da www.repubblica.it/
12 NOVEMBRE 2024
La parrocchia di Gaza:
“Circondati dalle bombe, noi non ce ne andiamo”
dalla nostra inviata Francesca Caferri
La Sacra Famiglia è l’unica chiesa cattolica di Gaza. Oggi ospita 500 cristiani e la loro situazione da quando Israele ha lanciato la nuova offensiva è peggiorata
GERUSALEMME — Dal telefono arriva il rumore costante dei droni israeliani. Padre Gabriel Romanelli all’inizio ci scherza su: «Li sente anche lei? Non ci lasciano mai soli». Poi si fa serio e prosegue: «La gente qui non ne può più. Averli sulla testa è uno stress continuo, che si aggiunge alla paura, alla mancanza di una casa, di medicine e naturalmente di cibo e di acqua. Un mese fa, grazie agli aiuti che ci arrivano dal Patriarcato latino di Gerusalemme, abbiamo distribuito per la prima volta in un anno un pollo e un cartone di uova a famiglia. E un po’ di verdura: per la prima volta in un anno. Si immagina che vuol dire?».
Padre Romanelli parla dalla parrocchia della Sacra famiglia, l’unica chiesta cattolica di Gaza, diventata il rifugio dell’intera comunità cristiana della Striscia, ortodossi e cristiani. Dal 5 ottobre — quando Israele ha lanciato una nuova offensiva sul Nord di Gaza seguendo le indicazioni del “piano dei generali” che prevede di svuotare l’area anche a costo di lasciare chi ci vive senza cibo né cure — per i 500 cristiani rinchiusi nel compound la situazione è ulteriormente peggiorata.
La parrocchia è a un passo dalle zone dei bombardamenti più intensi: Jabalia — dove due giorni fa sono state uccise trenta persone — è a 4 chilometri. Nuseirat — dove ieri i morti sono stati venti — alla stessa distanza ma dal lato opposto. A dividere il compound da queste zone ci sono solo spianate di macerie. «I palazzi sono distrutti: e questo fa sì che il rumore delle bombe arrivi ancora più forte, perché nulla lo attutisce», spiega padre Romanelli. E ancora: «Al contrario di alcune delle aree che ci circondano, non abbiamo ricevuto un ordine di evacuazione. Ma ci hanno fatto sapere che siamo in zona rossa e ci hanno indicato due corridoi umanitari per lasciare l’area». Nessuno li ha usati. «Per andare dove?», si chiede il sacerdote. «Non ci sono zone sicure a Gaza. E qui c’è moltissima gente che non può spostarsi: per primi i 58 bambini portatori di handicap o di patologie gravi che le suore di Madre Teresa assistono nella loro struttura. Poi gli anziani, i malati. Gli israeliani questo lo sanno benissimo».
Tutto ciò non ha risparmiato la Sacra famiglia dall’orrore della guerra. Nel dicembre scorso, due donne furono uccise da un cecchino nel cortile della chiesa, qualche settimana fa un’esplosione ha danneggiato uno dei muri del compound: solo il caso ha voluto che in quel momento non ci fosse nessuno. Neanche allora qualcuno ha varcato i cancelli del compound. «Prima dell’offensiva c’erano persone che uscivano, magari andavano a controllare le loro case e tornavano. Adesso no, troppo pericoloso. Noi non andremo via: abbiamo la fede e ad essa ci attacchiamo. È così dall’inizio: attorno alla chiesa abbiamo cercato di creare una bolla. C’è la cucina che prepara pasti per tutti, si fanno i turni per lavare i vestiti, abbiamo classi per far studiare i bambini e momenti di gioco dopo la scuola. Ci sono le messe e recitiamo il rosario tutte le sere, in attesa della telefonata del Papa che ci chiama tutte le sere alle otto. Quando arrivano gli aiuti mandati dal Patriarcato e dei Cavalieri dell’Ordine di Malta, distribuiamo cibo anche alle persone del quartiere».
Ma fino a quando questa piccola comunità potrà resistere? «Non spetta a noi dirlo. Preghiamo e restiamo aggrappati alla nostra chiesa. Quello che chiediamo è solo pace», conclude il sacerdote.
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