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CRONACA
11/12/2020
Per i no vax ci vorrebbe un’iniezione di psicologia
(di G. Graffigna)
Stupisce la lampante assenza nel dibattito circa la prevenzione di Covid-19 di psicologi e scienziati sociali
HuffPost
(di Guendalina Graffigna, docente di Psicologia dei Consumi e della Salute; direttore del Centro di Ricerca EngageMinds HUB, Università Cattolica del Sacro Cuore)
In questi mesi di convivenza con il virus SARS-Cov-2 l’unica strategia mondiale per contenere la diffusione del contagio è stata la modifica del comportamento umano, o meglio l’adozione di semplici regole comportamentali: indossare la mascherina, lavarsi le mani, mantenere il distanziamento fisico. Regole apparentemente banali ma che sul piano psicologico e sociale ci sono risultate faticose, spesso frustranti, in ogni caso riconfiguranti il nostro senso di libertà personale. Comportamenti con cui la società tutta è stata messa alla prova nella sua predisposizione al cambiamento, nella sua resilienza, nella sua capacità di aderenza. Ma i comportamenti sono solo la punta dell’iceberg della psicologia umana: essi dipendono da tantissimi fattori contestuali, esperienziali, emotivi. Insomma. Dietro un (apparentemente) semplice comportamento, e ancor più dietro all’assenza di quel comportamento, si celano processi psicologici complessi e articolati. Comprendere questi meccanismi è fondamentale non solo per conoscere meglio noi stessi (e quindi per acquisire competenze nuove che ci permettano di adattarci flessibilmente al cambiamento), ma anche per aiutare gli operatori, le istituzioni e i comunicatori nell’orientare processi di educazione e di sensibilizzazione più efficaci.
Se tutto questo appare evidente e condiviso, risulta allora stupefacente una lampante assenza nel dibattito degli ultimi mesi circa la prevenzione di COVID-19: quella degli psicologi e degli scienziati sociali che studiano i comportamenti di salute e le loro determinanti.
Oggi stiamo affacciandoci a una nuova fase di COVID-19 in cui il ruolo della psicologia che comprende e aiuta a modificare i comportamenti diventerà ancora più essenziale: quella in cui sarà finalmente disponibile un vaccino. Seppure la comunità scientifica internazionale ripone grandi speranze sulla capacità della futura campagna vaccinale per contenere la diffusione dei contagi e proteggere la popolazione, a oggi, ai dati di efficacia sui vaccini allo studio, manca un tassello fondamentale: il grado di predisposizione della popolazione mondiale a farsi vaccinare.
Il Centro di Ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica sta conducendo da fine febbraio un monitoraggio delle reazioni psicologiche degli italiani all’impatto di COVID-19 e delle misure preventive sulla quotidianità. Dai nostri ultimi dati (rilevazione inizio dicembre 2020) ancora il 43% degli italiani risulta esitante verso il futuro vaccino anti COVID-19 e il dato appare in crescita rispetto a maggio. Ma a preoccupare non sono tanto gli “irriducibili negazionisti” nei confronti del nuovo vaccino (che ammontano a un 16%) ma soprattutto coloro che oggi “non sanno” se si vaccineranno, che sono ben il 27%. Entrando meglio nell’analisi di questi dati è evidente come le ragioni psicologiche alla base di questa esitanza sono diverse. È possibile (anzi doveroso) andare oltre alla mera conta di chi oggi presenta dei dubbi verso il futuro vaccino. Ma la psicologia dei consumi – così come fa nelle sue applicazioni al marketing e alla comunicazione di marca – può offrire un’intelligence sui motivi molteplici di esitazione. E quindi è evidente come si possono costruire diversi profili psicologici di esitanza: “da coloro che sono poco “ingaggiati” nella prevenzione e fatalisti, a coloro che sono scettici e sfiduciati verso il sistema sanitario e i suoi operatori; a coloro che in preda di spunti più paranoici temono che dietro al processo di sviluppo scientifico (veloce) di questi vaccini ci siano conflitti di interesse; a coloro che sono più egoisti e individualisti nell’approccio alla salute e non ritengono di ricevere dal vaccino un vantaggio sufficiente a superarne il rischio.
Insomma, percorsi decisionali e profili psicologici diversi la cui comprensione risulta oggi la chiave più strategica per orientare una campagna comunicativa puntuale e personalizzata, capace di “ascoltare” oltre che di “predicare”. Perché la sfida dell’accettazione del nuovo vaccino non si giocherà (solo) sul piano della quantità delle informazioni scientifiche e della capacità di promuovere alfabetizzazione sanitaria sul vaccino. Bensì si giocherà nella capacità della comunicazione di toccare le leve emozionali più profonde della popolazione: quelle del coinvolgimento (tecnicamente engagement) e della fiducia. Gli Italiani oggi hanno l’aspettativa di essere trattati da “adulti” nel processo educativo e di comunicazione su COVID-19: e sul piano psicologico questo passa per una comunicazione non solo autentica ma anche capace di costruire fiducia. E la fiducia si costruisce attraverso l’ascolto e la comprensione dei dubbi. Solo ascoltando e comprendendo i dubbi (nelle loro diverse configurazioni psicologiche e decisionali) sarà possibile smontarli e sanarli. Proprio come un processo di immunizzazione, ma questa volta sul piano psicologico: si parte dalle argomentazioni a sfavore dei vaccini per aiutare le persone a compiere un “reframing” cognitivo ed emotivo di tali preoccupazioni e infine per controbattere con argomentazioni scientifiche solide capaci di bonificare il processo di ragionamento e sanare le preoccupazioni. Per fare questo però è necessario partire da un processo di analisi (“intelligence”) puntuale che permetta la profilazione psicologica dei diversi target di esitanza.
D’altra parte se la profilazione psicologica è (da sempre) la base del marketing e della comunicazione di marca che riesce a rendere estremamente desiderabile un nuovo prodotto, perché le stesse chiavi di comprensione e comunicazione non possono essere applicate per il nobile obiettivo di promuovere la salute?
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