
dal Corriere della Sera
13 gennaio 2025
Oliviero Toscani è morto, aveva 82 anni. Gli inizi, da Zurigo all’America, le campagne choc e gli incontri
di Elvira Serra
Oliviero Toscani, fotografo che non temeva di scandalizzare, è morto oggi, 13 gennaio: aveva 82 anni e nel 2024 aveva rivelato di essere stato colpito dall’amiloidosi. Quando disse: «Non voglio essere ricordato per una foto, ma per l’insieme, per l’impegno»
Quando la malattia gli presentò il conto, Oliviero Toscani – morto oggi nell’ospedale di Cecina, all’età di 82 anni – ammise di essere stato «particolarmente privilegiato e fortunato». Anzitutto ad esser nato dove era nato, in una famiglia «laica e libera».
Suo padre, Fedele Toscani, fotografo del Corriere della Sera, aveva immortalato il Duce mentre faceva pipì sul lungomare di Rimini (lo scatto lo aveva venduto alla Keystone, per i giornali inglesi), ma, soprattutto, aveva filmato e fotografato i corpi di Benito Mussolini e di Claretta Petacci appesi a testa in giù in piazzale Loreto. Sua madre, Dolores Cantoni, aveva cominciato a lavorare a sei anni, spostando i capi nella camiceria dove la nonna cuciva. Raccontava sempre che gli aveva dato al massimo cinquanta baci in tutta la vita, e forse questo spiegava i suoi modi ruvidi e un po’ burberi. E poi c’erano le sorelle maggiori, Marirosa e Brunella, di 11 e 9 anni più grandi di lui. Due vicemamme, soprattutto la primogenita, che lo aveva introdotto all’architettura e alle arti, incoraggiandolo nella fotografia.
Era nato il 28 febbraio 1942. E rischiò di venire al mondo sui gradini del Tribunale di Milano, se i passanti non avessero accompagnato subito la madre alla clinica Mangiagalli. Lo stesso anno, durante i bombardamenti, finì in una scatola di cartone della pasta, dove lo aveva messo la mamma mentre correva per le scale per ripararsi in cantina. Frequentò il Parini per fare un dispetto all’insegnante che aveva suggerito ai suoi genitori di fargli imparare subito un mestiere, dopo la scuola dell’obbligo. In effetti la scuola la seguì a modo suo, preferendo passare le mattine al cinema, a imparare le lingue straniere guardando i film americani e francesi. Contro ogni previsione, dopo, riuscì a farsi ammettere all’Università delle Arti di Zurigo, con maestri come Karl Schmid, Franz Zeier, Serge Stauffer, dove imparò a guardare oltre e «a fare pipì in modo diverso», come scrisse nell’autobiografia pubblicata dalla Nave di Teseo, Ne ho fatte di tutti i colori.
Veniva da una generazione, quella di Bob Dylan, che si sentiva invincibile e per sempre giovane. Era stato così anche per lui, almeno fino all’ottantesimo compleanno, quando per la prima volta aveva sentito il peso di tutta la vita che aveva attraversato correndo. Da Andy Wharol a Lou Reed, da Fidel Castro a Muhammad Ali, da Patti Smith a Dylan Thomas, questi personaggi lui non li aveva solo fotografati, li aveva frequentati. E proprio in onore del pugile statunitense aveva chiamato l’ultimogenita Ali.
A noi disse che non voleva essere ricordato per una foto in particolare, «ma per l’insieme, per l’impegno: non è un’immagine che ti fa la storia, è una scelta etica, estetica, politica da fare con il proprio lavoro». E infatti non faceva distinzioni tra i giornali e la pubblicità. Il suo approccio era lo stesso: «Se ti metti a cercare un’idea non hai capito nulla di come funziona. O hai una prospettiva, la tua, o non ne hai nessuna». E dalla sua prospettiva nel 1965 fotografò le ragazzine indemoniate al concerto dei Beatles al Vigorelli di Milano (quando afferrò al volo un plettro saltato a John Lennon) o, negli stessi anni, le studentesse vestite da marinarette su una bicicletta per una campagna dell’Eni (quando strappò il compenso monstre di 300 mila lire a foto per dieci scatti, e ai tempi una Fiat 500 ne costava 540 mila).
A New York ci arrivò poco più che ventenne e per la Pan Am girò il mondo tre volte. Dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta fu il primo fotografo pendolare tra l’Europa e l’America. Perfino quando con Kirsti, l’ultima moglie, l’amore di una vita e la madre dei suoi tre figli più giovani, si trasferì in Maremma, agli inizi degli anni 80 – inseguendo forse la felicità sperimentata a Clusone dove la sua famiglia si era rifugiata per fuggire ai bombardamenti – dalla cabina telefonica di Casale Marittimo riusciva a organizzare trasferte in tutto il mondo.
Lavorò con Anna Wintour e, al colmo dell’esasperazione, le suggerì di cercarsi un bravo psichiatra (lei poi ne sposò uno, il matrimonio resse per quindici anni). I suoi scatti sono finiti su tutti i principali magazine del mondo: Elle, Vogue, Queen, Harper’s Bazar. Le top model, da Claudia Schiffer a Naomi Campbell a Cindy Crawford, le aveva fotografate tutte quando ancora non erano nessuno. E amava raccontare di essere stato lui a portare Monica Bellucci per la prima volta da Milano a Parigi.
Restano iconiche certe campagne di moda che portano la sua firma. «Chi mi ama mi segua», per Jesus Jeans (aveva suggerito lui il nome a Maurizio Vitale, guardando l’insegna del musical Jesus Christ Superstar a Time Square), scomodò perfino un commento di Pier Paolo Pasolini sul Corriere (l’episodio lo convinse che la pubblicità non era solo pubblicità). Per il progetto «Tutti i colori del mondo», che sarebbe poi diventato United Colors of Benetton, fece indossare i maglioni colorati dell’azienda tessile veneta a modelli eschimesi, bantu, scandinavi, asiatici e americani. Una rivoluzione nata dal sodalizio professionale che si trasformò in amicizia fraterna con Luciano Benetton. Mentre fecero il giro del mondo la foto scandalo della modella anoressica Isabelle Caro, ritratta nuda per la campagna «No Anorexia» dell’azienda padovana Nolita, come pure le campagne contro l’Aids fatte usando i preservativi per Benetton.
Ma se chiedevate a lui di quale fosse più orgoglioso, rispondeva con il lavoro fatto a Sant’Anna di Stazzema per i sessant’anni dell’eccidio: forse era un piccolo risarcimento al nonno materno, reduce di Caporetto, che sotto il regime pasteggiava a olio di ricino.
Provocatorio, contrario per principio al politicamente corretto, alcune uscite gli procurarono violenti critiche. Come quando a Un giorno da pecora, su Radio Uno, a proposito del Ponte Morandi, se ne uscì con: «A nessuno interessa che caschi un ponte». Intendeva dire: «Chi mai poteva guadagnarci da una tragedia simile?». Ma ormai il danno era fatto. E si inimicò tutta Salemi, dove nel 2008 era stato nominato assessore alla creatività da Vittorio Sgarbi, quando si dimise dopo due anni con una lettera che sanciva: «Salemi rimarrà terremotata per sempre. È così che i suoi cittadini la vogliono».
Ha avuto tre donne importanti: Brigitte, la madre del primogenito Alexandre; Agneta, mamma di Olivia e Sabina; e Kirsti, la mamma di Rocco, Lola e Ali. Di lei scrisse: «È la persona che mi conosce di meno sulla faccia della terra, forse per questo penso che mi ami. Kirsti è la donna della mia vita, l’unico grande vero amore, così grande che non si può neppure nominare».
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da Il Corriere della Sera
13 gennaio 2025
Le fotografie di Oliviero Toscani,
realismo e provocazione:
«Voglio svegliare dall’indifferenza»
di STEFANO BUCCI
Figlio di un reporter storico del giornale, aveva pubblicato sul «Corriere» la sua prima fotografia: il volto di Rachele Mussolini
«Oggi tutti fanno fotografie, ma nessuno è più un fotografo» aveva confessato Oliviero Toscani, morto oggi – 13 gennaio – a 82 anni, quando presentò la collana «La nuova fotografia» che aveva curato per il «Corriere». Secondo l’uomo delle campagne pubblicitarie per United Colors of Benetton e della campagna choc contro l’anoressia con la modella e attrice francese Isabelle Caro, tutto insomma «era ormai finito». Ma si capiva che non era così, che per lui la fotografia non avrebbe mai potuto dissolversi nel nulla, sarebbe magari cambiata, ma sarebbe sempre e comunque rimasta necessaria. Come avrebbe potuto pensare altrimenti? Lui, figlio di uno dei fotoreporter storici del Corriere della Sera (Fedele, 1909-1983)); lui che a sei anni aveva ricevuto in regalo la prima macchina fotografica (una «Rondine» della Ferrania); lui che a quattordici anni aveva pubblicato (ancora sul Corriere) la sua prima foto, quando, accompagnando il padre che testimoniava la tumulazione di Mussolini a Predappio, aveva «fermato» il volto dolente di Rachele Mussolini; lui che era fratello di Marirosa (1931-2023) e cognato di Aldo Ballo (1928-1994), fondatori dello studio Ballo&Ballo, uno dei più importanti studi fotografici di architettura, interni, design.
Quelli di Oliviero Toscani (nato a Milano il 28 febbraio 1942, studi prima al Liceo Vittorio Veneto di Milano e poi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo) non sono mai stati semplici scatti (termine che disprezzava profondamente) ma racconti per immagini capaci di rompere gli schemi più consolidati (della fotografia, della moda, dell’impegno sociale). Realismo, semplicità, provocazione, nessuna concessione al virtuosismo tecnico: questo (in sintesi) lo stile di Toscani che oltretutto avrebbe portato la fotografia di moda fuori dagli studi, nella strada, nella vita reale, avvalendosi delle star del momento (Lou Reed, Donna Jordan, Monica Bellucci, Mick Jagger, Federico Fellini, Carmelo Bene) per creare un universo di immagini belle, spontanee, ironiche, ma (soprattutto) piene di significato.
I suoi modelli? Quelli con cui aveva idealmente dialogato nelle 25 lettere ai grandi maestri raccolte in Caro Avedon (Solferino editore, 2020): Richard Avedon , appunto campione di audacia; Helmut Newton , di cui invidiava la capacità di essere all’altezza della propria cattiva reputazione; il padre Fedele , reporter, che gli aveva messo in mano la prima Leica; Diane Arbus , capace di cogliere la delicatezza delle cose brutte; Robert Capa , genio in guerra (ma la sua fotografia di don Lorenzo Milani a Barbiana, pubblicata da L’Espresso nel 1959 regge alla perfezione il confronto con questi mostri sacri).
Nelle fotografie (per Elle, Vogue, GQ, Harper’s Bazaar, Esquire, Stern, l’Uomo Vogue, Donna) e nelle campagne pubblicitarie (la prima per il Cornetto Algida, poi Benetton, Valentino, Chanel, Fiorucci, Esprit, Jesus, Robe di Kappa, Prénatal) scorrono colori, abiti, ma soprattutto volti, corpi, situazioni a volte allegre, a volte tragiche. Così Toscani è riuscito a districarsi «attraverso gli stereotipi della diversità per raccontare il mondo a forza d’immagini impattanti in grado di svegliare dall’apatia e dall’indifferenza» (come quelle per la campagna Nessuno Tocchi Caino). Su temi come l’uguaglianza razziale, la mafia, la lotta all’omofobia, il contrasto al diffondersi dell’Aids, la ricerca della pace, l’abolizione della pena di morte.
Fotografare, per Toscani, era come dipingere: «Bisogna impegnarsi a vedere la forma, gli equilibri e tutto quanto fa amplificare quello che si vuol dire» senza mai soffrire di quello che lui chiamava il complesso del pittore mancato («Perché tappezzare i muri di una galleria per raggiungere 5000 persone se possiamo raggiungerne 100000 con i giornali?»). D’altra parte, era la sua idea, la fotografia resta ancora ( e ancora resterà) un’arma formidabile: «Può far diventare bello un pezzo di m…a e far sembrare brutto un capolavoro dell’arte. L’estetica non conta, quello che conta è che riesca a cogliere l’anima della realtà, sia fatta di cose o di persone».
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