
dal Corriere della Sera
C’è una logica nella «follia» di Trump?
Cos’è la «dottrina Donroe»
(e quali conseguenze potrebbe avere)
di Federico Rampini | 13 gennaio 2025
«Dottrina Donroe» (Donald+Monroe) è il neologismo coniato dal New York Post, un tabloid di destra che simpatizza con il 47esimo presidente degli Stati Uniti. È il tentativo di trovare una logica coerente nelle ultime uscite di Donald Trump in politica estera: l’anelito a controllare (se non addirittura annettere) Groenlandia e Panama, il dileggio verso il Canada trattato come il 51esimo Stato Usa.
C’è dietro una logica, una visione strategica, addirittura l’embrione di una nuova dottrina geopolitica? Magari una «dottrina» inconscia, inconsapevole, ma radicata in un pensiero forte che altri gli hanno suggerito?
Trump non è mai stato un teorico, non legge libri, disprezza gli intellettuali, è convinto che i cosiddetti esperti e tecnocrati abbiano collezionato errori (questa sua diffidenza è condivisa da ampi strati dell’opinione pubblica e ha qualche giustificazione reale). Come comandante in capo, già nel suo primo mandato tendeva a farsi guidare dall’istinto più che dai voluminosi dossier dei burocrati. Questa sua indole caratteriale però non esclude che lui acchiappi suggestioni che vengono da teorie altrui.
Per questo quando sembra straparlare bisogna sempre chiedersi se «c’è una logica in questa follìa». Spesso la si trova.
Nelle sue ultime uscite la logica c’è, eccome. Però sembra smentire la rappresentazione dominante nel suo primo mandato (gennaio 2017-gennaio 2021) e fino alla campagna elettorale del 2024. Allora Trump ci era sembrato un isolazionista, deciso a evitare nuove guerre e chiudere quelle in corso (Afghanistan), pronto a voltare le spalle agli alleati, a smantellare o comunque indebolire la Nato, a colpire con dazi anche i Paesi amici, eccetera. Ora sembra invece rivendicare una sfera d’influenza che abbracci almeno l’intero emisfero occidentale, cioè le Americhe, fino al Polo Nord.
Donde il richiamo storico alla Dottrina Monroe, che prese il nome dal presidente James Monroe: nel 1823 definì appunto il ruolo preminente che gli Stati Uniti si assegnavano nell’emisfero occidentale, e le loro relazioni con l’Europa dove risiedevano ancora i maggiori imperi coloniali. Tradotta in termini spiccioli, a quella concezione si fa risalire l’idea che le Americhe, dalla Terra del Fuoco ai confini artici, sono «il cortile di casa» degli Stati Uniti, e nessuna interferenza di altre potenze deve essere tollerata.
(Vedi l’interpretazione che ne diede il democratico John Fitzgerald Kennedy nella crisi dei missili sovietici a Cuba, nel 1962, quando si sfiorò il conflitto nucleare perché la superpotenza nemica aveva tentato di insediare arsenali militari distruttivi a poca distanza dalla Florida).
Quella Dottrina all’origine includeva anche una robusta dose di isolazionismo: il principio di non interferenza nelle vicende dell’Europa. Soprattutto voleva chiudere per sempre l’era della colonizzazione europea in America latina e nei Caraibi.
In quel contesto storico la Dottrina Monroe era decisamente progressista. Appoggiava le lotte per l’indipendenza che già avevano emancipato molti Paesi latinoamericani, e prometteva che non sarebbero stati alla mercè di un ritorno del colonialismo. Inoltre era una risposta moderna, avanzata e democratica, al messaggio del Congresso di Vienna (1815): dove i regimi monarchici e conservatori del Vecchio continente avevano chiuso le guerre napoleoniche con una serie di restaurazioni liberticide. Ma col passare del tempo la Dottrina Monroe sarebbe diventata qualcos’altro: il fondamento per iniziare la costruzione di una politica estera da superpotenza, cominciando con l’affermazione di una propria sfera d’influenza.
Oggi gli interventi di Trump su Groenlandia e Panama sembrano obbedire a una logica almeno in parte analoga. Facciamo astrazione dal lato esteriore, cioè diamo per scontato che Trump adora seminare panico e caos, «per vedere di nascosto l’effetto che fa» (Jannacci-Fo). Cerchiamo di sorvolare sugli aspetti grotteschi, o folcloristici, del suo stile di comunicazione (è un metodo di lavoro che consiglio a tutti: se non vogliamo trascorrere i prossimi quattro anni sull’orlo permanente di una crisi di nervi). Nella sostanza, tante esternazioni apparentemente folli, sguaiate o irresponsabili del 47esimo presidente hanno un aggancio con la realtà.
La pista di una «nostalgia di Monroe» è rafforzata dal fatto che secondo Trump il protezionismo nell’Ottocento rese ricca l’America (fu in effetti un periodo segnato da robuste tasse doganali).
Su Panama lui ha colto un problema reale: il potere conquistato dalla Cina nella gestione di alcune infrastrutture del Canale può rappresentare una minaccia strategica per gli Stati Uniti. Che sia falsa l’accusa secondo cui il Canale fa pagare costi di transito più elevati alle navi americane, è un dettaglio. Spesso Trump esagera, deforma, falsifica, ma bisogna guardare oltre il polverone.
Idem sulla Groenlandia. Qui le offerte/minacce rivolte alla Danimarca hanno risvegliato una «bella addormentata nel bosco». Da anni il rapporto fra Copenaghen e la Groenlandia è segnato soprattutto dalla sindrome del pentimento bianco e post-coloniale, i danesi si sono preoccupati soprattutto di inondare l’etnia Inuit di denaro e di genuflettersi in scuse (senza con questo placare minimamente le velleità indipendentiste di quei nativi). Nel frattempo attorno alla Groenlandia cresceva a dismisura la presenza militare della Russia e della Cina. Urlando strepitando e minacciando, Trump ha messo il dito anche qui su un problema vero. La Danimarca è un caso tipico di quel «letargo strategico» in cui l’Europa intera sonnecchia da decenni.
Torno alla domanda iniziale: sta nascendo sotto i nostri occhi una Dottrina Donroe? The Donald ha fatto propria la teoria di Monroe sulla sfera d’influenza? Se sì, che messaggio manda a Putin e Xi Jinping, i quali da tempo praticano le proprie versioni della Dottrina Monroe, in Georgia Ucraina Moldova e dintorni il primo, verso Taiwan Filippine e mari limitrofi il secondo?
Fino a un passato recente Trump sembrava l’erede dell’altra tradizione antica nel suo paese: l’isolazionismo. Le sue origini sono nobili. I coloni europei sbarcati in Nordamerica nel Seicento, e perfino alcuni Padri Fondatori della Repubblica americana nel Settecento, erano fuggiti dalle nostre guerre di religione, determinati a voltare le spalle ai conflitti fratricidi del Vecchio continente. Solo quando cominciarono la parabola di nazione emergente, a metà dell’Ottocento, gli Stati Uniti si diedero appunto la Dottrina Monroe con cui si arrogavano una sfera d’influenza allargata a tutte le Americhe. E solo nel primo Novecento con la presidenza di Theodore Roosevelt si diedero anche i mezzi militari per affermarla. Comunque l’isolazionismo rimase la dottrina dominante, fino allo «strappo» del democratico Woodrow Wilson (l’intervento nella prima guerra mondiale), e tornò ad esserlo subito dopo. Nel 1918-1920, in una nazione stremata dalla pandemia detta Spagnola e dalla recessione post-bellica, i repubblicani vollero il ritiro delle truppe americane dall’Europa e si opposero alla creazione della Lega delle Nazioni (l’antenata dell’Onu). I presidenti repubblicani del primo dopoguerra, Warren Harding e Calvin Coolidge, erano convinti che l’America avesse tutto da perdere continuando a interferire nelle contese europee. Quando sull’Europa intera si allungò lo spettro di un dominio dei totalitarismi con l’asse Hitler-Stalin-Mussolini (sì, l’Urss all’inizio stava dalla parte sbagliata), l’America si voltò dall’altra parte.
La destra Usa filo-fascista e la sinistra Usa filo-sovietica non volevano impicciarsi delle vicende europee.
Solo l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel dicembre 1941 diede a Franklin Roosevelt la forza politica per trascinare l’America in guerra. Poi di nuovo nel secondo dopoguerra una forte componente del Congresso non voleva finanziare il Piano Marshall per la ricostruzione europea e molti si opponevano alla creazione della Nato (la destra perché non voleva rischiare altre vite per difendere la libertà degli europei, la sinistra perché non credeva alle mire egemoniche di Mosca).
Un revival di quell’isolazionismo di destra c’è stato nella prima Amministrazione Trump. È fresco il ricordo delle sue polemiche contro gli alleati della Nato. In parte Trump riprendeva – con meno tatto – le accuse di tanti altri presidenti sul «parassitismo» dei partner che non investono nella sicurezza e vivono di rendita sotto la protezione degli Stati Uniti. Ma è noto che Trump prese in considerazione, almeno in linea teorica, l’uscita dalla Nato.
Dietro l’attrazione che prova per Xi Jinping e soprattutto per Vladimir Putin, oltre al fascino dell’Uomo Forte c’è dell’altro. È l’idea di un ordine globale nel quale all’America conviene ritirarsi a curare i propri stretti interessi nazionali, quindi lasciare a ciascuna superpotenza la propria sfera d’influenza imperiale. È una versione aggiornata dell’isolazionismo Anni Venti-Trenta del secolo scorso.
E ora? Il Trump Due ci spiazza di nuovo, all’isolazionismo sostituisce la Dottrina Donroe? Vedremo: siamo di fronte al mago dei bluff, delle sorprese. Per adesso siamo in una pre-sceneggiata, le decisioni concrete le vedremo dopo il 20 gennaio. Fra le tante incognite, non sappiamo quali delle nomine di Trump nel settore diplomatico e militare verranno convalidate dal Senato. Né sappiamo quanta influenza avranno questo o quel ministro o consigliere, tra i quali figurano personaggi abbastanza tradizionali come Marco Rubio. Il tasso di innovazione, o di «dirompenza», andrà misurato strada facendo. Senza dimenticare che la politica estera non è affatto una priorità di questo presidente. Io prevedo che il dossier immigrazione terrà impegnati molto di più sia Trump che l’attenzione del paese.
Però volendo agganciare la Dottrina Donroe al pensiero forte di alcuni teorici di geopolitica – come Mearsheimer – c’è qualche punto fermo su cui ragionare. Una corrente di destra della realpolitik, in dissenso con l’applicazione che ne diede Henry Kissinger quando era segretario di Stato, sostiene che l’America per tutelare i propri interessi vitali non ha alcun bisogno di fare il gendarme mondiale: la sua sicurezza è garantita da due oceani, l’assenza di nemici vicini, la ricchezza di energia e altre risorse naturali nel suo sottosuolo, il dinamismo economico e demografico, la supremazia tecnologica e finanziaria. Tuttavia gli interessi dell’America sono ovunque nel mondo: in Europa, nell’Asia-Pacifico. Abbandonare completamente la massa eurasiatica alle mire egemoniche di Cina, Russia (con l’aggiunta di imperi regionali come il persiano, il turco, l’arabo) può essere autolesionista. Sempre secondo questo pensiero geopolitico – di cui trovate delle sintesi autorevoli nelle opere del già citato Mearsheimer – per non abbandonare l’Eurasia agli imperi altrui, l’America non ha affatto bisogno di mantenere presenze militari ipertrofiche e costosissime, dilatate su quattro continenti. Può invece far leva sul «bilanciamento», una strategia che consiste nel mettere abilmente i suoi nemici gli uni contro gli altri, nonché convincere i Paesi amici (Europa, Giappone, Corea del Sud, India, Australia) che è loro interesse contenere gli imperialismi ostili e devono attivarsi in tal senso.
Calare questo teorema nella realtà, è il mestiere dei leader politici, della diplomazia, e dei militari. Fra questi c’è gente che i libri li legge, a differenza di Trump. Vedremo quale mix uscirà dalle interazioni fra tutti questi attori.
Alla fine Trump non sarà un uomo solo al comando, per la semplice ragione che l’America è troppo complicata da governare. Inoltre fra le dottrine scritte nei manuali, e le politiche concrete, la realtà s’incarica di complicare tutto. Il Trump Due sarà probabilmente un mix di tante cose: isolazionismo, Dottrina Donroe, interessi economici e pressione delle lobby. Senza dimenticare il peso dell’eredità. Sulla quale è consigliabile essere onesti. Prima di gridare allo sfascio globale ad ogni gesto di Trump, ricordiamoci in che stato è il mondo dopo quattro anni di presidenza Joe Biden. Qui Trump parte con un vantaggio: fare peggio di Biden sarà difficile, anche se non impossibile.
Cercare di estrarre un piano e una strategia dalle dichiarazioni di Trump è complicato dalla dimensione tattica e caratteriale. Le provocazioni fanno parte della sua tattica negoziale, per sbilanciare l’interlocutore, metterlo in difficoltà, estrarre il massimo di concessioni. Un suo vecchio conoscente e consigliere ha evocato il “gioco del gatto e del raggio laser”. Non ho gatti, e a prima vista mi pare un passatempo crudele, ma a quanto pare se puntate la luce del raggio laser in giro per la stanza un gatto si agita molto tentando di catturarla. Lo spettacolo offerto da alcuni governi stranieri e dai media di fronte alle recenti dichiarazioni di Trump (o di Musk) potrebbe assomigliare a una variante di quel gioco. Il ministro degli Esteri inglese ricorda che nel suo primo mandato, ben lungi dall’uscire dalla Nato, Trump addirittura aumentò le truppe Usa in Europa. Al tempo stesso però la maggioranza dei Paesi membri si diedero da fare per placarlo alzando i loro budget militari.
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