I funerali di Luigi Calabresi: il giovane Achille Serra è tra coloro che portano la bara (nel riquadro, oggi)
dal Corriere della Sera
Achille Serra:
«Io a Milano dal 1968, allora sì
era una città violenta, altro che oggi.
Adesso si esaspera la paura»
di Gianni Santucci
Achille Serra è un pezzo di storia della polizia. Non solo per i 39 anni di servizio. È stato vice capo. Poi prefetto di Palermo e Roma. A Milano è arrivato da funzionario nel 1968; è andato via nel 1990. È tornato da questore nel 1993, quando esplose l’autobomba in via Palestro. Non era in città all’inizio del 1999, l’anno dei 9 omicidi in 9 giorni, di cui ricorrono i 25 anni. Ma resta una personalità di eccezionale esperienza e competenza per una riflessione sulla sicurezza: di ieri e di oggi. «La violenza armata era uno stillicidio quasi quotidiano. Non si può neppure fare il paragone»
Come fu il primo impatto?
«Mi colpirono la nebbia e il costo della vita. Era il 1968».
E poi?
«Scoppiò la bomba di piazza Fontana. E iniziarono i decenni più violenti della storia della Repubblica».
Se ne rese conto subito?
«Non ce ne fu il tempo. Fenomeni criminali di impatto devastante esplodevano uno dopo l’altro. Toccavano ogni ambito della società».
Come si viveva a Milano?
«Non si viveva più. Sparavano nel mucchio. Rapivano. Rapinavano con i mitra. Una violenza che poteva toccare chiunque. La paura di quegli anni me la ricordo: la nostra, e quella delle persone».
Ecco, oggi: come si vive?
«Molto meglio. Rispetto a 30 o 40 anni fa, non si può neppure fare il paragone».
Eppure si parla spesso di Milano come Gotham City.
«Accostamento fuori misura. Un problema sicurezza esiste, non va negato: ma con la giusta proporzione».
Allora parliamo della città fra il 1968 e il 1993.
«Dopo piazza Fontana, ogni sabato ero in ordine pubblico: ogni sabato era una battaglia. Macchine incendiate, molotov, lacrimogeni. Nessuno usciva tranquillo».
Poi l’omicidio Calabresi.
«Dopo la morte di Pinelli, Calabresi veniva ucciso ogni giorno. Sui muri, sui giornali, sui documenti degli “intellettuali”. Fino all’assassinio».
Come lavoravate?
«La sequenza di eventi violenti sembrava inarrestabile. Iniziarono le Brigate rosse, poi le “nere”, seguite dai gruppi derivati. Si sparava all’operaio, al giornalista, all’industriale, al poliziotto. Oggi ricordiamo gli omicidi eclatanti, ma la violenza armata era uno stillicidio quasi quotidiano. Questo provocava una paura profonda. E pienamente giustificata dai fatti».
Come reagiva la città?
«Al culmine di quella paura il gioielliere Torregiani spara durante una rapina in un ristorante, all’inizio del ‘79. Muore un bandito. Torregiani viene ucciso dal gruppo di Cesare Battisti. Qualche settimana dopo sparano all’agente Campagna, sotto casa della fidanzata: diventato un obiettivo solo perché aveva accompagnato in questura uno dei fermati per l’omicidio Torregiani. Era una Milano in cui un poliziotto poteva essere assassinato per questo».
Alla violenza politica dedicavate tutti gli sforzi?
«Impossibile. In contemporanea, all’improvviso, iniziarono i sequestri di persona della ‘ndrangheta. Per avere un’idea: tra Milano e Lombardia ne ho trattati cento».
Si diceva che riguardassero solo i ricchi.
«Che c’entra. Il figlio di Alemagna era un bambino di 7 anni, preso all’uscita da scuola. Quando liberammo Carlo Lavezzari, lo trovai ridotto a uno scheletro, legato al letto, lo frustavano. C’era la corsa al body guard. Qualsiasi famiglia avesse la disponibilità, cercava di ingaggiare guardie private. Ma altri fenomeni emergevano altrettanto improvvisi, in contemporanea».
La droga?
«Un architetto mi chiese di aiutare la figlia, che aveva iniziato con l’eroina. Provai. Sperai. Arrestammo il fidanzato. Due mesi dopo, una volante la trovò morta su una panchina. L’eroina dilagava. In qualsiasi quartiere e strato sociale. I ragazzi si facevano per strada, morivano per strada, scippavano in strada per la dose. Nel frattempo Vallanzasca, Turatello ed Epaminonda sparavano. La paura delle persone era pienamente fondata».
Oggi si valuta la percezione di insicurezza.
«La percezione è argomento dei sociologi».
Perché molti considerano Milano insicura?
«Per colpa vostra».
Della stampa?
«Se a qualsiasi reato, anche piccolo, si dà un’eco spropositata, cresce il senso di paura: che non corrisponde al livello effettivo di criminalità. Il tema sicurezza ora è sfruttato in parte dalla stampa e in parte dalla politica. Il risultato è un’immagine esasperata».
Le obietteranno: sottovaluta.
«Tutt’altro. Nessuna sottovalutazione. Un problema sicurezza esiste. Basta pensare alla stazione di Milano, o Roma e altre città, di sera…».
Come si affronta?
«Se non si arriva a una riforma vera della giustizia con certezza della pena, e soprattutto immediatezza del processo, questi discorsi li faremo ancora per molti anni. Vale anche per le espulsioni».
Il problema è l’immigrazione?
«Che una parte molto significativa dei reati, soprattutto quelli di strada, sia commessa da immigrati è un fatto certificato dalle statistiche. Avrei preferito che il mio Paese avesse gestito un po’ meglio questo tema epocale».
In che termini?
«Ricordo un articolo della legge Bossi-Fini: Regioni, province e Comuni devono istituire centri per la formazione, l’avviamento scolastico e al lavoro, lo studio della lingua. Non ne ho mai visto uno. Sull’altro versante, mi limito a ricordare quel che mi disse un ministro romeno quando ero vice capo della polizia: “In tutta Europa s’è sparsa la voce che per la delinquenza da voi non si paga, o si paga con poca galera”».
Basta la sola repressione?
«In un incontro riservato da prefetto di Palermo dissi una frase che creò scalpore: “Se non avessi da mangiare per mia figlia, e una mano mi offrisse un panino, lo accetterei. Da chiunque”. La mafia, e ogni criminalità, si battono solo togliendo potere alla mano che offre quel panino. E con la scuola. Ma sulla povertà e sull’istruzione, la polizia non può far nulla».
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