Il Nobel all’iraniana Narges Mohammadi, un riconoscimento alle donne iraniane

da AVVENIRE
Premio Nobel per la pace.

La sedia vuota di Narges Mohammadi

e il grido di tutte

Antonella Mariani
 9 dicembre 2023
La sedia che domenica 10 dicembre a Oslo resterà vuota durante la consegna del Premio Nobel per la Pace renderà evidente al mondo la ferocia del regime iraniano, che punisce duramente i suoi cittadini, e in particolar modo le donne, per il loro anelito di libertà.
L’assenza fisica di Narges Mohammadi – così come il prossimo 13 dicembre a Strasburgo quella dei familiari di Mahsa Amini, la cui memoria è stata onorata con il Premio Sakharov – sarà però tutt’altro che muta: sarà un grido al mondo e ricorderà che godere dei diritti umani fondamentali, contenuti nella Dichiarazione universale che proprio oggi compie 75 anni, in troppe parti del pianeta richiede lotta, impegno, sacrificio personale, talvolta la vita e spesso senza risultati apprezzabili nell’arco della propria esistenza.
L’attivista 51enne si è battuta per i diritti delle donne e ne è stata privata, per l’abolizione della pena di morte e assiste impotente allo stillicidio di esecuzioni di giovani connazionali nel suo Paese. Il Premio assegnato dal Comitato di Oslo è a lei e a chi insieme a lei porta avanti il movimento nonviolento “Donne vita libertà”, sbocciato proprio dopo la morte di Mahsa Amini.
Alla brutalità del regime di Teheran, Narges e gli altri attivisti oppongono coraggio, forza d’animo, idealismo e resistenza. Ci piace immaginare però che la poltrona destinata a Narges a Oslo rappresenti il “vuoto” di altri milioni di donne che non hanno voce per gridare il proprio dolore. Il “vuoto” delle afghane rinchiuse da oltre due anni nel carcere immateriale dell’apartheid di genere teorizzato e realizzato dai taleban nella (quasi) indifferenza del mondo. Il “vuoto” delle israeliane brutalizzate nell’assalto dei terroristi di Hamas dello scorso 7 ottobre, le cui verità faticano a trovare il giusto riconoscimento.
La conferenza stampa a Oslo dei due figli e del marito di Narges Mohammadi – ANSA
Il “vuoto” delle palestinesi uccise a migliaia sotto i bombardamenti israeliani nella Strsicia di Gaza. Il “vuoto” delle yemenite senza nome vittime di una guerra dai contorni oscuri e pressoché ignorata, delle dissidenti russe e bielorusse che si oppongono all’autocrazia e sono rinchiuse dietro le sbarre, delle ragazze stuprate a migliaia nella guerra fratricida del Tigrai… Anche per loro, oggi, per la loro resistenza che pochi conoscono e che ancora meno vogliono conoscere, è quella sedia vuota, quel baratro immenso in cui annegano diritti, libertà, dignità.
Narges Mohammed, in qualche modo, le rappresenta tutte, con la sua assenza e il sacrificio di sé. La sappiamo in una prigione, malata ma non arresa, e immaginiamo che oggi il riconoscimento che il mondo le riserva possa essere condiviso da milioni di altre donne sconosciute, la cui vita è costellata di fatica, di diritti negati e di futuro calpestato.
Il Nobel per la pace a Narges Mohammadi offre lo spunto anche per riflettere su altro “vuoto”. La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, Nobel per la letteratura 2015, scriveva che «la guerra non ha un volto di donna», intendendo che non ne sono le artefici ma le vittime incolpevoli. Potremmo chiosare che nemmeno la pace lo ha, purtroppo. Il Comitato di Oslo quest’anno ha premiato con il massimo riconoscimento una attivista che lotta per i diritti umani, nella convinzione che senza il rispetto di essi non ci può essere nemmeno pace.
Ma dobbiamo osservare che dalla Libia alla Siria, passando per il Sudan, nei processi di pacificazione attivi nel 2022 in cui l’Onu ha avuto una parte, la rappresentanza politica femminile si è fermata al 16 per cento (era del 19% nel 2021 e del 23 per cento nel 2020). Dunque la “sedia” della storia rimane priva di donne non solo perché esse sono le vittime misconosciute e addirittura ignorate di conflitti e discriminazioni, ma anche perché ad esse non viene riconosciuto un ruolo e un interesse nella costruzione della pace. Troppi “vuoti”, troppe assenze sono condensate in quella poltrona su cui nessuna, domenica, si siederà.
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da Articolo21

Il Nobel all’iraniana Narges Mohammadi,

un riconoscimento alle donne iraniane

Ahmad Rafat
9 Dicembre 2023
Il 10 dicembre è la giornata Mondiale dei Diritti Umani. In questa giornata si festeggia l’anniversario dell’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. In questa giornata si conferisce ad Oslo anche il Nobel per la Pace. Quest’anno questo alto riconoscimento andrà alla giornalista iraniana e combattente per i diritti umani Narges Mohammadi, attualmente in carcere per scontare la pena di 16 anni di carcere inflitta nel 2016, a cui vanno aggiunti altri due anni e mezzo e 80 frustate per le attività svolte in prigione, durante un processo farsa nel 2021.
Narges Mohammadi è la seconda donna iraniana che riceve il Nobel per la Pace. Esattamente 20 anni prima, nel 2003, aveva ricevuto questo prestigioso premio Shirin Ebadi, l’avvocatessa e fondatrice del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, di cui Narges Mohammadi è vicepresidente. Ad Oslo, Narges Mohammadi non ci sarà. A rappresentarla e ricevere il premio ci saranno i suoi gemelli, Ali e Kiana di 17 anni che da tempo vivono con il padre Taghi Rahmani a Parigi.
Berit Reiss Andersen, presidente del Comitato per il Nobel per la Pace ha iniziato la conferenza per l’annuncio del nome del vincitore di quest’anno pronunciando in lingua farsi lo slogan principale della rivolta popolare del 2022 in Iran: Zan, Zendeghi, Azadi (Donna, Vita, Libertà). Motivando la scelta di Narges Mohammadi con queste parole: “Per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti”.
Narges Mohammadi ha ricevuto il suo primo riconoscimento internazionale per le attività svolte a difesa dei diritti umani a Bolzano, nel 2009, ricevendo il premio della Fondazione Alexander Langer. Da allora ha ricevuto per le sue attività a favore dei diritti umani, diritti delle donne e difesa della libertà d’espressione altri sei premi.
Nel suo ultimo libro intitolato “La tortura bianca”, pubblicato per la prima volta in farsi nel 2020 dalla casa editrice Baran di Stoccolma e poi tradotto in altre lingue, Narges Mohammadi riporta le testimonianze di 13 donne nelle carceri della Repubblica Islamica. Testimonianze sulle torture fisiche e aggressioni sessuali subite dalle donne in carcere. Racconti confermati anche dall’inchiesta pubblicata da Amnesty International in un rapporto di 120 pagine pubblicato il 6 dicembre di quest’anno.
In questo rapporto intitolato “Mi hanno violentato”, Amnesty riporta le testimonianze di 26 uomini, 12 donne e 7 bambini tutti violentati mentre erano in custodia delle forze dell’ordine e di agenti di sicurezza della Repubblica Islamica. Un rapporto straziante ha commentato Agnés Callamard, Segretaria Generale di questa organizzazione, la quale ha aggiunto “le testimonianze che abbiamo raccolto indicano un modello più ampio nell’uso della violenza sessuale come arma chiave nell’arsenale delle autorità iraniane per reprimere le proteste e reprimere il dissenso per restare al potere a tutti i costi”.
Nel messaggio di ringraziamento indirizzato al Comitato Norvegese per il Premio Nobel, che Narges Mohammadi ha fatto uscire in forma clandestina dal carcere, si legge: “Noi in Medio Oriente, in particolare quelli di noi che vivono in Iran e Afghanistan, non apprendiamo l’importanza della libertà, della democrazia e dei diritti umani dalle teorie pubblicate nei libri, ma attraverso la nostra esperienza personale di oppressione e discriminazione. Abbiamo compreso l’importanza di questi concetti e ci siamo ribellati contro i loro violatori e avversari, perché fin dall’infanzia, nella nostra vita quotidiana, abbiamo dovuto affrontare l’oppressione, la violenza aperta e sottile, le molestie e la discriminazione da parte dei governi autoritari.”
Nella lettera di Narges Mohammadi si legge ancora: “La ragione dell’imposizione dell’hijab obbligatorio da parte della Repubblica Islamica non è la sua preoccupazione per le regole religiose, i costumi e le tradizioni sociali o, come sostiene, la salvaguardia della reputazione delle donne. Invece, mira apertamente a opprimere e dominare le donne in questo modo come mezzo per dominare la società iraniana nel suo insieme. Ha legalizzato e sistematizzato questa tirannia e la repressione delle donne. Le donne iraniane non lo accetteranno più. L’hijab obbligatorio è uno strumento di dominio. Serve a prolungare il regno del “dispotismo religioso”. Per quarantacinque anni questo governo ha istituzionalizzato la povertà e la privazione nel nostro Paese. Questo regime si basa su menzogne, inganni e intimidazioni e, con le sue politiche destabilizzanti e guerrafondaie, ha seriamente minacciato la pace e la calma nella regione e nel mondo.
La lettera di Narges Mohammadi si conclude con parole di speranza: “Parlando dalla Sezione femminile del carcere di Evin, circondata da prigionieri politici e prigionieri di coscienza, tra cui donne detenute da molto tempo con una varietà di punti di vista politici e intellettuali, i bahai in prigione per le loro convinzioni religiose, attivisti ambientali, intellettuali, donne appassionate manifestanti della recente rivolta, giornalisti e studenti, invio i miei più sinceri saluti e gratitudine al Comitato norvegese per il Nobel, con un cuore pieno di amore, speranza e passione.
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da www.huffingtonpost.it
10 Dicembre 2023

Quella sedia vuota che inchioda l’Iran

di Huffpost Italia
A Oslo la consegna del Nobel per la Pace a Narges Mohammadi. Ma lei non c’è, è in carcere perché perseguitata dal regime. A ritirare il premio i figli gemelli, Kiana e Ali di 17 anni
Nel municipio a Oslo la cerimonia per la consegna del Nobel per la Pace è iniziata ma una sedia sul palco rimane vuota: l’attivista iraniana premiata Narges Mohammadi é in carcere in Iran. I figli gemelli, Kiana e Ali di 17 anni, sono presenti e saranno loro a ritirare il premio e leggeranno il discorso di ringraziamento scritto dalla madre.
L’attivista iraniana, attraverso la voce dei suoi figli, ha denunciato il “regime religioso tirannico e misogino” in Iran in un discorso letto dalla figlia durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la pace. Feroce oppositrice dell’obbligo di indossare l’hijab per le donne e della pena di morte in Iran. Mohammadi è detenuta nella prigione di Evin a Teheran dal 2021 e non ha potuto ricevere di persona il prestigioso riconoscimento.
“Il movimento Donne, Vita, Libertà, la cui priorità è la transizione dall’autoritarismo religioso, ha accelerato il processo di realizzazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza in Iran, portando chiarezza e significato alle richieste storiche del popolo iraniano. Questo movimento ha dato un contributo significativo alla diffusione della resistenza civile in Iran, federando movimenti di donne, giovani, studenti, insegnanti, lavoratori, diritti umani, ambiente e altri. Questo movimento si concentra essenzialmente sul ‘cambiamento'”. È quanto scrive la Nobel per la Pace 2023, l’attivista iraniana Narges Mohammadi, nel dicorso di accettazione del premio. “Il vasto movimento Donne, Vita, Libertà è emerso come estensione delle lotte storiche, con la partecipazione attiva delle donne iraniane, dopo l’assassinio di Mahsa Amini (Zhina Amini), ed è stato massicciamente sostenuto da uomini e giovani della società”, recita il discorso di Mohammadi letto dai figli a Oslo. “In questo contesto il popolo iraniano, in particolare le donne, confrontandosi direttamente con il regime religioso autoritario, ha acquisito la capacità di mettere in discussione i modelli culturali e istituzionali, diventando una forza potente nella ‘lotta e nella resistenza’, delineando una visione della futura governance e della democrazia in Iran”, prosegue la Nobel per la Pace. E ancora: “Le donne hanno acquisito questa posizione influente grazie all’esperienza di 45 anni di discriminazioni e ingiustizie in tutte le sfere private e pubbliche, nonché di ‘segregazione sessuale e sessista’, e alla loro instancabile resistenza. Questo movimento è visto come una ‘estensione della politica conflittuale’, nella tradizione delle lotte civili, dei movimenti sociali e degli instancabili sforzi delle persone per realizzare una società civile. Anche se attualmente sta subendo una forte repressione da parte del governo, rimane vivo e vegeto”.

Il messaggio di Mohammadi

“Il vostro supporto è significativo e potente e profondamente apprezzato”, è l’inizio del discorso, scritto in francese, di Mohammadi, la cui prima parte è stata letta dalla figlia 17enne Kiana Rahmani. “Scrivo questo messaggio da dietro le alte, fredde mura di una prigione. Sono una donna mediorientale da una regione che, nonostante la sua ricca civilizzazione è intrappolata in guerra, dal fuoco del terrorismo e degli estremismi”, afferma la Nobel per la Pace. La seconda parte è stata letta dal figlio Ali Rahmani: “Il movimento donna, vita, libertà ha accelerato il processo di transizione verso il raggiungimento di democrazia, libertà e pari diritti in Iran dando chiarezza e significato alla richiesta storica del popolo iraniano”. Mohammadi ha rivolto inoltre in un passaggio apprezzamento per le proteste dei giovani: “Hanno trasformato le strade e gli spazi pubblici in un arena per la diffusione di resistenza civile. La resistenza è viva e la lotta persiste. La resistenza continua e non violenta, è la nostra strategia migliore”. Nella parte finale dell’intervento Mohammadi tende una mano a tutte le forze per la pace e per i diritti dell’uomo: “Sono fiduciosa che la luce della libertà e della giustizia risplenderà luminosamente sulla terra d’Iran. In quel momento, festeggeremo la vittoria della democrazia e dei diritti umani sulla tirannia e il totalitarismo e l’inno del trionfo del popolo sulle strade d’Iran risuonerà in tutto il mondo” conclude il discorso. I due figli assieme sul podio davanti al re Harald V e alla regina hanno scandito lo slogan delle proteste che hanno scosso l’Iran in farsi e in inglese: “Zan. Zendegi. Azadi”, “Donna. Vita. Libertà” tra una standing ovation e l’emozione di tutti i presenti.

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da it.gariwo.net

Chi è Narges Mohammadi

Attivista iraniana e Premio Nobel per la Pace 2023, ha dedicato la vita alla battaglia per i diritti umani nel Paese
Narges Mohammadi – nata a Zanjan il 21 aprile 1972 – conosce solo un modo di vivere: lottando contro la teocrazia islamica dell’Iran per difendere i suoi e altrui diritti. E lo fa senza cautele. Come un funambolo che cammina su un filo teso senza una rete che ammortizzi l’impatto dopo la caduta. Una settimana prima di compiere 50 anni, ha “festeggiato” con un video-appello rivolto a tutti gli attivisti e difensori dei diritti umani. Registrato il 21 aprile del 2022, quando è dovuta tornare di nuovo in carcere per scontare l’ennesima condanna di 8 anni di detenzione per presunti crimini contro la sicurezza nazionale dell’Iran. Sebbene la prigionia, l’isolamento, le torture, la malattia abbiano segnato la sua esistenza, nel video appare forte. Inspiegabilmente non ancora piegata dalla brutalità del regime iraniano. Con una chioma indomita di capelli scuri e ricci, un’espressione grave ma apparentemente serena, nel video, mandato online dall’organizzazione umanitaria Front Line Defenders il 21 aprile, afferma: “Cari difensori dei diritti umani, sono molto felice di condividere questo videomessaggio con voi oggi, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Oggi, alle 17, mi dirigerò verso il carcere, come tante altre volte, ma sono piena di speranza e libera da qualsiasi preoccupazione o frustrazione”.
Narges Mohammadi è stata arrestata 12 volte, condannata complessivamente a 30 anni di carcere, oltre alle tante frustate. Attivista sin dai tempi in cui studiava all’università e aveva fondato il gruppo degli “Studenti illuminati”, ricorda la sua ultima campagna, fatta dopo la liberazione per gravi condizioni di salute, contro la tortura bianca: “Prima del mio arresto nel novembre dello scorso anno, insieme ad altri 85 attivisti, abbiamo avviato una campagna chiamata White Torture contro l’uso dell’isolamento nelle carceri iraniane. Crediamo che questa pratica debba essere fermata perché rappresenta una grave violazione dei diritti umani. Quattro mesi fa sono stata tenuta per più di due mesi in isolamento nel reparto 209 della prigione di Evin”.
Nel 2008, Narges Mohammadi è diventata vicepresidente del DHRC, Defenders of Human Rights Center (fondato dal premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi) che finché ha potuto ha difeso i prigionieri politici e di coscienza nei procedimenti giudiziari. Narges Mohammadi entra ed esce dalle prigioni dagli anni 90 ed è sempre stata in prima fila nella battaglia nelle piazze contro la legge che obbliga le donne a indossare lo hijab. Una battaglia, quella contro l’obbligo di indossare il velo, che ha scatenato anche l’ultima, clamorosa, ondata di proteste scoppiate dopo l’omicidio di Mahsa Amini, il 16 settembre del 2022. Guidata da una generazione disposta ad andare fino in fondo per porre fine alla dittatura della Repubblica Islamica. E uno slogan potente che viene scandito in tutte le piazze del mondo occidentale: Zan, Zendegi, Azadi – Donna, Vita, Libertà”.
A guardare il video registrato pochi giorni prima di tornare dietro le sbarre, il 21 aprile del 2022, si fa fatica a sovrapporre l’immagine della sua espressione vitale con quella del suo corpo quasi immobile nel letto, due anni prima, quando è stata picchiata selvaggiamente dal direttore del carcere di Evin per una protesta organizzata contro la repressione delle manifestazioni del 2019. Una forza esasperata, la sua, che l’ha portata nel 2020, appena liberata, a fare due libri e un documentario sulla tortura bianca in cui ha raccontato la sofferenza vissuta nell’isolamento. Nel suo racconto sulla tortura bianca, basato su diverse interviste a attivisti e dissidenti, ha scritto: “L’isolamento significa essere rinchiusi in uno spazio molto piccolo. Quattro mura e una porticina di ferro tutti dello stesso colore, spesso bianco. Non c’è luce naturale all’interno della cella. Non c’è aria fresca. Non si sente alcun suono e non puoi parlare o avere relazioni con altri esseri umani. Non hai niente tranne tre coperte sottili e logore, una camicia e dei pantaloni. Gli interrogatori sono condotti con minacce, intimidazioni e pressioni. I detenuti sono sottoposti a false accuse e a pressioni psicologiche per costringerli a false confessioni. Non ci sono contatti con familiari, amici o avvocati. La solitudine e l’impotenza influenzano la mente umana giorno dopo giorno”.
Narges Mohammadi ha dedicato la sua vita a combattere la teocrazia iraniana e le sue leggi che hanno imposto il velo come vessillo dell’oppressione. Ha cominciato a entrare ed uscire dal carcere dagli anni Novanta, quando aveva sostenuto la campagna elettorale del riformista Mohammad Khatami, eletto presidente nel 1997 e nel 2001 grazie al voto delle donne e dei giovani che allora si illusero di poter ottenere delle riforme e più diritti per le donne. Arrestata di nuovo nel 2010 insieme ad altri attivisti del Centro Defensor of human rights fondato dall’avvocato e premio Nobel Shirin Ebadi, nel 2011 viene condannata a 11 anni di carcere per aver cospirato contro la sicurezza nazionale. Nel 2012, dopo una paralisi muscolare, viene rilasciata per problemi di salute. Sposata con il giornalista Taghi Rahmani – un politico dissidente che è stato incarcerato per 14 anni prima di essere costretto ad andare in esilio in Francia dove vive con i loro figli gemelli – si è opposta per anni alle condanne a morte che non sono mai state fermate, neanche contro i minorenni, e ha denunciato gli ufficiali giudiziari che hanno autorizzato gli isolamenti, la tortura bianca, arrestato i manifestanti della precedente ondata di proteste, nel 2019. Mohammadi è stata imprigionata nella prigione di Evin nel maggio 2015, dove è stata detenuta fino a dicembre 2019, quando è stata trasferita nella prigione di Zanjan, a circa 300 km da Teheran, dopo aver organizzato proteste contro le condizioni carcerarie e l’uccisione di centinaia di manifestanti nel novembre 2019. In seguito al suo ultimo rilascio, nell’ottobre del 2020, Narges Mohammadi ha ricevuto minacce di morte dalle forze di sicurezza ed è stata arrestata più volte, anche per un giorno solo. Narges Mohammadi ha denunciato gli agenti dell’Intelligence che l’hanno sottoposta a torture e altri maltrattamenti, strappandole brutalmente i capelli, tabù e ossessione misogina della Repubblica Islamica dell’Iran.
Difficile comprendere la sua forza quasi esasperata. Persino suo marito, durante una conversazione avvenuta l’11 marzo 2022 al Geneva International Film Festival and Forum on Human Rights sul documentario di Narges Mohammadi sulla tortura bianca, ha confidato: “Ogni tanto ho provato a dirle di calmarsi, ma è dalle sue carcerazioni che lei trova la linfa vitale per andare avanti”. Nonostante la sua malattia neurologica, gli spasmi muscolari, ogni volta che viene rimessa in libertà, ricomincia di nuovo a lottare per i diritti umani. In carcere conosce anche tanti detenuti comuni e prende sulle sue spalle il fardello di tutti quelli che ha incontrato per difendere i loro diritti contro la piovra giudiziaria della Repubblica Islamica. E ogni volta che sfida il regime, viene punita. “L’hanno accusata anche per aver partecipato a una protesta per le donne afghane” ha ricordato il marito, spiegando dove forse è nata la sua motivazione per diventare una delle dissidenti iraniane più temute dal regime: “Diversi familiari di Narges sono stati imprigionati o condannati a morte dopo l’insediamento della Repubblica Islamica”. Anche se è difficile capire dove nasca una forza così travolgente.
Narges Mohammadi, che è stata rilasciata dopo una reclusione di cinque anni nell’ottobre 2020, soffre di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni, paralisi parziale temporanea e un’embolia polmonare. Il suo libro sulla tortura bianca, scritto nella breve libertà ottenuta dopo un’operazione al cuore, inizia così: “Scrivo questa prefazione nelle ultime ore del mio permesso. Molto presto sarò costretta a tornare in prigione. Questa volta sono stata dichiarata colpevole a causa del libro che hai tra le mani: la tortura bianca”. Nell’ottobre del 2022 è stata condannata a 15 mesi di reclusione con l’accusa di “propaganda contro il sistema” per aver espresso il suo sostegno al diritto del popolo a manifestare. Detenuta con altre 300 donne nel carcere di Evin, scrive in continuazione lettere e appelli per gli arresti fatti dopo la rivolta scoppiata a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini. Ed è riuscita a mandare una lettera al Nouvel Observateur attraverso il marito Taghi Rahmani per far sapere al mondo come la galera di Evin fosse diventata un campo di battaglia, la notte del 15 ottobre.
A metà dicembre del 2022, sul suo profilo Instagram è apparso un post. “Il popolo iraniano ha pagato un prezzo altissimo per combattere la tirannia e il regime religioso. Stiamo assistendo a uno sforzo eroico per ottenere la democrazia e il rispetto dei diritti umani. E ora che le donne stanno sacrificando la propria vita per poter scegliere cosa indossare, è difficile parlare di libertà di espressione. Dopo anni di reclusione, io sono di nuovo in carcere, privata anche della possibilità di ascoltare la voce dei miei figli, ma ho il cuore pieno di passione e di speranza. Cerchiamo la vittoria e la sconfitta una volta per sempre della tirannia”. Sul suo profilo Instagram compaiono spesso messaggi su quanto accade nel carcere femminile di Evin, appelli per i condannati a morte o storie di donne arrestate per aver osato fare la guerra ad Allah e detenute senza un giusto processo. Una sorta di radio carcere che serve a misurare la temperatura della ribellione e della repressione del regime iraniano.
Il 6 ottobre 2023 Mohammadi ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”.

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