11 ottobre 2015: Settima Domenica dopo il Martirio di S. Giovanni il Precursore
Is 43,10-21; 1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43
Il Signore fa sempre cose nuove
La prima lettura della Messa riporta un testo del “secondo Isaia”, scritto nel secolo VI a.C. da un profeta, di cui non conosciamo il nome, che ha continuato la prima parte, scritta dal profeta Isaia, vissuto nel secolo VIII a.C.
Il “secondo Isaia”, che comprende i capitoli dal 40 al 55, è chiamato “Il libro della consolazione” perché contiene la parola di Dio che invita il popolo ebraico, esule a Babilonia, a non disperare: il Signore d’Israele è potente, sempre pronto al perdono e alla salvezza.
L’anonimo profeta si fa portavoce di un duplice invito: ricordare sì il passato, ma per guardare al presente e sperare nella novità di Dio. Sembra una contraddizione, quando il Signore, tramite i suoi profeti, invita il suo popolo a non dimenticare le meraviglie del passato, e poi aggiunge, come nel brano di oggi: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?».
Lo sguardo sul passato serve per ricordare che Dio è Colui che libera sempre. Lo ha fatto già nel passato, ma nello stesso tempo Dio non si ripete mai: ha sempre qualcosa in più da offrire, anche perché il presente ha qualcosa in più da chiedere. Il Signore ha sempre in riserbo qualcosa di nuovo.
C’è anche un altro rischio, ed è quello di guardare troppo al nostro passato, piangendoci addosso. In ogni presente c’è qualcosa di nuovo, la possibilità di una rinascita. Viene in mente una frase di E. Hemingway nel suo romanzo “Il vecchio e il mare”: «Non piangerti addosso. Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai».
Senz’altro, il passato serve per non dimenticare la nostra fragilità umana, ma è nel presente che dobbiamo trovare le energie che abbiamo, sempre sperando in qualcosa di nuovo.
“Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. Saper vedere i germogli anche d’inverno, sembrerebbe impossibile. Ma tutto è possibile a Dio e a ciò che di divino c’è in noi.
Il fondamento c’è, tocca a noi costruirci sopra
San Paolo, nella sua Lettera ai cristiani di Corinto, invita i credenti a uscire dalla “carnalità”, per essere “spirituali”. Per “carnalità” l’Apostolo intende vivere “fuori” dal proprio essere “interiore”, come se tutto fosse materialità, esteriorità, senza tuttavia voler distinguere e separare l’anima dal corpo. Non si tratta, dunque, di contrapporre l’anima al corpo, ma di trovare il giusto equilibrio. Lo spirito, già l’ho detto migliaia di volte, non significa ciò che noi solitamente intendiamo per anima. Lo spirito è la realtà più profonda del nostro essere, che costituisce come il fondamento della nostra vita.
Dobbiamo perciò stare attenti, quando San Paolo, come nel brano di oggi, parla di “fondamento” e di chi “vi costruisce sopra”, ricorrendo a due esempi, tolti dal mondo del lavoro: l’agricoltura e l’edilizia. Scrive ai cristiani: “Voi siete il campo, l’edificio di Dio”. Dunque, Dio è il fondamento, noi il campo, l’edifico. Sono immagini, da cogliere nel senso pieno, al di là dunque del senso più materiale.
Che cosa è il fondamento divino? È lo spirito che c’è nel nostro essere. Ed è su questo fondamento, sul nostro essere, che bisogna costruire. Lo so: sono state dette e sono state scritte differenti considerazioni su ciò che è il fondamento di Dio: si parla di Chiesa, di Dio, di Cristo, di Vangeli, ecc., ma sempre restando nell’ambito ecclesiastico o puramente religioso. Credo che bisognerebbe superare queste categorie, e affrontare la realtà umana nel suo aspetto più profondo, più universale, partendo dall’inizio, quando Dio infuse il suo spirito nel Creato, e lo fece ancor prima che nascessero tutte le future strutture, sociali, politiche e religiose. Oggi siamo così condizionati da queste strutture che non ci sembra giusto farne a meno. Sì, certo, non possiamo non vivere in una determinata società, ma ciò non toglie che non dobbiamo viverci per ciò che siamo, e non per ciò che ci costringono a fare, anche contro il nostro essere. Attenzione: parlare di “spiritualità” non significa parlare di “religiosità” o di intimità individuale o di misticismo chiuso alla realtà.
Se è vero che ciascuno di noi deve rientrare nel proprio essere per capire dove stia il fondamento della propria esistenza umana, è altrettanto vero che la società, in tutti i suoi aspetti, deve tornare a scoprire i suoi valori più profondi. In una società “esteriorizzata” all’estremo, sarà difficile per ciascuno essere se stessi.
Parabole tanto enigmatiche quanto provocatore
Il brano del Vangelo ci presenta alcune parabole di Gesù. Non dimentichiamo che il Vangelo secondo Matteo contiene cinque grandi Discorsi, tra cui, il terzo, è quello delle Parabole: sono sette, e oggi ne abbiamo lette tre.
La parabola è un genere letterario, ovvero una maniera originale di esprimere delle verità, attraverso racconti che sono inventati oppure si ispirano a fatti reali della vita quotidiana. Il messaggio è sempre il medesimo: il Regno di Dio, che Gesù è venuto a farci conoscere. Apparentemente la parabola è semplice e chiara, ma in realtà contiene una verità, appunto il Regno di Dio, che impegna intelligenza e fede, ed è per questo che gli ascoltatori, compresi gli stessi discepoli di Gesù, non ne afferravano subito il senso profondo, tanto è vero che Gesù, poi, privatamente, cercava di spiegarlo ai suoi. E allora perché Gesù raccontava parabole enigmatiche? Non è facile rispondere. Tuttavia una cosa è chiara: Gesù narrando le parabole provocava una certa reazione tra i suoi nemici, e stimolava i discepoli ad approfondire il messaggio, se non altro facendo loro capire che il Regno di Dio era qualcosa di grande.
Non c’è il tempo necessario per riflettere sulle tre parabole di oggi. Mi limito a fare qualche accenno alla parabola del buon grano e della zizzania.
Anche la zizzania serve, purché…
Potrebbe sembrare strano che il Signore, di fronte alla zizzania, inviti alla prudenza, alla pazienza, ma il motivo è chiaro: essere troppo rigidi, intervenire subito sradicando il male, potrebbe esserci il rischio che nello stesso tempo si sradichi anche il buon grano, ovvero il bene. Ci sono situazioni in cui è chiara la distinzione, e sarebbe anche facile colpire le ingiustizie, ma l’esperienza ci dice che la realtà è complessa e che tra il bene e il male non c’è una chiara demarcazione.
E poi c’è sempre di mezzo la persona umana, e qui la prudenza non è mai troppa. Lo diceva già Giovanni XXIII: bisogna “distinguere l’errore dall’errante”, anche se, aggiungo io, talora l’errante si identifica talmente con l’errore che è veramente difficile distinguere le due realtà.
Questo non significa che non dobbiamo, anche duramente, combattere i comportamenti di una persona, quando sono contro i valori umani. Il problema, lo ripeto, è quando non si tratta di un singolo o di qualche comportamento, ma di un “modus vivendi” che coinvolge l’intera persona per un tempo indeterminato.
Ma c’è di più. Sembra che il Signore, con la parabola, voglia dirci un’altra verità. Anche la zizzania, diciamo il male, serve per mettere a dura prova la nostra libertà. Come sarebbe la libertà senza il male? Che vita sarebbe la nostra, se non fossimo continuamente tentati al male? Quando descrivono la vita dei santi come una passeggiata tranquilla, alla luce di una continua provvidenza, senza nemmeno l’ombra di qualche pensiero cattivo, mi chiedo: non è forse falsificare la stessa realtà di un mondo, in cui, volere o no, Dio permette il male, tentando perfino i suoi santi?
Quante volte abbiamo aperto gli occhi, dopo una dura sconfitta perché il male ci ha colti all’improvviso! E quante volte, di fronte a ingiustizie, ci siamo sentiti scossi nella nostra indifferenza, uscendo da una vita apatica e senza senso!
Non credo che il Signore, quando ci giudicherà, valuterà la nostra esistenza nei suoi risvolti di peccato o di male, ma ci valuterà per la nostra grande voglia di risalire la china.
In ogni caso, il male non è solo l’ingiustizia in sé, ma anche un bene mancato, il meglio tradito. La zizzania può essere la nostra pigrizia spirituale, la nostra indifferenza, il vivere di minime sufficienze, di possibilità realizzate al dieci per cento, e tutto questo non è favorire la zizzania che a parole condanniamo, sempre altrove, fuori di noi, ma che in pratica favoriamo con il nostro ritirarci in spazi sempre più corti?
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