“Con Trump l’America ha solo smesso di fingere, ora narrazione e realtà coincidono”, interviste a Beppe Vacca

da L’Unità
Parola al professore

“Con Trump l’America ha solo smesso di fingere,

ora narrazione e realtà coincidono”,

interviste a Beppe Vacca

«Guerra come fine, unilateralismo esasperato, individualismo. Con Biden la rappresentazione era lontana dai fatti, ora coincidono». La lezione per i progressisti? «Ma progressisti de che… ci sono differenze serie sulla politica estera?»
Interviste – di Umberto De Giovannangeli
13 Novembre 2024
Si può dire? Ma sì, diciamolo. Si esce arricchiti intellettualmente da conversazioni con persone che sanno di cosa parlano e argomentano senza preoccuparsi del politically correct. Beppe Vacca. Una vita, politica e intellettuale, a sinistra. Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, Vacca è stato più volte parlamentare del Pci. Con l’Unità ragiona di America, di Europa e di un progressismo senza identità.
Professor Vacca, che America è quella che ha “incoronato” Donald Trump 47° Presidente?
È la stessa America che aveva votato quattro anni prima per Biden. Non credo che sia cambiata l’America. Cos’è al suo interno ne so poco. So, però, che con questi modelli di sviluppo crescono le diseguaglianze, cresce la precarietà, crescono le differenziazioni territoriali. Per venire al voto, penso che quanto meno un personaggio come Trump è più coerente nell’immagine con il ruolo che effettivamente gli Stati Uniti esercitano nella politica mondiale.
Vale a dire?
La guerra come mezzo e come fine; l’unilateralismo esasperato; un individualismo competitivo che però è sempre meno convincente; l’implicazione in un numero crescente di guerre, che non so come possano pensare di continuare a sostenere, dall’Europa all’Asia, dall’Ucraina alla Palestina. Una strategia fondata sulla potenza, che poi è la proiezione internazionale di un complesso militare-industriale che s’intreccia sempre più con le più potenti corporazioni, ben raffigurate da tipi come Elon Musk. Un complesso estremamente dinamico, che ha dietro di sé questa filosofia fondamentale: l’unilateralismo come possibilità di cambiare il paradigma delle relazioni internazionali globali e arrivare a un nuovo ordine mondiale. Le guerre come fonti di guadagni stellari. In più, all’interno, mi pare che Trump rappresenti un po’ il suprematismo bianco.
È una forzatura giornalistica affermare che con questo voto l’America ha mostrato, anche se può non piacere, il suo vero volto?
Un personaggio come Trump, che non rappresenta la tradizione repubblicana in senso stretto ma impersona al meglio, o al peggio secondo i punti di vista, quella neocon, rende più coerente il rapporto tra rappresentazione e realtà. Con Biden ci poteva essere, almeno nella “Ztl” europea in cui noi viviamo, sempre questa attesa di chissà che, questa presunta difesa di valori che sarebbero solo i nostri, i valori della democrazia. Una narrazione a cui non corrispondevano i fatti. Nel caso di Trump, a me pare che tra la narrazione del tycoon e il ruolo che effettivamente l’America si è scelta sulla scena mondiale – non da ora, c’è una sostanziale continuità almeno dal 1990 in poi – avvicini, per l’appunto, la narrazione alla realtà, fin quasi a coincidere.
A cosa si riferisce, professor Vacca?
La progressiva delegittimazione degli organismi della comunità internazionale. È la politica del disordine mondiale. D’altro canto, già con Biden gli Stati Uniti hanno messo in campo un progetto globale che scarica sull’Europa i rischi e i costi del contenimento della Russia per potersi dedicare al disegno del nuovo bipolarismo Usa-Cina, che dovrebbe costituire il vertice condiviso di un nuovo assetto del mondo. Un disegno di respiro corto, provvisorio, ma tant’è. Sotto questo aspetto, con l’invasione dell’Ucraina e ciò che ha mosso, il progetto dell’Europa di Maastricht appare definitivamente affondato. D’altronde non aveva mai oltrepassato i limiti economicistici dell’origine, imposti dall’invalicabile soggezione alla strategia degli Stati Uniti.
Molti s’interrogano oggi sul rapporto che potrebbe determinarsi tra Trump e l’Europa. Cosa c’è da attendersi e cosa da temere?
L’Europa non da ora, almeno dagli anni ’70, è il principale competitor degli Stati Uniti. È diventata nel corso degli anni una potenza concorrente. Questo si esprime persino nel dualismo monetario, sebbene siano fortemente concatenati il dollaro e l’euro, e quest’ultimo è stato mantenuto, almeno finora, entro una misura tale da non poter rappresentare uno sfidante vero e proprio. Capisco che la narrazione giornalistica debba in qualche andare avanti e stare alle parole che quotidianamente fanno lo scorrere di un racconto generale. Ma qui bisogna mettere un punto.
Cosa ci si deve attendere? Ora si parla di dazi, ma chi si è inventato le sanzioni? L’America. Per annientare la Russia o l’Iran? Questa è la narrazione. La realtà è che le sanzioni erano mirate soprattutto a colpire la capacità competitiva dell’Europa, a bloccarne il processo di integrazione in progress.
In questo ci sono pesanti responsabilità dell’Europa. È molto difficile distinguere le responsabilità, perché comunque questo rapporto di dipendenza relativa dalla politica americana, un po’ per scelta un po’ per forza, non è mai cambiato, pur nel cambiamento dei rapporti di forza e della differenziazione di modelli globali potenzialmente diverso. E tengo a sottolineare “potenzialmente”.
Perché?
Ma perché non abbiamo mai osato, in particolare la Germania come “locomotiva” economica, e non solo, europea, non ha mai pensato di forzare nelle sue scelte, un asse benevolente da parte degli Stati Uniti. Si capisce anche il perché. Perché i grandi conflitti dell’ultimo secolo hanno avuto l’Europa come principale teatro e hanno avuto come principale ragione l’antagonismo tra gli Stati Uniti e la Germania, non solo ma innanzitutto quello. Da qui quella politica di prudenza, che almeno dal ’73 in poi, le leadership tedesche hanno osservato o dovuto osservare nel crescere in competitività rispetto agli Stati Uniti, solo nella misura in cui si arrivasse ad una vera e propria confrontacion. Ciò è più che comprensibile, ma questo dice quanta retorica, che non corrisponde alla realtà, ci sia nel discorso sull’Europa. Dov’è l’Europa? Non adesso, ma da tempo. Certo, adesso è stata sospesa de facto dal modo in cui è stata ridefinita la Nato, per come è stata declinata la funzione mondiale degli Stati Uniti, per come è stata costruita questa incredibile guerra per procura in Ucraina, sapendo peraltro in partenza che era perduta. Come potevano pensare seriamente, i peacemaker che l’hanno consigliata, di riuscire a indurre Putin ad usare armi atomiche, per avere una sua totale delegittimazione mondiale. Hanno sbagliato i conti, ritenendo peraltro che Putin fosse così fragile da poter essere il bersaglio di un cambiamento di regime interno attraverso una guerra che ha visto la ridefinizione della Nato, con la sua trasformazione in un’alleanza non più solo difensiva. In una guerra per procura fra la Nato e la Russia, l’Europa non poteva avere, e non ha avuto, alcun ruolo autonomo. Essa è tornata a essere parte di una definizione univoca dell’Occidente modellato, come agli inizi della Guerra Fredda, dalla preponderanza militare degli Stati Uniti e dal loro rinvigorito unilateralismo. Le sanzioni stanno dentro questo schema. L’America ha usato quest’arma ben sapendo che prima di Putin, le sanzioni avrebbero colpito l’Europa. Oggi è davvero difficile dire se l’Europa sia o no un soggetto. Nella rappresentazione, apparentemente sì.
E nella realtà?
Chi impersonerebbe la leadership europea? La von der Leyen? Ma la von der Leyen fa parte delle reti americane di controllo dell’Europa.
Professor Vacca, che lezioni dovrebbero trarre i progressisti dalla vicenda americana?
“Progressisti” è una nozione molto elastica e complessiva. Cosa può fare la socialdemocrazia in Europa, è da vedere. Chi sono i progressisti in Italia, beh, anche qui, “progressisti” rispetto a che? Il Pd è un progetto ancora incompiuto e che comunque si muove prevalentemente sul terreno della politica municipale, locale. Non ha un suo proprio profilo nella politica internazionale che non sia quello di chi è il migliore amico di Washington. La convinzione che non ci sia altra geopolitica immaginabile per l’Italia e per l’Europa che non sia questa mi pare sia presente in maniera pervasiva in tutti i pezzi del Pd. Cosa potrà diventare il Movimento5Stelle è tutto da vedere, poi c’è questa formazione di sinistra, Sinistra italiana in alleanza con i Verdi, che è coerente ma necessariamente limitata. Tutto questo se intendiamo il termine “progressisti” in maniera tradizionale, ereditata, che si ritrova nel nome del raggruppamento europeo. Non so quanto sia ancora connotativo e definitorio questo lessico.
E la destra?
La destra in Italia va declinata al plurale. Sono cose molto diverse che stanno fortemente insieme grazie al fatto che non vengono sfidate. Salvini e Meloni, per ciò che rappresentano, sono storie e politiche molto diverse. Se c’è un’agenda che domina la politica italiana ormai da trent’anni, è quella della Lega. L’Italia non ha bisogno di rimanere unita, e progredire nel suo spezzettamento in tanti pseudo staterelli quante sono le sue regioni. Questo indica la cultura da cui è nata la Lega, l’unica cultura egemonica sulla vita del Paese. Tutti hanno fatto a gara su questo terreno. Compreso il glorioso partito al quale sono iscritto, il Pd, come ultima stagione di una progressiva metamorfosi di forze che vengono dal Pci, dalla sinistra democristiana. Progressisti de ché? Verso dove? Ci sono differenziazioni serie sulla politica estera dell’Italia? Tutta questa sorpresa per la Meloni. Ma la Meloni è il punto di arrivo di una storia che comincia con la fondazione del Movimento sociale italiano come seconda ruota dell’ingranaggio della politica estera americana, fin dalla nascita del Msi. Sono curiose e finte sorprese, il fatto che sia così atlantista. Più atlantista della storia del Movimento sociale cosa ci poteva essere. È capace di tenere l’Italia in un certo bilico in Europa? Ovvio che sì, perché non è sfidata a fare sul serio. L’Italia continua ormai da venticinque anni a non crescere e a declinare. Da chi è sfidata? E prima di lei, gli altri. Di nuovo: progressisti verso dove? Se non hai più un tratto distintivo in politica estera, che non sia l’iper-atlantismo, la corsa a chi sia il primo ad essere il benvoluto della politica estera americana, atlantica, non si vede quale sia la tua identità. È una identità che affiora soltanto a livello di quella che è la vecchia tradizione del socialismo municipale. Non è poca cosa. Ma vuol dire essere ridotti agli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti.

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