VERSO UNA NUOVA COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE: Al Dio ignoto/9

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 di don Giorgio De Capitani
Riporto alcune riflessioni da un articolo, dal titolo “Hillesum. La condivisione nel profondo”, scritto da Isabella Adinolfi, autrice anche del libro: “Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile”, ed. Il melangolo.
«Il Diario di Etty Hillesum è innanzitutto il racconto di un’intensa storia d’amore che cresce e si sviluppa nel tempo con il maturare della personalità dell’autrice. In questa storia d’amore il rapporto con Spier non è che un “‘primo passo verso un amore veramente grande”, come lui stesso le dice profeticamente nel corso di una conversazione il 24 settembre 1941. La giovane donna nella sua breve vita ha infatti sperimentato l’amore in tutte le sue forme. Dall’amore sensuale che cerca nel corpo l’appagamento di un insaziabile desiderio erotico e si dissipa e consuma, senza mai raggiungere un appagamento completo, passando da un’avventura all’altra, all’amore passione che vede nell’unione esclusiva e nella costruzione di una relazione stabile con l’unico amato il compimento di sé e il senso di una vita, fino all’amore per il prossimo e per Dio, il solo a cui infine – annota nel diario, citando sant’Agostino – si dovrebbero scrivere ardenti lettere d’amore.
Lungo questo percorso, che potrebbe essere descritto come un processo di graduale, crescente spiritualizzazione, del tutto conforme a quello compiuto dall’eros nel “Simposio” platonico, il suo modo di amare non progredisce però dal sensibile all’intelligibile, non termina nell’amore per un mondo ideale, altro da questo mondo, e neppure nell’illimitata brama per un Dio trascendente, immutabile ed eterno, che in un passo delle “Confessioni” ricopiato nel Diario il 30 maggio 1942 è descritta da sant’Agostino come alternativa al desiderio che si accende per le creature transeunti e caduche. In altri termini, nella sua esperienza l’amore non segue un moto ascendente dalla terra al cielo, dalla creatura al creatore. È un amore per Dio che si riversa teneramente su tutti gli esseri viventi, un amore che ricorda quello dei mistici e come spiega un profondo interprete di questo fenomeno, Henri Bergson, “l’amore che consuma il mistico non è più semplicemente l’amore di un uomo verso Dio, è l’amore di Dio per tutti gli uomini. Attraverso Dio, con Dio, egli ama tutta l’umanità di un amore divino” .
Ma cerchiamo innanzitutto di capire chi è questo Dio a cui negli ultimi quaderni Etty rivolge le medesime espressioni affettuose che prima indirizzava all’amato e da cui attingerà le forze per amare tutti gli uomini. All’inizio del percorso compiuto dalla Hillesum non è certamente un Dio persona, ma una forza cosmica, di natura spirituale, che regge e vivifica il mondo. È Spier a trasmettere all’allieva questa concezione del divino, che riprende probabilmente da Jung. A differenza di Freud, Jung riconosce infatti una funzione positiva all’esperienza religiosa e, sotto l’influsso di Bergson, parla di un’energia vitale, di una forza dinamica presente in tutta la natura, che nell’uomo raggiunge il più alto grado di evoluzione e spiritualizzazione, ed è il motore di ogni attività sociale e culturale dell’umanità. È a questa energia originaria, primordiale che, secondo lo psicologo svizzero, le diverse religioni attingono i loro simboli e i libri sacri l’ispirazione.
Tracce dell’influsso di Jung si possono inoltre cogliere nel valore positivo, anzi fondamentale, che Spier e la Hillesum, anche sulla scia di letture agostiniane e rilkiane, attribuiscono alla meditazione e alla concentrazione. Secondo la concezione junghiana del divino, Dio è in ogni uomo e questa forza o energia spirituale si fa sentire di più quando l’individuo dalla dispersione nel mondo esteriore si ritira nella propria interiorità, quando è concentrato su se stesso, sulla propria anima. Tra il 10 e l’11 giugno del 1941 Etty trascrive nel diario due passi tratti dal saggio di Jung che sta leggendo in quel momento, “Psicologia analitica e concezione del mondo”, concernenti l’anima, il suo rapporto con la natura e con Dio. Il secondo è particolarmente importante: vi si legge che chi conosce se stesso, le profondità del proprio io, conosce Dio, senza tuttavia poterlo afferrare e comprendere razionalmente: “Non siamo mai più vicini all’eccelso mistero di tutte le origini che quando conosciamo il nostro io, che ci illudiamo di avere sempre conosciuto. Ma le profondità dell’universo ci sono più note che le profondità dell’io, dove possiamo udire quasi direttamente l’Essere e il Divenire creatori, ma senza comprenderli”. Un’eco della lettura di questo testo risuona, com’è stato osservato, in un passo del Diario scritto il giorno prima, a ridosso di quelle citazioni, in cui la studentessa ebrea, mettendo in pratica quel che ha letto, si propone di iniziare la giornata, ogni mattina, con il raccoglimento e l’ascolto di se stessa, per guadagnare, libera da pensieri, pace e tranquillità per tutto il giorno.
L’influsso della concezione junghiana dell’anima – pensata come individuale e insieme unica, comune non solo agli uomini ma anche alla natura – è poi presente in alcuni passi più tardi del diario in cui la Hillesum riporta alcune conversazioni avute con Spier su questo argomento. Da esse si evince che i due amanti si sentono parte di una grande anima unitaria, di un unico, immenso essere eterno, di cui l’anima del singolo non è che il fiore di una stagione, un momentaneo germoglio nel divenire perenne dell’Uno-Tutto. Per cui, come annota la Hillesum con immagine felicissima, quando si riposa quietamente sul petto della vita, abbandonandosi tra le sue braccia protettive, si può udirne il battito regolare e leggero del cuore.
Il sentire dei due amanti si alimenta dunque continuamente a questa corrente vitale, di natura spirituale, che, come linfa vivificante, sentono scorrere nei recessi del proprio essere. Sennonché, come ha visto Bergson, per il mistico Dio è principio cosmico, fonte della vita, energia creatrice a cui attingere verità, vitalità, creatività, in quanto è essenzialmente amore. Per il mistico l’agápe non è solo un aspetto di Dio, un suo attributo, ma la sua stessa sostanza, la sua realtà più profonda. E, proprio in quanto è amore, il contatto o meglio l’unione con Dio vivifica e conferisce all’anima uno slancio immenso, una creatività inesauribile.
Il rapporto del mistico con Dio è dunque essenzialmente una relazione d’amore. E, come ogni relazione, comincia con un incontro e si sviluppa in una storia. Nella vita della Hillesum questo incontro avviene grazie a Julius Spier.
La giovane donna inquieta che nel marzo del ’41, accogliendo il suggerimento del suo terapeuta, inizia ad annotare con fatica le proprie esperienze su un quaderno a righine blu non è certo una credente. Prima dell’incontro con Spier, Etty non sembra essersi mai posta seriamente, cioè esistenzialmente, i problemi che, secondo Dostoevskij, appassionano i giovani “di becco tenero”, riguardanti l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Sembra vivere completamente assorbita da problemi di altro genere – sociali, politici, sentimentali. E, se pure quelle questioni se le è poste intellettualmente, la risposta che vi ha dato non è stata certo positiva. Lo stordimento e la disperazione in cui vive prima dell’incontro con Spier testimoniano la convinzione, più volte ribadita all’inizio del Diario, che la vita non abbia alcun senso, che sia un “rimescolio senza costrutto”.
E tuttavia fin dall’inizio si percepisce in lei, persino nella disperazione più cupa, quell’amore per la vita – “quell’amare la vita più che il senso di essa”, quell’“amarla anteriormente a ogni logica” come direbbe Dostoevskij –, che la spinge nell’inquietudine a cercare il significato profondo di quel che accade intorno a lei e in lei, che la rende ricettiva al bello e al bene, predisponendola in tal modo all’incontro con la fonte stessa della vita, del bello e del bene, preparandola all’illuminazione. Nel “Simposio” Platone descrive l’ascesa a Dio, come un salire di grado in grado, di scalino in scalino, mossi in principio dall’ammirazione per ciò che partecipa sensibilmente del bello e del bene fino alla contemplazione del bello e del bene in sé. In un certo senso, l’avventura spirituale della Hillesum, anche se, come si è detto, non si può definire un movimento ascensionale, comincia proprio così.
A scuoterla dal torpore, dall’opacità del suo vivere è infatti proprio quel valore che, secondo Platone, è il più appariscente di tutti, la bellezza, colta da Etty dapprima nei paesaggi naturali dei luoghi dove ha trascorso l’adolescenza, poi nella poesia di Rilke, nella prosa di Dostoevskij e Tolstoj, nei dipinti di Van Gogh e Cézanne e nella musica dei compositori classici e di Beethoven. È innanzitutto nella bellezza della natura e nelle opere di questi artisti che la giovane intuisce la presenza di Dio. Del resto, “la tendenza naturale dell’anima ad amare la bellezza è – come ha scritto Simone Weil – la trappola più frequente di cui Dio si serve per aprirla al soffio che viene dall’alto”. L’8 giugno 1941 Etty annota nel Diario:
Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di “Dio” possa entrare in te, come c’è qualcosa di “Dio” nella Nona di Beethoven. E anche qualcosa dell’Amore”, ma non quella sorte di amore di lusso in cui ti crogioli di buon grado per una mezz’ora, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alla piccole cose quotidiane.
 Il passo appena citato prosegue con la precisazione: “Potrei ovviamente leggere la Bibbia ogni mattina, ma non credo di essere pronta per questo”. Si rimprovera, infatti, di leggerla in maniera ancora troppo “cerebrale”, cercando ansiosamente di afferrarne il significato. Ma di lì a poco anche la lettura della Bibbia diverrà pratica quotidiana, dischiudendosi a una sua diversa intelligenza, quella dell’anima, e a un suo più alto significato, quello dello spirito. E allora nei Salmi e nel Vangelo di Matteo, il suo “caro Matteo”, sentirà risuonare chiara la voce di Dio.
Ma se la bellezza di Dio rifulge nella creazione, se il suo spirito è presente nell’opera dell’artista che si fa suo strumento, e se la sua voce risuona chiara nella parola che i libri sacri ospitano, tuttavia il luogo in cui avviene l’incontro decisivo con Dio è, per la Hillesum, la “cella oscura” della preghiera. Si riprometteva, se fosse sopravvissuta al tempo agitato toccatole in sorte, di narrare in un racconto autobiografico la storia di una ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che imparò a pregare. Malgrado la morte prematura le abbia impedito di dare a questa storia la forma narrativa, stilisticamente compiuta, di una novella, nondimeno il racconto è stato ugualmente scritto. È il suo diario. La storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che imparò a farlo è la vicenda che lei stessa ha vissuto, ed è a questa storia che dobbiamo prestare ora attenzione per cercare di comprendere la natura profonda del suo rapporto con Dio.
A destare la sua curiosità per questa pratica religiosa era stato Spier, che un giorno – annoterà più tardi – le aveva confidato di pregare abitualmente, la sera, per le persone care. In quell’occasione, indiscretamente, lei gli aveva domandato con quali parole si rivolgesse a Dio quando pregava, e la ritrosia di Spier a parlare di quest’argomento, il pudore con cui si era schernito (“Questo non glielo dico. Per adesso no. Più tardi”), in un uomo che con tanta naturalezza sapeva parlare di argomenti che imbarazzano i più, forse proprio quella ritrosia ed esitazione le avevano fatto presentire tutta la pregnanza di quei gesti, che presto sarebbero apparsi anche a lei come “faccende intime, quasi più intime di quelle del sesso”, o ancora come i “gesti dell’amore, di cui pure non si può parlare se non si è poeti”. Quindi, seguendo l’esempio di Spier, la Hillesum inizia a “esercitarsi” nella preghiera, forzandosi a piegare le ginocchia sul ruvido tappeto di cocco della camera da bagno, fino a quando, la sera del 13 dicembre 1941, le accade qualcosa d’inatteso: improvvisamente, sente un impulso irresistibile e cade in ginocchio, spinta al suolo, come lei stessa si esprime il giorno seguente, da qualcosa di “più forte di me”.
Da quel momento, inginocchiarsi diviene per lei “un gesto spontaneo” e sente il bisogno di farlo in qualsiasi luogo o momento. “E ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno” , annota martedì 31 dicembre 1941, dopo aver registrato i suoi progressi nel colloquio con Dio. Prima – ammette – apparteneva anche lei a quella “categoria di persone” che “di tanto in tanto” pensano di sé stesse: “Sì, in fondo io sono una persona religiosa”, e magari pregano anche, ma macchinalmente, in modo superficiale, per abitudine o per dovere, o sotto l’incalzare di eventi esterni. Adesso invece, che ha imparato ad ascoltare Dio dentro di sé, ora che sente l’esigenza e l’urgenza di una comunicazione incessante con Dio, a guidarla non è più ciò che accade di fuori, ma ciò che “s’innalza dentro”.
“Dentro”, “interiore”, “intimo” sono parole chiave per penetrare la spiritualità della Hillesum. Ciò vale anche per la preghiera che è essenzialmente essere in comunicazione, in contatto con quella sorgente divina vivificante che scorre dentro di noi. Il 26 agosto del 1941 appunta nel diario: “M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé”. Pregare richiede dunque il raccoglimento per cercare Dio dentro di sé, e un lavoro per disseppellire la sorgente in cui c’è Dio, nel caso essa sia ostruita da “pietre e sabbia”.
Ora, la consuetudine con la preghiera incessante, il dialogo continuo con Dio fa sì che le accada a un certo punto di diventare lei stessa ardente preghiera. Scrive il 16 settembre 1942: “A volte, inaspettatamente, qualcuno s’inginocchia in un angolino di me stessa: quando cammino per la strada o sto parlando con una persona. E quel qualcuno che s’inginocchia sono io”. Finché da ultimo comprende quel che sa ogni mistico: ossia che “soltanto Dio può realmente pregare Dio”, e il 17 settembre 1942 appunta nel Diario: “E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio”.
Se ciò che più connota l’ “esperienza mistica universale” è, com’è stato osservato, l’anelito all’unione con Dio, questa comunione si è realizzata nella vita della Hillesum grazie alla preghiera. Nella sua esperienza il pregare, cadendo in ginocchio, è innanzitutto un gesto di venerazione e di ringraziamento. Rapita dalla bellezza dei campi di grano, quando viveva a Deventer sentiva il bisogno di inginocchiarsi dinnanzi a essi in un gesto adorante di ringraziamento, mossa da un sentimento panico di armonia con il tutto, con Dio.
Ma l’atto d’inginocchiarsi è poi anche, in un senso più profondo, un atto di consegna di sé, di remissione, di resa. Esso significa: “sia fatta la tua volontà”, ovvero, tradotto nel linguaggio di Etty: accettazione completa e incondizionata di tutto quel che accade, fiducia assoluta, totale abbandono nella mani di Dio. “Dalle tue mani accetto tutto quello che viene, mio Dio. So che è sempre un bene”, scrive il 15 settembre 1942, il giorno della morte di Spier. Per il mistico non esistono più due volontà – quella di Dio e la sua – ma un’unica volontà indivisa: il mistico vuole ciò che Dio vuole, non si assoggetta alla volontà divina, ma è liberamente “uno” con essa. E, dalle mani di Dio, la Hillesum ha accettato tutto, anche il male estremo e insensato della Shoah: “L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio”.
A ragione, Simone Weil ha visto nell’amore per il prossimo, per la bellezza della natura e delle opere d’arte e infine nell’amore per le pratiche religiose, delle forme preparatorie all’amore di Dio. In questi amori l’amore di Dio è contenuto in maniera implicita, per cui amando la bellezza e l’ordine del creato, amando la poesia, la musica e la scienza, si ama Dio indirettamente. La compassione per lo sventurato e la gratitudine di questi per chi l’ama, la bellezza della natura e il suo ordine perfetto, sono spiragli attraverso cui filtra nel mondo la pura giustizia di Dio, la sua sublime bellezza, la sua mirabile sapienza.
Pertanto, chiunque sia animato dall’amore per il bello, la giustizia, la verità, ama Dio, che è insieme personale e impersonale, nel suo aspetto impersonale. Questo amore è per Dio, ma non ancora di Dio. L’amore di Dio, infatti, non è il culmine di un movimento ascendente dell’anima, bensì, come sostengono i mistici, una discesa di Dio nell’anima, per cui non è l’amore dell’uomo per Dio, ma l’amore di Dio nell’uomo. E questo amore divino, non umano, è un amore più ricco, forte e profondo per il creato e per tutti gli uomini. Simone Weil ha espresso questo pensiero in modo mirabile: “Durante il periodo preparatorio, questi amori indiretti costituiscono un amore ascendente dell’anima, uno sguardo rivolto con un certo sforzo verso l’alto. Ma quando Dio viene di persona non soltanto a visitare l’anima, come ha fatto da principio, per lungo tempo, ma a impadronirsi di essa e a trasportarne il centro presso di sé, le cose cambiano. Il pulcino ha rotto il guscio ed è fuori dell’uovo del mondo. Questi sentimenti iniziali sussistono, ma diversi. Colui che ha vissuto questa avventura ama più di prima gli sventurati, coloro che li aiutano nella sventura, i propri amici, le pratiche religiose, la bellezza del creato. Ma questi amori sono ora diventati un movimento discendente come quello di Dio, un raggio che si confonde nella luce di Dio”.
L’ultima parte del diario di Etty Hillesum è piena di Dio. Le espressioni d’amore che prima rivolgeva a Spier, negli ultimi mesi della sua vita sono indirizzate direttamente a Dio. E Dio è ora il nome dell’amato, con cui la parte più profonda di lei vive in totale comunione, senza però esserne assorbita. A questo punto, dunque Egli non è più, o meglio non è più soltanto una potenza cosmica presente nel nucleo più profondo di ogni uomo (Deus in nobis), ma una persona autentica. È l’amante che chiede d’essere riamato, a cui ci si affida certi del suo amore, certi che nulla di male ci potrà accadere. Nell’intimità dell’amore per Dio la giovane ebrea fa esperienza di quel completo abbandono in cui amore e fiducia si corrispondono perfettamente fino alla loro completa identificazione . Scrive nel diario: “È così che mi sento, sempre e ininterrottamente: come se stessi fra le tue braccia, mio Dio, così protetta e sicura impregnata di eternità”.
Anche a Westerbork la Hillesum ha continuato il suo dialogo amoroso con Dio. Se nei suoi pensieri e nel suo sentire Dio prende il posto prima occupato da Spier, ciò non significa tuttavia, occorre ricordarlo, che quest’amore sia esclusivo di altri amori. Anzi, a lei accade proprio il contrario. In Dio, ella ama tutto e tutti di un amore divino.
La critica che così spesso viene mossa al mistico di vivere l’unione con Dio, che per lui è fonte d’inesauribile gioia e godimento, nell’indifferenza per il mondo e per gli altri uomini, non tocca la Hillesum. La fusione con Dio non isola necessariamente il mistico dagli altri uomini, né lo astrae dalla storia. La “fortezza inespugnabile” della mistica Hillesum non è la “fortezza dell’isolamento dove l’uomo colloquia con se stesso, […] nell’autocompiacimento della propria raffigurazione spirituale”, criticata da Martin Buber. Né il rapporto del mistico con Dio si risolve necessariamente in mera contemplazione, trovando la sua più alta espressione in un vago sentire, in rapimenti ed estasi.
Il misticismo che Bergson chiama “completo” e che si presta particolarmente bene a qualificare il pensiero e la condotta della Hillesu non è uno stato d’animo, bensì azione , è amore attivo. È – lo si è già detto – l’amore di Dio per tutto il creato, la tenerezza di Dio per ogni creatura. Identificandosi con l’amore di Dio per la sua opera, il mistico ama il mondo come Dio lo ama. Anziché riassorbirsi in se stessa, la sua anima si apre dunque a un amore universale e fattivo. Egli diviene adiutor Dei – secondo la formula paolina di 1Cor 3, 9, ripresa dal filosofo francese –, e collabora con Dio continuando la volontà del Padre, portandola a compimento, effondendo l’amore di Dio su tutto e tutti.
In questa prospettiva, il 13 ottobre 1942, nell’imminenza della partenza definitiva per il campo di smistamento di Westerbork la Hillesum annota nel diario: “Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo”. Significativamente, l’immagine potente che chiude il Diario è dunque quella della cena eucaristica, che rappresenta l’atto supremo di condivisione e d’amore oblativo per la religione cristiana.
E, sempre in questa prospettiva, il 18 agosto 1943 la giovane scrive dal campo di smistamento di Westerbork a Henny Tideman, un’amica:
Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. […] Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.
A Westerbork la Hillesum ha incontrato feriti, moribondi, disperati: per molti è stata un sostegno, per tutti ha cercato una parola di incoraggiamento, di conforto. Radicandosi nell’amore di Dio, alimentandosi alla fonte stessa dell’Amore, la sollecitudine della giovane è stata senza confini, abbracciando tutti coloro che avevano bisogno o erano sofferenti. “Sai – scriveva il 28 settembre 1942 a un amico Osias Kormann – io ho tanto amore in me stessa, per tedeschi e olandesi, per ebrei e non ebrei, per tutta l’umanità, dovrebbe pur esser lecito cederne una parte”.
Fondandosi sulla sovrabbondanza dell’amore ricevuto da Dio, ella si è fatta generosamente dono per tutti, spingendosi oltre la condivisione, fino a dimenticare se stessa. In una lettera spedita dal campo il 26 giugno del 1943, annota:
È un fatto ben singolare: da quando ho visto quel convoglio di gente catturata nei rastrellamenti non soffro più né fame né sonno né altro e mi sento benissimo, l’attenzione si concentra a tal punto sul prossimo che ci si dimentica di se stessi, e in realtà è meglio così.
 (continua/9)

 

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