Ecco come si potrà diventare preti in Italia

Mi chiedo a che cosa serve emanare Documenti, peggio ancora se ad ad experimentum per alcuni anni, tre nel nostro caso.
In questa Chiesa “acefala”, ovvero fuori di testa, si continua a proporre nuove iniziative ad esempio, come nel nostro caso, sulla pelle di seminaristi che, a guardare i fatti, di anno in anno non cambiano in meglio, anzi peggiorano: sono sempre più pochi e perciò da poteggere a tutti i costi, anche se gli ideali rimangono tali, scritti sui documenti (supposto che siano stati stilati con saggezza profetica), ma in realtà tra il proporre e la realtà c’è sempre di mezzo l’oceano.
A parte il problema dei giornali cosiddetti laici, nelle mani di imbecilli che evidenziano solo aspetti eccitanti la fantasia della gente, come nel nostro caso il problema dei gay, si tratta di documenti campati per aria, quando, per essere anche concreti, basterebbe che i seminaristi acquisissero un po’ di quel senso di responsabilità, che consiste in poche cose: fedeltà anche locale alla propria missione pastorale, apertura mentale quanto basti per fare una breccia nel muro dell’ostinazione di una massa del fuggi-fuggi, ma che ama il folclore o un contorno di abbellimenti esteriori.
La vera domanda dovrebbe essere questa: questi preti di oggi in realtà che cosa vogliono fare? distruggere la parrocchia, evadendo? ripristinare l’antico con la testa coperta dal tricorno, e vestendo la talare e cotte con pizzi dai costi che gridano vendetta al cospetto di Dio? oppure, buttarsi sui social per incantare la gente che, se si avvicina, è solo per il tempo che dura il fumo di una sigaretta?
E allora: i seminari come educano questi giovani, che entrano già con lauree o diplomi o esperienze d’ogni tipo, sapendo che sono “figli del loro tempo”? Non siamo più nel ’68, altri tempi in cui il prete si dava troppo al sociale, ma siamo nel secolo della tecnologia più avanzata e nel riflusso più spaventoso nell’individualismo più deleterio o nell’edonismo più dissacrante.
Questi giovani preti, buttati nelle parrocchie, che cosa trovano? E da dove dovrebbero partire per educare al meglio, ovvero evangelicamente, una massa pur piccola di fedeli rimasti sulla soglia, tra el gnacch e el petacch?
Quando parlo del senso del dovere, intendo anzitutto quel dovere che consiste nell’annunciare una parola, il Logos, che è essenzialità d’essere.
Questi giovani preti sembrano partire mettendo subito la quinta, restando in periferia o ai margini di un Vangelo che dovrebbe scombussolare anche le coscienze più ostinate.
Questi preti giovan i dovrebbero leggere ogni giorno la pagina dell’evangelista Giovanni che narra in modo sublime, ma Mistico d’altri tempi, l’incontro di Gesù con la donna di Samaria. In sintesi: ogni essere è come un pozzo profondo, in cui immergere la propria vocazione di fedeltà a quel Dio, purissimo Spirito, che richiede un radicale distacco a tutto ciò che è inutile, pastoralmente parlando.
Gesù, quando invia i discepoli per la loro prima esperienza pastorale, chiede loro di essere essenziali nel vestito e nella bisaccia che portano. Poveri in canna, diremmo oggi.
Si educa al senso del dovere educando alla essenzialità. Oggi si va in missione, nelle parrocchie, ricchi di ogni ben di dio, muniti di tutto, a differenza di noi preti di una volta che avevamo ben poco di tecnologico (un ciclostile, quando c’era), ma davamo l’anima, stando in mezzo alla gente, e la gente chiedeva questo: stare accanto a loro, prova indiscutibile del voler bene alla propria comunità.
Oggi si vorrebbe distruggere la parrocchia nella sua località. E si rimarrà con le ceneri in mano.
Non parlo dei preti “religiosi”, frati o altro, ma del clero diocesano, la cui spiritualità è strettamente… diocesana.
Certo, il Documento riguarda la formazione dei preti in genere e allora lasciatemelo dire: meglio mille volte i preti diocesani, pur con tutti i difetti di questo mondo, che i religiosi i quali se stanno nei loro conventi o sono impegnati nei campi della loro peculiare missione: fanno meno danni di quando assumono incarichi parrocchiali, o vanno a dare una mano ai parroci che ne hanno bisogno per celebrare Messe o altro.
Documenti ripetitivi, senza cuore, senza concretezza, di quella concretezza che stimola i fannulloni a uscire dal loro mondo borghese o gli imbecilli – anche la chiesa è fatta di imbecilli – che si buttano a testa capofitta nella merdaccia più folcloristica.
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da AVVENIRE
10 gennaio 2025
Nuovi percorsi.

Ecco come si potrà

diventare preti in Italia

Enrico Lenzi
Pubblicata la nuova edizione della Ratio nationalis dei Seminari, le norme che regolano i cammini formativi per i futuri sacerdoti. Manetti: più anni per il discernimento e i laici saranno coinvolti
Grande attenzione al «discernimento vocazionale», ma anche una formazione al presbiterato capace di offrire esperienze pastorali ai futuri sacerdoti, con un maggior coinvolgimento della comunità parrocchiale nel percorso di formazione. Sono alcune delle novità contenute nella Ratio nationalis per i Seminari italiani, pubblicato ieri sul sito della Conferenza episcopale italiana, promulgato dal presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi. «Si conclude un lungo cammino che come Chiesa italiana abbiamo compiuto in questi ultimi anni, ascoltando tutte le parti in causa e riflettendone molto insieme», spiega Stefano Manetti, vescovo di Fiesole e presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata, che firma la presentazione del testo.
Eccellenza cosa rappresenta questo documento per il mondo dei Seminari italiani?
È un documento che vuole aiutare i Seminari a camminare insieme; essere un punto di riferimento per i percorsi formativi dei Seminari, che progettano il proprio percorso formativo. La consultazione ci ha permesso di condividere le varie esperienze.
Quali sono i punti più innovativi previsti dal testo?
In effetti in testo promulgato non è un semplice aggiornamento della versione del 2006, ma un documento che riprende l’intera materia e cerca di dare risposte alle esigenze per formare un sacerdote ai giorni nostri. Tra le novità va segnalato che viene rimarcata l’unità della formazione come un unico e ininterrotto cammino. Altro aspetto di grande importanza è quello del cammino “discepolare”, cioè del sentirsi discepoli sia nell’itinerario di formazione in Seminario, sia nella formazione permanente durante il loro ministero presbiterale. Un aspetto, quest’ultimo, che significa accompagnare i sacerdoti a vivere al meglio il proprio ministero, aiutandoli nel discernimento per cogliere la volontà di Dio nel presente.
Discernimento e formazione appaiono come i fili rossi del documento. Frutto di una osservazione della società attuale?
In effetti il Seminario non si colloca fuori dal mondo. I ragazzi e i giovani che giungono nelle nostre strutture sono figli del mondo attuale. Proprio per questo il documento pone molta attenzione nelle fasi “propedeutica” e “discepolare” puntando alla costruzione del sé interiore dei ragazzi. Hanno bisogno di concentrarsi su se stessi in un rapporto educativo forte. Insomma prendere consapevolezza del proprio essere. E poi al termine di questo percorso triennale c’è la possibilità di una esperienza esterna al Seminario in ambito pastorale, caritativo e missionario in realtà ecclesiali.
E dopo tanto discernimento inizia il percorso formativo al sacerdozio?
Se il discernimento ha evidenziato davvero una vocazione l’avvio della terza fase, denominata “configuratrice”, rappresenta proprio l’ammissione al percorso che porterà al diaconato e al sacerdozio. In questa fase i seminaristi devono essere accompagnati a una graduale conoscenza del popolo di Dio: devono imparare a stare tra la gente, a relazionarsi con loro, devono essere uomini di relazione e di comunione. Anche in questa fase è previsto il coinvolgimento anche di altri soggetti, tra cui i laici. È una istanza emersa nella fase di ascolto del Cammino sinodale della Chiesa italiana
In questi anni crescono le vocazioni adulte. Cosa suggerite nel documento ai Seminari?
Anche in questo caso è quanto mai importante l’anno propedeutico con una grande fase di discernimento proprio per comprendere se ci troviamo davanti a una vocazione sincera. Anche in questo caso la comunità parrocchiale di riferimento diventa significativa nel discernimento.
Ma le comunità parrocchiali sono consapevoli del ruolo svolto?
Occorre ancora crescere in questa consapevolezza. Ma è anche importante che i seminaristi si trovino a vivere l’esperienza dentro una parrocchia, che non deve essere perfetta, ma vera, proprio perché possano imparare a vivere le situazioni che potranno trovare.
Un altro elemento su cui si insiste molto è anche la comunità presbiterale. Perché?
Perché quando diventi sacerdote entri in una comunità presbiterale, cioè la comunità dei tuoi confratelli, con saper vivere e lavorare. Una fraternità basata sulla paternità sacramentale.
Il documento affronta anche il tema degli abusi. Cosa si propone nella formazione dei seminaristi?
Il suggerimento è di adottare il sussidio preparato dalla Cei proprio sul tema, perché è un ottimo strumento di formazione per la prevenzione.
Tanti temi sul tavolo, dunque. Ma i Seminari sono pronti a mettere in atto queste indicazioni?
Questa Ratio è anche frutto del Cammino sinodale che stiamo ancora vivendo. Ed è frutto di una riflessione anche interna ai Seminari che stanno ragionando sul proprio futuro. Questo documento è ad experimentum per tre anni e inoltre una delle commissioni volute dal Papa sul post Sinodo riguarda proprio il futuro dei Seminari. Il discorso è aperto.
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Ratio_Nationalis

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