione nella vita di tutti e che in questa vita continui a rivelarsi la gloria di Dio».
Lei è impegnato in un giro all’interno della diocesi più grande del mondo: che impressioni ne sta ricavando?
«Trovo molte conferme della mia convinzione che Milano sia una realtà meravigliosa, ricca di persone e opere di eccellenza: ovunque trovo tanta gente impegnata a rendere più abitabile la città, a rendere meno insopportabili i problemi. Però noto anche un’altra cosa: una volta qui si parlava il dialetto milanese, adesso la lingua più parlata mi sembra quella della lamentazione. Insomma, un’ eccellenza economica, culturale e sociale che finisce per parlare un linguaggio un po’ depresso».
Un altro effetto degli anni della pandemia?
«Non mi pare che già prima fosse abituale un’arte del “parlare per fare del bene”, che dovrebbe essere il criterio dell’agire umano in quanto tale. Da tempo ho l’impressione che si parli senza pensare se ciò che si dice fa del bene o no. Anche il dibattito politico, il linguaggio sportivo, la chiacchiera di strada ricadono spesso nella lamentazione e coprono di grigio anche lo splendore».
A proposito di linguaggio. Lei stesso, a distanza di una settimana, ha voluto chiarire pubblicamente il senso delle sue battute nel Duomo di Como, dopo tante ipotesi, critiche e illazioni.
«Da questa vicenda traggo l’idea che l’ironia sia quasi proibita, che in questo contesto mediatico bisogna essere seri, parlare il meno possibile e soprattutto annoiare. Perché se uno fa una battuta in pubblico si scatena tutto questo. Evidentemente i media si aspettano che la chiesa parli sempre in modo noioso. Dopodiché sono del tutto d’accordo col Papa, ne condivido le scelte e i criteri, e non vedo alcuno smacco se una città ha un vescovo che non è cardinale».
Ma lei continuerà a usare l’ironia?
«Farò come sono capace di fare, in fondo volevo solo fare gli auguri a un amico».
La sua proposta pastorale («Kyrie, Alleluia, Amen – Pregare per vivere, nella Chiesa come discepoli di Gesù») suona come un invito alla preghiera rivolto soltanto ai cattolici…
«Credo che il vescovo, cioè la chiesa, con la propria presenza debba cercare di interpretare i bisogni dell’umano e provare a dare una risposta cristiana. E questo tema della preghiera, in realtà, non si rivolge soltanto ai cattolici che frequentano la chiesa, perché colgo un bisogno di spiritualità molto più diffuso, sebbene in certi casi si caratterizzi per il suo egocentrismo: “Ho bisogno di spiritualità per stare bene con me stesso”. In ogni caso anche questa domanda di qualcosa di non solo materiale e relazionale ma anche spirituale significa qualcosa. È uno spazio al quale io come vescovo posso anzi devo rivolgermi. A quella persona dico: io ho una parola da offrirti su questo tuo bisogno di spiritualità».
Com’è cambiato il mondo in questi cinque anni del suo mandato di arcivescovo di Milano?
«La città e tutto il Paese hanno reagito con molta energia ai problemi che si sono presentati. Tuttavia la pandemia ha fatto emergere con maggiore criticità i problemi cronici: la solitudine, soprattutto degli anziani, l’emergenza educativa in alcuni quartieri. E in questi cinque anni mi sembra si sia confermata una domanda che non ha avuto risposta: c’è una terra promessa verso la quale vale la pena mettersi in cammino? Ecco, questa domanda di speranza viene quasi censurata come imbarazzante, e questo tratto segna Milano e tutta la civiltà occidentale che non guarda più al futuro come a una terra promessa ma come a un accumularsi di minacce».
Cosa si aspetta dalla politica dopo il 25 settembre?
«Mi aspetto alcune virtù: la lungimiranza, cioè non soltanto tamponare emergenze ma un percorso per il futuro del Paese e dell’Europa; la fierezza, cioè la consapevolezza che ce la possiamo fare, che siamo capaci di affrontare i problemi, quindi servono competenze ma anche un atteggiamento sano; la resistenza, perché l’impegno politico può essere logorante sotto il ricatto della popolarità e del malcontento. Aggiungerei anche la gentilezza: l’aggressività non è inevitabile».

 

 

1 Commento

  1. Simone ha detto:

    Nonostante la sua consueta iperattività io credo che questo episodio sia l’atto finale di Delpini arcivescovo di Milano.
    Ha 71 anni, tirerà a campare per i prossimi 4 per poi essere sostituito al compimento dei 75. Certo se la situazione precaria del pontefice non cambierà nei prossimi 4 anni.
    4 anni sono un tempo breve ma per il tracollo che sta vivendo la chiesa del post covid è un tempo sufficiente per ritrovarci profondamente ridimensionati.
    Non mi aspetto cambiamenti…continuerà a trottolare, a ripetere parole inascoltabili e inascoltate e a portare avanti la diocesi senza sussulti. Dobbiamo sperare in un buon passaggio tra 4 anni. Inutile spendere ulteriori parole sul soggetto: non migliorerà e non cambierà. Probabilmente peggiorerà, se possibile.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*