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09 SETTEMBRE 2024
Draghi, il momento dell’Europa
di Giorgio Barba Navaretti
In vent’anni la differenza tra PIL Usa e Pil Europeo è passata dal 15% al 30%. 72% di questo distacco è spiegato dalla perdita di produttività. L’Europa non innova abbastanza, ha una struttura industriale statica, le imprese innovative emigrano
Noi, l’Europa, loro, gli Stati Uniti e la Cina. E’ la trama geopolitica del rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Ossia, cosa dobbiamo fare per tornare ad innovare e crescere come gli Stati Uniti? E cosa per proteggerci dalla Cina e dal suo modello non leale di competitività “sponsorizzata” dallo Stato?
È un mondo molto diverso da quello che sarebbe stato descritto solo cinque anni fa, epoca pre-covid, per quanto anche in quel tempo crescita e capacità di innovazione latitassero in Europa. Allora le sfide delle due grandi transizioni, verde e digitale erano zoppicanti ma, nonostante Trump, in qualche modo comuni, tra paesi le cui economie erano sempre più integrate. “In un mondo di geopolitica stabile, non c’era ragione di essere preoccupati della crescente dipendenza da paesi che pensavamo sarebbero rimasti nostri amici”, scrive Draghi. Ora, in un tempo di geopolitica instabile, le sfide rimangono le stesse, ma la strategia cambia. Bisogna innovare non solo per crescere ma anche per proteggersi. La sfida per la competitività è dunque “esistenziale”. Inevitabile per difendere e rilanciare il nostro benessere e il nostro modello di società prospera ed inclusiva.
Delle azioni proposte dal rapporto, dagli investimenti alle infinite dettagliate misure, ne abbiamo bisogno comunque. In vent’anni la differenza tra PIL Usa e Pil Europeo è passata dal 15% al 30%. 72% di questo distacco è spiegato dalla perdita di produttività. L’Europa non innova abbastanza, ha una struttura industriale statica, le imprese innovative emigrano, ha mercati frammentati e soffoca le ambizioni di crescita delle imprese con regole eccessive e diverse tra paesi.
Ma, secondo il rapporto, il nostro continente è specialmente minacciato perché ci siamo fidati e affidati troppo agli altri. Le esportazioni non trovano più mercati aperti e in crescita come prima. Le nostre catene di produzione disperse nel mondo, basta un razzo degli Houti per bloccarle e privarci di componenti essenziali. E i nostri sistemi di difesa frammentati e inefficienti, tanto c’è l’ombrello americano, non sono in grado di difenderci. Per questo la geopolitica pone per noi sfide esistenziali.
Ora, sostiene il rapporto e tornando ai mercati, il multilateralismo è defunto e dunque l’Europa deve essere pro-attiva e dotarsi di una propria politica commerciale. Per settori dove siamo troppo indietro tecnologicamente barriere basse e continuiamo a importare, vedi i pannelli solari. Per quelli dove vogliamo sviluppare nuove tecnologie o riportare a casa la produzione di componenti fondamentali, un po’ di protezione sulla base del vecchio modello dell’industria infante (aspettiamo che cresca e impari per farla andare nel mondo). Per quelli dove le tecnologie sono all’estero ma si potrebbe comunque produrre in Europa, favorire investimenti dall’estero. E infine fare accordi commerciali con tutti coloro con cui vogliamo collaborare per l’innovazione o che hanno materie prime per noi essenziali.
Tutto bene, ma bisogna essere in due per ballare il tango. Come risponderanno gli altri paesi alle nostre scelte unilaterali? La Cina continuerà a darci i pannelli solari se blocchiamo le sue esportazioni di automobili elettriche? E gli altri? Il problema è che quando si iniziano ad alzare barriere e si lanciano programmi di sviluppo industriale con forti interventi pubblici comunque il terreno di gioco non sarà più pareggiato per nessuno e ci sarà sempre qualcuno in vena di ritorsione. Il mondo è ancora troppo integrato e i legami tecnologici e commerciali sono inevitabili.
Le transizioni digitale e verde richiedono per forza investimenti pubblici colossali che distorcono i mercati. Ma creano anche beni comuni, come aria pulita, che fanno bene a tutti. Potremmo forse allora, nella dinamica del noi e loro, provare comunque ad identificarli ed essere pro-attivi nel cercare accordi di cooperazione tra paesi?
Il rapporto Draghi è un esercizio fondamentale per preservare e ricostruire il bene comune europeo della prosperità, della crescita e dell’inclusione sociale. Ma per mettere in atto questo piano, qualunque sia la geopolitica, non si può dimenticare il bene comune globale, almeno dove e con chi è possibile.
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Il manifesto della nuova Ue
di Andrea Bonanni
10 SETTEMBRE 2024
Come Antonio Gramsci, a cui forse non amerebbe essere paragonato, Mario Draghi è un ottimista. Il rapporto di oltre trecento pagine che ieri ha presentato a Bruxelles è stato pensato e scritto come il Manifesto della nuova Europa. Di sicuro potrebbe esserlo. Indica con grande urgenza i radicali cambiamenti strutturali, economici, gestionali e politici che sarebbero necessari per riportare la Ue ad essere competitiva, a creare ricchezza e, garantendo il benessere dei suoi cittadini, a ritrovare il consenso che sta rapidamente perdendo attorno ai suoi valori fondanti: democrazia, libertà, coesione sociale.
Ma quel rapporto potrebbe rivelarsi invece l’Epitaffio della vecchia Europa. Perché l’analisi su come i nostri governi nazionali abbiano sprecato gli ultimi vent’anni accumulando miopie, indecisioni, procrastinazioni e ritardi è tanto lucida quanto spietata. E chiunque conosca anche solo superficialmente la realtà di questa nostra Unione sa che le soluzioni radicali proposte da Draghi hanno ben poche speranze di essere adottate dai governi nazionali con la necessaria risolutezza. Ma questo, per usare le parole dell’ex presidente della Bce, vorrebbe dire «rassegnarsi ad una lenta agonia».
La questione gramsciana dell’ottimismo della volontà e del pessimismo dell’intelligenza si ripresenta dunque in chiave europea. Gramsci, come Draghi, non le considerava in contraddizione. Il primo fu seccamente smentito dalla storia del seguente quarto di secolo. Speriamo che a Draghi (e a noi) vada un po’ meglio e non si debba aspettare il 2050 per scoprire che aveva ragione.
Resta il fatto che l’anamnesi e la diagnosi fatta dal rapporto sulla malattia del “paziente Europa” appaiono tanto gravi quanto incontestabili. Mentre la prognosi rimane aperta. O l’Europa saprà darsi un governo unico in politica estera, difesa, economia, commercio e industria abbandonando la regola dell’unanimità e, se necessario, lasciando indietro i ritardatari. Oppure la «lenta agonia» resta l’unica soluzione possibile. Quella che lui ha posto, spiega Draghi, «è una sfida esistenziale».
L’Europa saprà raccoglierla? Dubitarne è lecito. Oggi la Ue appare in piena crisi non solo economica ma anche politica. Francia e Germania, le due forze propulsive che l’hanno spinta per oltre settant’anni, hanno governi precari sostanzialmente sfiduciati dagli elettori. L’Italia, che in passato ha saputo traghettare l’asse franco-tedesco verso decisioni difficili come l’Atto Unico o il Trattato di Maastricht, è sempre più isolata nella sua deriva sovranista. La stessa coalizione di centro-sinistra, che ha riconfermato la von der Leyen alla guida della Commissione, è attraversata da divisioni e sospetti.
Tutto questo, secondo il pessimismo dell’intelligenza, rende difficile credere che una tale costituente politica possa o voglia abbracciare e realizzare il Manifesto Draghi. Le immediate reazioni del Finanzminister tedesco, che boccia l’idea di nuove emissioni di debito comune per contribuire agli ottocento miliardi di investimenti annui necessari per salvare l’Europa, lascia prevedere il peggio.
D’altra parte, l’ottimismo della volontà riesce a scorgere un’altra strada che trasforma in forza la debolezza del sistema. Proprio la fragilità dei governi, e l’evidente smarrimento dei principali partiti politici, potrebbero favorire la leadership della nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Nessuno, oggi, in Europa, ha in sé la forza per opporsi ad un piano di azione radicale che si presenta come l’ultima soluzione possibile per preservare lo stato sociale, salvare i valori fondamentali e riconquistare il consenso perduto. A partire dal dopoguerra, passando per la fine della Guerra fredda, l’Europa è sempre andata avanti quando era più debole. Il Manifesto Draghi potrebbe essere la zattera a cui si aggrappano i naufraghi dell’attuale leadership europea. Il futuro, neppure tanto lontano, ci dirà quale strada prenderà la Storia dell’Unione, a partire dalla scelta dei commissari e dal loro esame in Parlamento per finire con l’inevitabile riforma dei Trattati. A noi resta la curiosità di capire dov’erano e che cosa facevano le nostre classi dirigenti mentre il mondo cambiava e ci voltava le spalle, senza che neppure ce ne accorgessimo, persi nella contemplazione del nostro ombelico.
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09 Settembre 2024
Le 170 proposte di Draghi sono imprescindibili.
E infatti nessun leader si fa avanti per adottarle
di Angela Mauro
Tanto che l’ex capo della Bce fornisce una via d’uscita: si vada avanti con chi ci sta sulle riforme necessarie all’Ue, altrimenti sarà “lenta agonia”. Ma nelle capitali non si festeggia e anche von der Leyen frena sul nuovo debito comune. Del resto, se gli stati l’avessero voluto davvero, avrebbero messo Draghi a capo dell’Ue
Che qualcuno dovesse farlo, non c’è dubbio. Che poi sia addirittura Mario Draghi a sobbarcarsi il compito di dire cosa deve fare l’Unione per salvarsi da una “lenta agonia”, è di certo la scelta più adatta, considerato il curriculum di ‘Mr. Whatever it takes’. Ma il report sulla competitività europea, presentato oggi a Bruxelles dopo che se n’è parlato per mesi, di cui si sa praticamente tutto, dall’urgenza di riformare l’Ue per superare il diritto di veto che rallenta le decisioni, alla necessità di fare nuovo debito comune per trovare gli “800 miliardi di euro” in più all’anno per gli investimenti, è il kit di sopravvivenza per una Ue che potrebbe aver esaurito una comune capacità di reazione, ripiegata com’è nella propaganda dei partiti nazionalisti che hanno preso il potere in diversi Stati e minacciano di riuscire a governare anche la Germania.
L’ex premier italiano conosce bene i rischi che aleggiano sulla sua creatura, 170 proposte per 400 pagine targate “urgenza e concretezza”. Per questo in qualche modo corre ai ripari, offrendo una via d’uscita nella formula di un’Europa a più velocità: “Se l’azione è bloccata a livello Ue, deve essere perseguito un approccio differenziato all’integrazione”. Insomma, procedono gli Stati che lo vogliono, una sorta di “coalizione dei volenterosi”. Draghi ha anche l’accortezza di evitare le questioni divisive, come l’immigrazione: se il governatore di Bankitalia Fabio Panetta la indica come la chiave per risolvere i problemi di calo demografico e mancanza di manodopera, l’ex premier italiano si limita a notare che al momento in Europa non “c’è un’immigrazione in grado di invertire il trend negativo”.
Ma tutto questo sarà sufficiente a evitare che il rapporto finisca in un cassetto tra le rovine di ciò che a quel punto rimarrebbe dell’Unione?
Qualche giorno fa a Cernobbio, il premier ungherese Viktor Orbán ha detto chiaramente che per lui va bene una maggiore unione sui mercati e sulla competitività ma non dirà mai sì ad una Unione più forte dal punto di vista politico. Con il leader magiaro si schierano i nazionalisti dell’Ue, a cominciare da Giorgia Meloni che infatti non si affretta a commentare il report, lasciandolo cadere nel vuoto.
A giudicare dalle prime reazioni, il lavoro di Draghi sembra una bussola per i socialisti. Ma attenzione: i socialisti del sud Europa, quelli favorevoli a nuove forme di debito comune, non certo quelli del nord, a cominciare dai tedeschi, che finora si sono esercitati in quella politica degli aiuti di Stato per le loro imprese che secondo Draghi andrebbe dismessa o usata solo per “scopi comunitari”, altrimenti crea concorrenza e distorsioni nel mercato unico. “Siamo di fronte a una sfida esistenziale: per essere competitivi abbiamo bisogno di più innovazione e più investimenti comuni. Il messaggio di Mario #Draghi all’Unione Europea va ascoltato”, è il commento del commissario uscente all’Economia Paolo Gentiloni, testimone diretto della testardaggine del governo tedesco a chiedere precisi paletti di austerity nel nuovo Patto di stabilità che pure era nato sotto altri presupposti di maggiore flessibilità. “Io che ho lavorato tantissimo in questi anni – continua Gentiloni – per esempio su quello che noi chiamiamo Pnrr e che in Europa chiamiamo Next Generation EU so benissimo quanto l’ambizione del rapporto di Draghi di avere 7-800 miliardi di finanziamento comune sia difficile da realizzare. Però se non abbiamo questa ambizione penso che rischiamo parecchio. Quindi il rapporto di Draghi arriva al momento giusto perché siamo al cambio di ciclo da una Commissione alla prossima e indica un orizzonte molto alto. Mi auguro che non finisca in un cassetto, è successo tante volte con questi rapporti che tutti ne parlano bene per qualche giorno e poi finiscono lì”.
È alto il rischio che l’attesissimo report di Draghi, voluto da Ursula von der Leyen per riempire di contenuti il suo bis a Palazzo Berlaymont, sia il canto del cigno dell’Unione. Da parte sua, anche la presidente della Commissione europea frena sull’idea di nuovo debito comune per far fronte agli investimenti necessari per recuperare competitività: si tratta di una cifra che doppia il piano Marshall, il 5 per cento in più sul bilancio annuale dell’Ue. La tedesca si limita a dire che per far fronte agli investimenti necessari, gli Stati membri hanno due strade: aumentare i contributi nazionali al bilancio dell’Ue o inventarsi nuove risorse proprie per rimpolpare il bilancio. Ma non va oltre, per non urtare gli Stati membri. Tutto dipende dalla loro “volontà politica”.
Un primo banco di prova ci sarà l’8 novembre, quando i 27 saranno chiamati a Budapest per il summit informale ospitato dalla presidenza di turno ungherese. In questa occasione, cominceranno a discutere dell’agenda Draghi. Va segnalata la disponibilità del Ppe. “Grazie, caro Mario Draghi, per aver valutato le sfide economiche dell’Europa – è il commento del presidente dei Popolari Manfred Weber – Riconquistare la competitività economica dell’Europa è cruciale per il nostro futuro. Il momento di agire è adesso, con pragmatismo e fermezza. Dobbiamo ridurre la burocrazia, completare il Mercato unico, rafforzare il commercio e dare impulso alla reindustrializzazione e all’innovazione. Ora, sono necessari passi coraggiosi e una strategia rapida”. Ma il punto sarà far combaciare gli interessi dell’industria tedesca con quella francese, solo per fare un esempio, in un’Europa che, ammette lo stesso Draghi, è già “in crisi, non riconoscerlo vorrebbe dire ignorare la realtà”, invece “non bisogna mentirsi”.
Il punto è che la crisi avanzata sta producendo risposte di destra nella società: larghe fette di elettorato votano i partiti ultranazionalisti, malgrado la loro propaganda non fornisca soluzioni. I partiti moderati, gli stessi che plaudono al report di Draghi oggi, si sentono sempre più minacciati dalla destra estrema, fino a copiarne il modello soprattutto sull’immigrazione. Se questo è il quadro, se i leader dei maggiori paesi dell’Ue, da Emmanuel Macron a Olaf Scholz, sono l’incarnazione della crisi, chi avrà la forza di scartare e costruire un ambiente favorevole all’adozione concreta del report dell’ex banchiere centrale? Soprattutto chi avrà la capacità di mettere al primo posto l’interesse comune europeo, piuttosto che l’interesse nazionale o quello dei propri interlocutori, che siano la Cina o gli Usa, tra le due potenze che giocano a spartirsi l’economia europea lasciando le briciole alle aziende del continente?
Draghi rischia di predicare nel deserto. Anzi: in un panorama politico che si è desertificato alla velocità della luce negli ultimi due anni, dall’inizio della guerra in Ucraina, il big bang che per l’ex premier ha dato vita ad un mondo diverso dal passato, più instabile, in cui l’Ue deve cercare il proprio posto per niente garantito. Del resto, le sue prediche Draghi aveva cominciato a farle già quando era premier italiano, ogni summit europeo era l’occasione per scuotere gli altri leader sull’urgenza di prendere decisioni comuni per recuperare competitività contro la concorrenza globale.
Dalla sua, l’ex capo del governo aveva Macron. Ma non era sufficiente contro l’ostilità della Germania. Il socialista Scholz aveva il fiato sul collo degli alleati liberali, in competizione con la Cdu che a sua volta avvertiva già la pressione per l’avanzata dell’estrema destra. Una catena di errori e responsabilità che oggi è semplicemente diventata più corta a minacciare di stritolare anche le 400 pagine di Draghi. Del resto, se davvero i leader avessero voluto adottare la sua agenda, avrebbero scelto lui alla presidenza della Commissione europea, senza perdere tempo col bis di von der Leyen che si limita ad annotare ciò che viene deciso nelle capitali e non a Bruxelles.
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09 Settembre 2024
Competitività, energia, difesa, green e tanto altro.
Ecco il report di Draghi in sintesi
di Matilde Nardi e Giulia Rugolo
L’ex presidente della Bce ha presentato le sue idee per rilanciare l’Unione Europea: serve un investimento da 800 miliardi l’anno, come due piano Marshall messi assieme
L’ex presidente del Consiglio e della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi ha presentato a Bruxelles, il report di 400 pagine per la ripartenza economica e produttiva dell’Unione europea, attraverso «riforme e interventi urgenti». L’obiettivo è evitare il declino continentale per poter competere con i giganti mondiali: Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. Il documento si affianca a quello dedicato al rilancio del mercato interno, che l’Ue ha affidato ad un altro ex presidente del Consiglio italiano, ovvero Enrico Letta. I 5 macro-capitoli riguardano: la competitività, l’energia, la transizione verde legata a quella tecnologica, la difesa e le sfide geopolitiche attuali.
Competitività
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Unione ha vissuto una forte crescita guidata da un’elevata produttività e aumento della popolazione, ma oggi entrambi i fattori stanno rallentando. Per un’Unione europea sicura e competitiva al cospetto delle superpotenze è necessario rilanciare la produttività e ridurre la dipendenza nelle catene di approvvigionamento. Oggi l’Ue conta sui Paesi stranieri per oltre l’80% dei prodotti digitali, i servizi, le infrastrutture e la proprietà intellettuale. La dipendenza è particolarmente acuta per i semiconduttori, un’industria dominata da un piccolo numero di grandi aziende americane, coreane, cinesi e taiwanesi. Dato che Cina e Stati Uniti detengono la leadership tecnologica per molte delle materie prime critiche, l’Unione ha bisogno di sviluppare un’efficace «politica di economia estera» basata sull’implementazione rapida e completa del CRMA (Critical Raw Materials Act). La dipendenza è massiccia anche per altre tecnologie avanzate, poiché l’industria europea dell’intelligenza artificiale si basa su hardware prodotto in larga parte da un’azienda con sede negli Stati Uniti che si occupa di processori all’avanguardia. Una moderna agenda di competitività deve considerare il tema della sicurezza, una precondizione essenziale per una crescita sostenibile.
Energia
La differenza di prezzo dell’energia tra Stati Uniti e Unione è dovuta alla mancanza di risorse naturali e al limitato potere contrattuale collettivo, nonostante l’Ue sia il più grande acquirente mondiale di gas naturale. Il divario è anche causato da problemi fondamentali con il mercato energetico. Gli investimenti nelle infrastrutture sono lenti e non ottimali, sia per le energie rinnovabili che per le reti. Gli aspetti finanziari e comportamentali dei mercati dei derivati hanno determinato, quindi, una maggiore volatilità dei prezzi. Le tensioni sui mercati del gas dovrebbero attenuarsi grazie alla nuova capacità di rifornimento globale, ma il sistema energetico dell’Ue dovrà far fronte all’elettrificazione e alle nuove esigenze di sicurezza dell’approvvigionamento. Un altro fattore che ha provocato l’aumento dei prezzi è la guerra russo-ucraina. Durante la crisi del 2022, ad esempio, la concorrenza intracomunitaria per il gas tra operatori disposti a pagare cifre elevate ha contribuito a un aumento eccessivo di queste ultime, che le istituzioni comunitarie hanno provato a contrastare con un meccanismo di coordinamento per aggregare e abbinare la domanda con offerte concorrenziali, chiamato AggregateEU.
Transizione verde e tecnologica
Clima e transizione green sono sfide cruciali del nostro tempo, richiamate lo scorso 18 luglio da Ursula Von der Leyen nel suo discorso di rielezione alla presidenza della Commissione europea. Il Green Deal è il pacchetto con cui l’Unione europea mira a diventare il primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. L’impegno per l’industria pulita va di pari passo con l’accelerazione della digitalizzazione e il cambiamento tecnologico che incombe, potenziato dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Già a febbraio scorso, Draghi aveva invitato l’Unione a dedicare 500 miliardi di euro all’anno per finanziare la svolta green e digitale. Alcuni numeri mostrano chiaramente il declino dell’Ue: solo quattro delle prime cinquanta aziende tech top al mondo sono europee e, dal 2013 al 2023, la quota di ricavi tecnologici europei globali è scesa dal 22% al 18%, mentre quelli statunitensi sono saliti dal 30% al 38%.
Difesa
Secondo il report, l’industria europea della difesa non solo soffre di una mancanza di fondi, ma anche di scarsa attenzione nei confronti dello sviluppo tecnologico. «Il settore europeo della difesa è altamente competitivo a livello mondiale, con un fatturato annuo di 135 miliardi di euro nel 2022 e forti volumi di esportazione», si legge nel documento. I prodotti dell’Ue sono equivalenti o di qualità superiore a quelli proposti dagli Stati Uniti, come carri armati, sottomarini o aerei da trasporto, ma l’industria della difesa ha un deficit di capacità su due fronti principali: la domanda complessiva è inferiore e la spesa è meno focalizzata sull’innovazione. Infatti, questo è un settore caratterizzato da cambiamenti dirompenti, quindi gli investimenti in ricerca e sviluppo sono necessari per mantenere la parità strategica. L’industria europea della difesa è frammentata – elemento che ostacola l’efficacia sul campo – perché è popolata da operatori nazionali che agiscono sui mercati interni. La frammentazione pone due sfide centrali: la capacità di produrre su larga scala e la mancata standardizzazione delle attrezzature, dato emerso durante i sostegni inviati all’Ucraina.
Sfide geopolitiche attuali
L’Europa ha costruito un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende, contando circa il 17% del pil mondiale, al pari della Cina, e sotto agli Stati Uniti con il 26%. In un mondo che cambia, lo scopo è tenere testa alla crescente pressione cinese nel settore dell’industria green, raggiungere la neutralità carbonica e aumentare la rilevanza geopolitica, che dipende dal mantenimento di solidi tassi di crescita economica. I rischi incessanti aumentano l’incertezza e smorzano gli investimenti, mentre i maggiori shock o gli stop improvvisi nel commercio possono essere dirompenti. L’ambiente geopolitico è turbato dalla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, con il correlato deterioramento delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e la Cina, accusata di sostenere il presidente russo Vladimir Putin nel suo sforzo bellico. Da non sottovalutare è, inoltre, la perenne instabilità politica e sociale del continente africano, fonte di vari beni critici per l’economia mondiale. Il peggioramento dei rapporti bilaterali richiede a molti Paesi europei un aumento della spesa nella difesa, con la Nato che ha fissato da tempo il tetto minimo del 2% del pil nazionale da destinare a questo settore. Oltre all’aggressione alle sue porte, l’Unione affronta una guerra ibrida con attacchi informatici e alle infrastrutture energetiche, interferenze nel corretto funzionamento dei processi democratici e l’utilizzo della migrazione come arma contro la stabilità europea.
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11 Settembre 2024
Se la diagnosi di Draghi è corretta,
che ce ne facciamo
di questa destra e di questa sinistra?
di Massimo Adinolfi
Il modo in cui si dividono i partiti politici non è dato in natura. Le linee di faglia cambiano storicamente: si formano nuovi paesaggi. Se la decisione di fronte alla quale si trovano i paesi europei ha il peso e la gravità che dice l’ex premier, allora un simile scossone è necessario
L’atteso rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività in Europa è stato presentato. Introdotto da Ursula von der Leyen, per la quale il rapporto deve arricchire le linee guida della Commissione da lei guidata e irrorare la nuova legislatura, Draghi ha detto: da tempo in Europa la crescita ha rallentato, l’andamento demografico è in calo, la produttività è bassa. Nuovi attori globali – prima fra tutti la Cina – minacciano la posizione delle imprese europee sui mercati internazionali; nel settore dell’energia e in quello della difesa l’Europa è di fronte a nuovi, immani compiti; le trasformazioni dell’economia e della società – la decarbonizzazione, la digitalizzazione – richiedono un volume di investimenti straordinario: almeno il 5% del Pil europeo, un livello che non è più stato raggiunto dagli anni Settanta. E nel bel mezzo di una situazione del genere, l’Europa non intende giustamente rinunciare al suo modello di protezione sociale, né ai suoi valori fondanti: “Prosperità, equità, libertà, pace, democrazia in un mondo sostenibile”. Più precisamente, Draghi ha detto: se l’Europa vuole preservare questo modello, se tiene ancora in vista questi valori, allora non può sottrarsi a questa sfida. Si tratta di una sfida esistenziale. Che necessita di un cambiamento radicale. E urgente. E concreto, molto concreto. E ora, signori decisori, decidete pure.
Ecco, politica significa proprio questo: decisione. E relativa assunzione di responsabilità. Fiumi di inchiostro si spendono intorno a questa paroletta: come si prende una decisione, cosa la legittima, in quale rapporto la decisione è con le ragioni che la sostengono, in quale misura è invece un moto della volontà o addirittura un atto di imperio, chi tiene davvero tra le mani un simile potere, quali attori individuali o collettivi, quali forze la influenzano o la determinano, quali spazi di azione essa ha oggi. Eccetera eccetera. Tutte questioni affascinanti, sotto il profilo storico e teorico, che bisognerebbe sentire come il fiato sul collo, dopo le parole di mister “Whatever it takes”. Non ho però questa sensazione, non mi sembra che, sfogliando i giornali, ci sia in giro sufficiente preoccupazione per la “lenta agonia” paventata da Draghi, in assenza di misure all’altezza della sfida.
Ma, oltre alla preoccupazione, mi sembra che manchi pure una vera presa di coscienza. La cosa sta così, che il rapporto Draghi è stato valutato positivamente dal Partito democratico, da Forza Italia, dai centristi (comunque oggi si chiamino e ovunque militino: la geografia è in movimento), mentre hanno formulato riserve o giudizi negativi tanto la sinistra verde e radicale di Avs, quanto – all’altro polo dello spettro politico – la Lega di Salvini. Negativa anche l’impressione che ne hanno tratto i Cinque Stelle – ma va’ a capire: io sospetto persino che l’antipatia del defenestrato Giuseppe Conte per Draghi abbia un ruolo, ben più delle nuove verniciature ideologiche dei pentastellati – e piena di distinguo quella di FdI. Nel caso di Fratelli d’Italia, il sospetto è che la collocazione al governo impedisca al partito, o a certi suoi esponenti, di dire davvero quello che pensano: di Draghi, di Bruxelles, dei poteri forti. Ma forse mi sbaglio.
Ad ogni modo, riassumo: i favorevoli e i contrari, quelli che considerano Draghi una risorsa e quelli che lo considerano una iattura, quelli che ne sposerebbero le ricette e quelli che invece ci si intossicano, non si dividono secondo l’asse destra/sinistra. Domando allora: che ce ne facciamo di questo asse? Come si fa a prendere decisioni del calibro di quelle che il rapporto richiede – montagne di miliardi di debito pubblico europeo, nuove strategie industriali, nuovi profili di governance nell’Ue e nuove forme di cooperazione e integrazione – avendo i favorevoli un po’ di qua e un po’ di là, e parimenti quelli che remano contro ben incistati in entrambi gli schieramenti? Ma, per dirla (quasi) con un vecchio adagio: non solo la sinistra, anche il modo in cui si dividono i partiti politici non è dato in natura. I clivages, le linee di faglia cambiano storicamente: si formano nuovi paesaggi. Se Draghi ha ragione, se la decisione di fronte alla quale si trovano i paesi europei ha il peso e la gravità che dice, allora un simile scossone è necessario. E non mi riesce di capire come non traggano questa logica conseguenza perlomeno le forze che di Draghi condividono le analisi.
Non è mica la prima volta: nei periodi di grande crisi, i sistemi politici mutano pelle, e così anche gli attori chiamati a indossarla. Dopo la Grande Guerra, il panorama politico italiano era semplicemente irriconoscibile, se visto con gli occhi d’anteguerra. Dopo il secondo conflitto mondiale fu uguale: un’altra Italia era nata. E anche la fine della guerra fredda è stata accompagnata dal crollo di un sistema politico. Aggiungo: ogni volta è cambiata anche l’infrastruttura istituzionale – la foma di Stato, la legge elettorale –, e a ragion veduta. Orbene, è vero che oggi non siamo nel mezzo di una guerra – non sul nostro suolo, almeno –, ma l’intero scacchiere geopolitico mondiale è in movimento; e quanto ai mutamenti istituzionali, sono necessari anche quelli, sebbene innanzitutto nel quadro europeo. Perciò domando di nuovo: chi prenderà le relative decisioni? Come scongiurare la lenta agonia di cui parla Draghi? E per meglio ribadire il concetto: in queste condizioni, che ce ne facciamo di questa destra e di questa sinistra?
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