11 febbraio 1979, il giorno di Khomeini: dalla leadership alle masse, i punti di forza che mancano all’Iran oggi

da www.huffingtonpost.it
11 Febbraio 2023

11 febbraio 1979, il giorno di Khomeini:

dalla leadership alle masse,

i punti di forza che mancano all’Iran oggi

di Nadia Boffa
Viaggio nel contesto in cui è nata la rivoluzione “inimmaginabile”, che doveva portare la democrazia e finì nella teocrazia. Per capire le ragioni per cui le proteste attuali, per ora, non hanno avuto così presa sulla popolazione
Era l’11 febbraio del 1979. Con la fuga del primo ministro Bakhtiar dopo il disimpegno dell’esercito dalla lotta, l’Ayatollah Khomeini scendeva dal ciclo di Teheran tra i milioni di seguaci che lo attendevano in delirio. Quei seguaci che hanno sfidato l’ennesimo coprifuoco deciso dalla monarchia per accoglierlo, dopo ben quindici anni di esilio. Era la fine della monarchia e l’inizio di quel processo denominato dalla storiografia “Rivoluzione islamica”, che ha portato alla nascita della Repubblica islamica dell’Iran e che è durato più di 40 anni. Oggi, 11 febbraio, per la precisione, è il 44esimo anniversario della Rivoluzione che ha cambiato la storia dell’Iran, con ripercussioni importanti nella regione del Medio Oriente, e in generale in tutto il mondo. Oggi i manifestanti che da settembre protestano contro il regime teocratico hanno organizzato scioperi e manifestazioni e hanno cercato di boicottare ogni celebrazione dell’anniversario della Rivoluzione. Ma alla luce della difficoltà che stanno vivendo ormai da settimane le proteste anti-governative, che non riescono ancora a trasformarsi in una rivoluzione, vale la pena analizzare uno degli eventi di massa più significativi del secolo scorso. Un fenomeno che si è verificato quasi nell’inconsapevolezza, incredulità totale del popolo iraniano, a cui interessava solo di allontanarsi dall’assolutismo monarchico e intraprendere un processo verso la democrazia e che non avrebbe mai pensato che la Rivoluzione portasse poi ad una teocrazia islamica. La verità è che la società iraniana, ma anche l’intera comunità internazionale, hanno sottovalutato le potenzialità di questo fenomeno e soprattutto la pericolosità di quella che è diventata, più tardi, la leadership della rivoluzione, il clero combattente con il suo capo, l’Ayatollah Khomeini. Proprio la leadership è uno degli elementi importanti che differenziano quella rivoluzione dalle rivolte anti-governative organizzate in Iran da settembre, che invece non sono riuscite, per il momento, a trasformarsi in un movimento più ampio, a causa della mancanza di una organizzazione e di una direzione precisa.
Innanzitutto è fondamentale capire il contesto in cui è nata la Rivoluzione. Il popolo iraniano da anni covava un forte sentimento di stanchezza verso una monarchia sempre più autoritaria, rappresentata in particolare dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, il re che governava in Iran dal 1941. Il popolo pativa molto il forte divario tra l’élite molto ricca e la maggior parte della popolazione che si trovava invece in condizioni di estrema povertà e non poteva accedere a quei privilegi tanto decantati dalla monarchia. Le condizioni del popolo in effetti erano sempre più precarie. Nel 1963 lo scià aveva avviato la cosiddetta “rivoluzione bianca”, un programma molto ampio di riforme e modernizzazione dell’Iran suggerite dall’amministrazione statunitense di John F. Kennedy – allora importante alleato del regime iraniano – per anticipare le spinte di cambiamento che già si intravedevano e che avrebbero potuto far guadagnare consensi all’opposizione comunista. Le politiche della riforma agraria però sono state un netto fallimento. “Lo scià ha dato appezzamenti ai contadini piccoli e non produttivi. I finanziamenti bancari concessi ai piccoli imprenditori agrari erano insufficienti a garantire lo sviluppo delle attività economiche. Inoltre c’erano diversi contenziosi perché erano stati espropriati molti terreni al clero” spiega ad Huffpost Nicola Pedde, direttore dell’IGS, l’Institute for Global Studies. “Di fatto la riforma agraria ha comportato una forte crisi del settore agrario e in pochi anni la società iraniana ha subìto una totale trasformazione. La maggioranza del popolo, che era rurale, si è spostata in direzione delle città. Le grandi periferie delle città iraniane hanno iniziato ad essere sovrappopolate dal ceto medio-basso. Le città sono diventate sacche di povertà” continua l’esperto. Tale clima è andato ad aggravarsi con la concomitante crisi economica provocata dallo shock petrolifero del 1973, che ha avuto ripercussioni quasi immediate su tutti i paesi produttori di petrolio.
In tali condizioni, proprio all’interno delle periferie sottosviluppate, ha cominciato a maturare un forte sentimento anti-monarchico che si è espresso attraverso alcuni movimenti politici. Tra questi i principali erano il movimento comunista iraniano, il Tudeh, il movimento islamico-marxista, e poi le formazioni marxiste e leniniste, ad esempio i cosiddetti Fedayyin-e khalq, ossia i volontari del popolo. Si trattava di formazioni di ispirazione marxista formati sia da studenti universitari che da operai. Poi c’erano le formazioni di fedeli che hanno assunto profili via via sempre più ostili alla monarchia, soprattutto i Mojahedin del Popolo Iraniano, che hanno organizzato poi importanti attacchi, attentati contro la monarchia. Ecco perché all’inizio si trattava di una rivoluzione “popolare”, perché era un movimento di massa, che non si riconosceva nella sola componente islamica. “Io preferisco chiamarla Rivoluzione iraniana perché è partita coinvolgendo frange ampie della popolazione che si sono unite. Era una rivoluzione popolare composta da movimenti studenteschi, lavoratori provenienti da tutti i ceti sociali, poi gruppi islamisti legati alla lotta armata, ma anche legati ad altri ambienti” spiega ad Huffpost Rassa Ghaffari, esperta di Iran e Medio Oriente, assegnista all’Università di Genova. Ma c’erano altri elementi che hanno portato il popolo a contrastare la monarchia. La gente aveva sviluppato una certa avversione verso i tentativi di occidentalizzazione attuati dal monarca. Era da diversi anni che i religiosi che si opponevano allo scià usavano questo argomento per screditare il regime. L’avversione verso l’Occidente, e in particolare verso gli Stati Uniti, era diventata sempre più diffusa dal 1953, quando lo scià aveva ripreso il controllo del paese grazie a un colpo di stato contro il governo nazionalista di Mohammed Mossadegh, a cui avevano partecipato anche i servizi segreti statunitensi e britannici. Tutto questo ha contribuito a creare uno scollamento tra popolo e monarchia, ad aizzare il popolo contro la monarchia.
In tutto ciò l’apparato della monarchia era sempre più debole, lo scià non riusciva a reagire a ciò che stava accadendo e questo ha contribuito ad aggravare la crisi e portare la rivoluzione al successo. Lo scià era un malato terminale a causa di un cancro al sistema linfatico, tenuto segreto fino all’ultimo. “Lo scià aveva problemi di salute evidenti e cercava di gestire la politica nazionale tentando di effettuare un passaggio di consegne al figlio che però era ancora minorenne. Dunque il passaggio era impossibile. Ad un certo punto si è anche parlato di cambiare la Costituzione per dare i poteri alla regina, la moglie dello Scià, Farah Diba. Il problema era che lo scià aveva creato un sistema talmente assoluto, incentrato su di sé, che nel momento in cui lui ha iniziato ad avere difficoltà nel prendere decisioni, l’intero sistema è entrato in crisi” afferma Pedde.
La Rivoluzione, come sottolinea Pedde, è stato un processo lento. È iniziato sottotono, con attività di protesta sporadiche e attività di repressione della protesta da parte della polizia dello scià. Solo con il perdurare della crisi dell’economia e della monarchia, verso la fine degli anni ’70, le proteste si sono trasformate in una vera e propria attività rivoluzionaria. Nel ’78, che è il vero anno rappresentativo della rivoluzione, l’anno culmine del fenomeno, si sono verificati due episodi in particolare che hanno radicalizzato lo scontro tra le forze di opposizione e la monarchia. Il 19 agosto del 1978 un incendio doloso nel cinema Rex di Abadan, nel sud-est del Paese, ha ucciso oltre 400 persone. L’incendio è divampato perché sono state chiuse le uscite d’emergenza. “Le forze dell’opposizione hanno accusato la monarchia dell’accaduto. Chiaramente la responsabilità non è stata della monarchia, ma probabilmente delle forze di opposizione. Nella percezione popolare però l’incendio del cinema è stato l’atto criminale finale dello scià contro gli oppositori ed è stato trasformato nell’evento chiave, il culmine, da cui sono nate le ingenti manifestazioni di piazza. Da quel momento ci sono sempre più proteste in strada contro il regime” osserva Pedde. Il secondo evento chiave è quello che è accaduto nel settembre del 1978, quando i manifestanti si sono scontrati a Teheran con l’esercito. L’Iran non era attrezzato per gestire fenomeni di ordine pubblico. I militari sono stati schierati nelle strade dal monarca, ma non avevano la capacità di gestire manifestazioni di piazza. È accaduto, e ancora oggi non si conoscono le reali motivazioni, che lo scià ha autorizzato la polizia a sparare sui dimostranti confluiti in piazza Jaleh, a Teheran. L’evento, passato alla storia come il “Venerdì nero”, ha rafforzato il fronte dell’opposizione. “Le forze d’opposizione hanno parlato di strage, di centinaia di morti. Probabilmente il numero di vittime è stato decisamente inferiore, ma questa è stata la miccia di quella che sarebbe diventata la vera rivoluzione. Dall’8 settembre le manifestazioni sono diventate quotidiane ed è iniziato il processo rivoluzionario” chiarisce Pedde.
I due episodi sono un passaggio chiave nella rivoluzione che ha determinato la caduta dello scià, soprattutto perché è contemporaneamente a questi eventi che Khomeini, esiliato nel 1963 per aver assunto un ruolo sempre più importante nell’opposizione al regime, ha ricominciato a far sentire, pian piano, la sua voce e la sua presenza. L’Ayatollah, dall’Iraq, ha iniziato a produrre una serie di invettive contro la monarchia, diversi sermoni che venivano registrati su cassetta e distribuiti in Iran. La voce di Khomeini è diventata ben presto la voce delle proteste, l’immagine pubblica della Rivoluzione. Per capire quanto il popolo in poco tempo è arrivato a vedere in lui la figura da leader basta ricordare che l’8 gennaio del 1978 il quotidiano governativo Ettelaat ha pubblicato un editoriale che denigrava il principale oppositore dello scià Pahlavi, per l’appunto Khomeini. E l’editoriale è stato giudicato dal popolo molto offensivo nei confronti del capo della comunità sciita iraniana e verso la religione. Così l’articolo ha dato un ulteriore forte impulso alla protesta.
Tutti i partiti che hanno concepito la Rivoluzione a quel punto appoggiavano la narrativa religiosa. Anche le forze comuniste, pensando che il clero fosse la bandiera di questa rivoluzione. Le forze religiose sono diventate in pochissimo tempo il motore organizzativo di tutta la dinamica rivoluzionaria. L’apparato dello Stato intanto si paralizzava sempre più. Quando stava crollando tutto lo scià ha tentato l’ultima mossa disperata, ha lasciato il Paese, ufficialmente per un periodo di vacanza, ma non è mai più tornato. E ha nominato come primo ministro Shapur Bakhtiar, per tentare di avviare un governo di transizione e trovare un tentativo di pacificazione con le forze rivoluzionarie. Bakhtiar ha provato a calmare le proteste indicendo libere elezioni e abolendo le misure restrittive sulla stampa. Ma era troppo tardi, la Rivoluzione aveva ormai vinto. “Il 15 gennaio le forze armate hanno dichiarato la propria neutralità e hanno affermato che non sarebbero intervenute nel processo rivoluzionario. Questa è stata la pietra tombale per il governo di Bakhtiar. Al tempo stesso è stato prima ritardato, poi bloccato, ma alla fine autorizzato, il trasferimento in Iran di Khomeini che negli ultimi mesi aveva lasciato l’Iraq e si trovava a Parigi” afferma Pedde. Khomeini non ha riconosciuto il nuovo governo ed è ritornato a Teheran il 31 gennaio del 1979, accolto da manifestazioni di gioia che si sono moltiplicate per tutto il Paese. Quando lui è tornato in Iran c’era una situazione paradossale in cui Bakhtiar era ancora formalmente primo ministro, ma il Paese non obbediva più al governo. Per alcuni giorni c’è stato un braccio di ferro tra i due, poi Bachtiar è fuggito e Khomeini è stato riconosciuto come figura di leader del Paese e come icona dell’ideologia rivoluzionaria. Di lì a poco, il 30 marzo, si è tenuto il referendum che ha portato alla nascita della Repubblica islamica, con il 98% dei voti a favore.
Ciò che ha compiuto Khomeini ha in effetti dell’incredibile. Il gruppo del clero a cui lui faceva capo non era la parte apicale del clero sciita, Khomeini insomma non era una figura religiosa di riferimento. Eppure è riuscito, dall’esilio, dunque lontano dal popolo, ad affascinare la maggior parte della popolazione. Al suo ritorno in patria c’erano 4 milioni di persone ad aspettarlo all’aeroporto. Lui però, durante il viaggio verso casa, ad un giornalista che gli ha chiesto che cosa provasse a tornare in patria, ha risposto glacialmente: “Niente”. Khomeini è stato in grado, insieme alle altre cose, di capitalizzare la popolarità delle idee di Ali Shariati, una delle figure chiave nella definizione dell’ideologia rivoluzionaria. Un intellettuale di formazione occidentale, ispirato dalle opere di studiosi marxisti e anticolonialisti, che si proponeva di far convergere il marxismo con l’islamismo. Khomeini così ha portato avanti quello che può essere definito “populismo islamista”. “Khomeini era una figura carismatica perché ha portato una visione molto innovativa del ruolo del clero. Perché il clero sciita si è sempre caratterizzato per la decisione di non interferire con gli affari dello Stato. Lui ha proposto una visione molto innovativa, molto rivoluzionaria e infatti all’interno del mondo islamico non è stato subito accolto bene, la componente dei sunniti subito si è chiesta che cosa stesse succedendo” spiega Ghaffari. La gran parte degli iraniani – ma anche della comunità internazionale – considerava, a quel punto, incredibilmente, Khomeini come icona della democrazia.
C’è un libro dal titolo “The Unthinkable Revolution in Iran”, del 2009, di Charles Kurzman, che racconta che cosa è stata per gli iraniani la Rivoluzione, e spiega che il popolo non si è reso conto fino alla fine che si stesse veramente verificando questo processo, e soprattutto il popolo ha mal interpretato il ruolo della componente del clero che poi è diventata leader della Rivoluzione, ha ignorato il pensiero politico di Khomeini. “Nessuno aveva letto i suoi libri scritti nell’esilio in cui aveva definito i caratteri esatti della Repubblica islamica. Lui aveva in mente il suo progetto già da diversi anni, ma il popolo iraniano vedeva in lui una figura democratica” aggiunge Pedde. La Rivoluzione del 1979 si può definire allora “inimmaginabile, impensabile” perché era, nella mente del popolo iraniano, qualcosa di totalmente diverso da ciò che poi si è verificato nella realtà. “Il popolo voleva come esito la democrazia e si è trovato di fronte a tutt’altro” commenta Ghaffari. Anche la comunità internazionale e in particolare i Paesi occidentali non hanno riconosciuto subito la pericolosità di Khomeini. Gli stessi americani, come spiega Pedde, erano dell’idea che tutto sommato “era inevitabile trattare con lui, tanto che lo scià si è lamentato di ciò”. In un pezzo del New York Times intitolato “Trusting Khomeini”, pubblicato due giorni dopo la vittoria della Rivoluzione Islamica, l’autore, Richard Falk, scriveva di come l’Ayatollah potesse fornire “un modello di governo umano di cui c’era un disperato bisogno per un Paese del terzo mondo”. All’epoca c’erano diversi funzionari americani che sostenevano che Khomeini fosse il “Gandhi” dell’Iran.
L’inconsapevolezza, incredulità del popolo è continuata nei mesi immediatamente successivi, quando si sono tenuti i due referendum che hanno cambiato la storia dell’Iran. Il primo, che si è tenuto a marzo, chiedeva agli iraniani se volessero mantenere il sistema esistente o diventare una Repubblica Islamica. Ha vinto, con il 98,2% dei voti, la seconda opzione. Come ha scritto tempo fa il giornalista Max Fisher sul New York Times, è stato di fatto “un voto sulla rivoluzione, non sul sistema da adottare”. Molti pensavano che Khomeini si sarebbe ritirato presto nella città santa di Qom, lasciando la gestione della politica post-rivoluzionaria ad altri gruppi meno fanatici ed estremisti. “La gran parte degli iraniani che ho incontrato mi hanno detto tutti la stessa cosa: ‘noi eravamo laici. Nessuno di noi pensava che il clero avrebbe mai potuto realmente imporsi come forza politica e cambiare il costume del Paese” racconta Pedde. Il secondo referendum si è tenuto a dicembre, per approvare la nuova Costituzione basata sul velayat-e-faqih, il sistema che regola ancora oggi l’assetto istituzionale dell’Iran. Per molti iraniani la proposta della nuova Costituzione era in un certo senso accettabile. Il nuovo sistema era dominato da organi formati da religiosi e con a capo la potente Guida suprema – che allora era Khomeini – ma prevedeva anche istituzioni democratiche ed elettive, come il presidente della Repubblica e il Parlamento nazionale. Creava una specie di dualismo tra democrazia e autoritarismo e per questo il popolo l’ha considerata “accettabile”.
Nelle caratteristiche della Rivoluzione del 1979 sono rintracciabili molte delle motivazioni per cui le proteste di oggi, per ora, non hanno avuto così presa sulla popolazione. In quel processo c’è stata una mobilitazione di massa, che ha coinvolto tutti i settori della popolazione, elemento che oggi invece non si è vista. Tale mobilitazione è stata così ampia da creare fratture importanti all’interno delle forze armate, altro elemento che oggi non si è verificato. Poi, nella Rivoluzione del ’79 c’era la presenza di una leadership, che ha preso il potere tardivamente, ma è riuscita comunque a dare un’organizzazione, un obiettivo, un programma alla Rivoluzione. Peraltro quella leadership non proveniva neanche dall’interno dell’Iran, ma da fuori, da un personaggio in esilio. E allora anche qui si può tentare un paragone con la diaspora iraniana di oggi, che da fuori l’Iran, tenta di porsi a capo delle proteste. “Anche ora ci sono figure della diaspora che tentano di emergere. Ma sono figure non abbastanza carismatiche, che non hanno presa sulla popolazione perché non c’è un vero consenso su quella che vuole essere la rivolta” spiega Ghaffari. “Il tentativo da parte della diaspora di affermare che rappresenta la società iraniana è un fenomeno ricorrente, che si è verificato anche nel 2019. Ma è pericoloso perché la società iraniana è talmente sviluppata e ricca che non si fa imporre modelli dalla diaspora iraniana e questo andava compreso nelle prime fasi della protesta” dice Pedde. Ma ancora adesso, in questo tentativo di rivoluzione, è insita quella componente di imprevedibilità di tutte le potenziali rivoluzioni. “È sempre il potere a provocare la rivoluzione. (…) Ciò avviene quando tra i personaggi dell’élite si instaurano il senso di impunità e la convinzione di poter fare qualunque cosa, di potersi permettere tutto” scriveva il grande inviato di guerra e scrittore polacco Ryszard Kapuscinski. E poi aggiungeva: “Il popolo pazienta e tace. (…) Tirerà le somme nel momento debito. La scelta di questo famoso momento è uno dei massimi enigmi della Storia”.

1 Commento

  1. Giuseppe ha detto:

    Non è la prima volta nella storia che qualcuno ha approfittato del malcontento e cavalcando i disordini di piazza e i moti insurrezionali ha preso il potere ingannando i suoi stessi seguaci…

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