da milano.repubblica.it
11 APRILE 2023
Milano 1973,
il giovedì nero con i fratelli La Russa in piazza:
50 anni fa l’omicidio dell’agente Marino
di Massimo Pisa
Era il pomeriggio del 12 aprile, giovani neofascisti sfilarono verso la prefettura per prendersi la città e una bomba uccise il poliziotto Antonio Marino. Tra gli indagati, poi prosciolti da tutte le accuse, l’attuale presidente del Senato e suo fratello Romano, assessore regionale
Il più grande, Ignazio, sfilò verso la Prefettura insieme ai vertici del partito, e le foto di quel giorno li ripresero tutti in corso Monforte, uno sotto braccio all’altro, a passo marziale: Franco Servello e Franco Petronio – che del Msi milanese erano i capi – insieme a Massimo Anderson, il vice di Almirante salito da Roma, e poi Ciccio Franco (il leader del “Boia chi molla” a Reggio Calabria) e i giovani: Mario De Andreis, Nestore Crocesi e appunto lui, Ignazio La Russa, capo del Fronte della Gioventù, con la stessa silhouette luciferina ripresa da Marco Bellocchio in Sbatti il mostro in prima pagina. Il più piccolo, Romano, era invece in strada con i neofascisti più accesi.
Quelli che la piazza, il pomeriggio del 12 aprile 1973, volevano prendersela con la violenza. A suon di bombe srcm, le granate in dotazione all’esercito. E ci riuscirono, uccidendo il poliziotto Antonio Marino, ferendo un’altra trentina di persone e trasformando quella data nel “giovedì nero di Milano”. Cinquant’anni dopo se ne trovano tracce scolpite nella lapide a ricordo in via Bellotti, e nella targa intitolata all’agente nella vicina piazza Fratelli Bandiera. Ignazio La Russa è presidente del Senato. Il fratello Romano è assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia.
Già, Romano La Russa. Ad accusarlo furono proprio Maurizio Murelli e Vittorio Loi, i due camerati che avevano lanciato le bombe colpendo in pieno petto il 22enne Marino, poliziotto del Terzo Celere emigrato da Puccianiello, nel casertano, così da mandare metà stipendio a casa. Gli investigatori ricevettero i due nomi la sera stessa dell’attentato, “soffiati” per telefono da Gianluigi Radice, il capo del Fuan. Sanbabilini entrambi, anche se le storie familiari erano diverse: celebre era quella di Vittorio, figlio del campione di boxe Duilio Loi. Fu lui che venne convinto a portare il ragazzo in via Moscova dall’amico colonnello Michele Santoro, mentre Murelli scappava verso Firenze per una brevissima latitanza.
Quella piazza, quelle violenze, coinvolgevano tutta la destra milanese. Così come la bomba del 7 aprile, quella che il militante della “Fenice” Nico Azzi stava innescando sul treno Torino-Roma con una copia di Lotta Continua in tasca, prima che il detonatore gli scoppiasse tra le gambe. E quella manifestazione milanese, quel corteo negato con l’imposizione di tenere soltanto un comizio in piazza Tricolore, aveva saldato tutte le anime del neofascismo in un’unica prova di forza. In carcere, però, Murelli e Loi si sentirono scaricati. E cominciarono a parlare.
Processo per l’uccisione dell’agente Marino: da sinistra Vittorio Loi, Murelli, Azzi, Marzorati, Ferri e Locatelli (1975) (fotogramma)
Il primo fu Murelli, davanti al pm Guido Viola, contro il maggiore dei fratelli: “Sapevo che il 12 aprile sarebbero stati provocati degli incidenti e degli scontri e ciò era stato deciso già da parecchio tempo da Ignazio La Russa”. Che pure, in quella Milano nera, militava nell’ala legalitaria, ma a dire dello stragista “si era sentito leso dalle critiche di inazione e rammollimento che noi giovani gli muovevamo, pertanto volle dare una dimostrazione”. Poi virò sul minore, parlando delle granate: “Ricordo di averle mostrate in piazza Tricolore dopo aver lanciato la prima bomba ad alcuni tra i quali La Russa Romano”. Lo ricordava “perché per parlare meglio tirò su il sottocasco, una specie di passamontagna”. E Loi, messo a confronto col complice, lo mise tra “coloro che maggiormente aizzavano in piazza Oberdan guidando successivamente i disordini”. Romano, con “un passamontagna nero, anzi un sottocasco nero”.
Furono inquisiti a lungo, i due fratelli. Diversi militanti di Avanguardia Nazionale raccontarono al pm Viola e al giudice istruttore Vittorio Frascherelli di aver visto Romano La Russa nella loro sede nei giorni precedenti il “giovedì nero”, a perorare la causa degli scontri. Fu rinviato a giudizio per resistenza e adunata sediziosa mentre la posizione di Ignazio fu stralciata, insieme a quella di sei dirigenti missini, nonostante la requisitoria di Viola desse credito alla “partecipazione alla preordinazione dei disordini”, alla tesi dello “sbocco ai giovani che da troppo tempo accusavano il partito di inefficienza e codardia”. Un’azione sfuggita di mano: “non pensavano – concedeva lo stesso magistrato – che si sarebbe arrivati alla strage”. Ignazio La Russa non fu rinviato a giudizio, a differenza dei parlamentari missini Petronio e Servello e dei dirigenti Crocesi e De Andreis, tutti comunque assolti nel dibattimento bis.
Nell’aula di quello principale, Loi e Murelli si rimangiarono le loro accuse al maggiore dei La Russa di aver organizzato i disordini e smentirono se stessi pure a riguardo di Romano. Nessuna istruzione, nessun passamontagna: le loro, dissero, erano parole di rabbia perché si erano sentiti abbandonati. Per Romano La Russa furono comunque chiesti due anni e mezzo: la corte lo dichiarò non colpevole, insieme alla maggior parte degli accusati dei reati minori. Tra loro c’era Alberto Stabilini, morto lo scorso settembre. Al suo funerale una dozzina di camerati lo accompagnarono con il braccio teso. E tra loro, in giacca e cravatta, c’era l’assessore Romano La Russa.
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da milano.repubblica.it
22 SETTEMBRE 2022
Ignazio e Romano La Russa,
da Paternò alla Milano di Ligresti:
storia di una famiglia tra potere e nostalgie nere
di Paolo Berizzi
L’assessore regionale lombardo finisce nelle polemiche per il saluto romano a un funerale, il vicepresidente del Senato lo fece nel 2017 in Parlamento: tra fortune economiche e amicizie mai rinnegate con esponenti dell’estrema destra, ecco chi sono
Politica e affari, non necessariamente in quest’ordine. Poltrone, saluti romani, busti di Mussolini, lobbysmo. E potere. Una rete di potere fittissima e che non accusa battute d’arresto dai tempi del capostipite Antonino: erano gli anni ’70. I La Russa di Paternò. Poi detti “i paternesi”. Loro. Una lobby politica sulla breccia da decenni e sempre e comunque all’ombra della fiamma e del denaro. Un clan. Perché, come dice un ex socio ed ex amico, già in politica, poi uscito in rotta con Ignazio, “cambiano i governi, cambia la geografia del potere, ma loro sono sempre in sella”. La storia della famiglia La Russa. Così densa che potrebbe essere spalmata contemporaneamente in un pamphlet politico e in uno economico. Laddove le vette, le gaffe e gli sfangoni – ultimo in ordine di tempo: il braccio teso di Romano La Russa al funerale del cognato Alberto Stabilini con tanto di acrobatiche e improbabili giustificazioni e smentite addosso ai comunicati di FdI – vanno di pari passo. Ma alla fine il bilancio è sempre in utile.
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da www.repubblica.it
Destra: braccia tese e slogan,
tutte le nostalgie nere dei dirigenti di FdI
di Paolo Berizzi 08 Maggio 2022
L’uomo forte dei “paternesi” è ovviamente Ignazio Benito Maria La Russa (il destino nel nome): avvocato, senatore, già ministro. In parlamento dal 1992 (prima era consigliere regionale in Lombardia). Su quelli scranni dove nel 2017 fa anche lui il saluto romano mentre si discute il disegno di legge Fiano sulla propaganda fascista. Ancora due cenni: responsabile del Fronte della Gioventù nel 1971, il 12 aprile 1973 è in piazza – insieme al fratello Romano e a Stabilini – in quello che sarà definito il “giovedì nero” di Milano. Una giornata drammatica che finirà con l’omicidio del poliziotto 22enne Antonio Marino dilaniato da una bomba a mano SRCM 35 lanciata da Vittorio Loi e Maurizio Murelli. Era il giro dei camerati “sanbabilini”: guanti e giubbini di pelle, culto del duce e mani sempre pronte a menare. Sarebbe venuto il suo tempo: “‘Gnazio”, o “La Rissa”, altro soprannome, diventerà ministro con Berlusconi e insieme a Giorgia Meloni cofonderà FdI e cioè, con tutta probabilità, l’ipoteca sul suo futuro politico.
Ma Ignazio, e a cascata il fratello Romano, meno ambizioso e meno intraprendente, sempre in scia al primo, e comunque oggi assessore regionale, devono tutto al padre. Il capostipite dei “paternesi”: Antonino La Russa. Conpaesano di quel Salvatore Ligresti che della famiglia La Russa è stato, si può dire, la porta d’accesso al potere economico. Antonino Nino La Russa, dunque. Classe 1913. Avvocato, dirigente d’azienda e senatore (Msi). La fortuna di Nino, e dunque dei discendenti, ha un’origine: si chiama Michelangelo Virgillito. È un finanziere d’assalto sbarcato a Milano negli anni ’40. Quando muore lascia un’immensa fortuna a una fondazione di frati (sede in Galleria). Nino La Russa era il suo avvocato d’affari e sarà lui che si occuperà di gestire quel mega-patrimonio. Sono gli stessi anni che segnano l’ascesa di Ligresti: “Totò” riceve la maggioranza delle quote della Sai. Da lì in poi inizia la scalata della lobby dei “paternesi”. Antonino La Russa porta Ligresti da Enrico Cuccia: il resto è storia. Politica, certo. Ma con più di un piede negli affari.
Il potente Ignazio piazza figli (Geronimo La Russa è presidente dell’Automobile Club Milano), nipoti, i suoi uomini e le sue donne. È l’uomo forte della destra postfascista o fascista dato che è lui che, sulla difesa a oltranza della fiamma che arde sulla tomba di Mussolini, continua a dettare la linea in FdI. Daniela Santanché, Paola Frassinetti, Carlo Fidanza, il “barone nero” Jonghi Lavarini amico di famiglia: sono tante e tanti a dovere riconoscenza a “‘Gnazio”. Uno che, dal padre, ha ereditato, oltre alle idee politiche, la spregiudicatezza. Il 28 marzo 2021 è lui, La Russa, che riceve in Senato – di cui è vicepresidente – gli impresentabili ras di Forza Nuova Roberto Fiore e Giuliano Castellino. Due anni prima aveva sponsorizzato la “preghiera del pane” di Mussolini.
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da La Repubblica
Coronavirus, il tweet di La Russa (poi rimosso):
“Per evitare contagi usate il saluto romano”
di PAOLO BERIZZI 03 Febbraio 2020
Il vicepresidente del Senato di Fratelli d’Italia scivola su una battuta infelice e dà la colpa a un suo collaboratore. Fiano (Pd): “Molto grave, si scusi pubblicamente”
“Non stringete la mano a nessuno, il contagio è letale. Usate il saluto romano, antivirus e antimicrobi”. In fondo alla frase, tre faccine con la mascherina sulla bocca. È il post sul coronavirus di Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato. Il politico di FdI lo ha pubblicato sui suoi social: una scelta a dir poco infelice, sopratutto all’indomani della notizia che all’ospedale Spallanzani il coronavirus è stato isolato.
La Russa si deve essere subito resoconto dello scivolone: pochi minuti dopo, infatti, ha rimosso il post.
La retromarcia è stata comunicata attraverso un altro post, nel quale il vicepresidente del Senato ha attribuito la gaffe ad un suo collaboratore. “Alfonso ha messo sui miei social un post ironico ma forse sul virus potrebbe suonare fuoriluogo e gli ho detto di toglierlo”.
A frittata ormai fatta, La Russa ha provato a metterci la classica toppa. Ma il contenuto del post non è sfuggito. E di certo è destinato a far discutere. “Grave e imbarazzante che il vicepresidente del Senato faccia ironia sul virus di cui tutto il mondo parla da giorni e che sta seminando vittime e angoscia – dice il deputato dem Emanuele Fiano -. Ancor più grave che La Russa usi il coronavirus come spot per il saluto romano, il saluto usato dai fascisti e dai nazisti, vietato dalla legge del Stato che nasce dalla Costituzione antifascista. Se non è stato lui a scrivere quel post, si scusi chi l’ha scritto, l’ironia ha dei limiti. La Russa è un uomo delle istituzioni, visto che lui stesso lo ha fatto togliere vuol dire che anche lui lo sa che su certe cose non si scherza”.
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