14 febbraio 2021: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Is 54,5-10; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
Chi erano i farisei e i pubblicani
Prima di commentare il brano evangelico, chiariamo chi erano i farisei e chi erano i pubblicani.
Il termine “fariseo” significa “separato”: separato da che cosa? Dal resto della gente comune. Ciò che lo separava dagli altri era la sua purità legale e cultuale: si distingueva dunque per la sua osservanza della legge e del culto, sempre nel campo strettamente religioso. Un’osservanza che era più che scrupolosa. Ogni fariseo metteva in pratica, nella vita quotidiana, i ben 613 precetti che aveva estrapolato dalla legge di Mosè, stava attento a non infrangere nessuno dei 1.521 divieti di lavori da compiere nel giorno di sabato. I farisei volevano sempre fare molto di più di quello che era prescritto, di quello che tutti quanti osservavano. Per esempio, digiunavano due volte alla settimana, esattamente il giovedì e il lunedì, in ricordo della salita e della discesa di Mosè dal monte Sinai: il digiuno di per sé era obbligatorio una sola volta l’anno, il giorno della espiazione, più altre quattro volte in ricordo di tragedie che colpirono il popolo di Israele. Ancora: i farisei pagavano le decime, non solo su quanto era prescritto, ma su quello che possedevano. Soprattutto avevano un’attenzione maniacale rispetto a ciò che era “puro” e ciò che era “impuro”. Una osservanza, dunque, scrupolosa, ma anche vissuta in senso strettamente letterale: si arrivava al punto di tradire lo spirito della legge e del culto, perdendo perciò di vista il cuore, ovvero l’amore di Dio e del prossimo. In questo senso i farisei erano fanatici e fondamentalisti. Si consideravano “giusti” per il fatto di ritenersi fedeli, ma per merito loro, alla legge e al culto, e da qui il disprezzo per gli altri. Amavano farsi vedere superiori agli altri o, forse più di tutto, auto-compiacersi.
Chi erano invece i pubblicani? Il termine “pubblicano” deriva da “publicus”, che significa “cosa pubblica”: erano i dazieri, gli esattori delle tasse, che avevano l’appalto per la loro riscossione, davano allo Stato ciò che era stabilito per legge, ma la legge stessa permetteva loro di aumentare le tariffe, per guadagnare di più, normalmente erano dei ladri autorizzati. I giudei li odiavano, non solo perché erano dei ladri, ma anche perché i pubblicani collaboravano con l’impero dominante. I giudei non li accoglievano in casa, né li avvicinavano o salutavano. Erano privati dei diritti civili e religiosi, non potevano testimoniare in tribunale e ricoprire cariche pubbliche, e non si doveva accettare da loro prestiti o doni. Il Talmud (uno dei libri sacri dell’ebraismo) afferma che, se anche un pubblicano volesse convertirsi non sarebbe possibile. Perché? Non avrebbe potuto restituire quello che aveva rubato alle numerose persone che aveva truffato. E la legge diceva che non bastava una semplice restituzione: bisognava restituire quattro volte tanto ciò che si era rubato.
Alcune riflessioni sulla parabola
Ora facciamo qualche riflessione sulla parabola. La parabola evangelica del fariseo e del pubblicano è così attuale che, ogniqualvolta la si legge, ci si dovrebbe sentire chiamati in causa. Sì, perché ciascuno di noi è un fariseo ed è anche un pubblicano, magari più fariseo che pubblicano.
Non parlo naturalmente di ruoli esteriori, ma di atteggiamenti interiori, ed è qui il punto di partenza. Saremmo già fuori strada, se leggessimo la parabola come se contrapposte tra loro fossero due persone reali e distinte.
In altre parole, in me c’è del fariseo e c’è del pubblicano. E questo lo si vede in ogni circostanza, in ogni evenienza, in ogni campo del mio agire. Ma, attenzione: già dire agire mi porterebbe lontano ancora dal fatto che il fariseo e il pubblicano che sono in me rappresentano la realtà interiore del mio essere. In me sono peccatore, e in me sono fariseo, ovvero falso credente.
È chiaro che è più facile notare i due ambigui atteggiamenti nel mio modo di agire più che nel mio modo di essere. Ma è nel mio modo di essere che è presente in radice l’atteggiamento del pubblicano e quello del fariseo.
Cerchiamo, dunque, di non portare all’estremo ovvero di radicalizzare l’atteggiamento del fariseo e quello del pubblicano, così da contrapporli tra loro come se fossero due entità separate, per evitare di trovare sempre una scusante per sentirsi estranei all’uno e all’altro, dimenticando che “in radice” siamo fatti di male, perciò siamo precari, condizionati e soggetti al male, dunque al peccato, nel senso di venire meno al bene.
Il mestiere o la professione contano poco o relativamente. Non siamo santi per il fatto di essere preti o suore o impegnati nel volontariato o siamo medici o maestri o genitori, e così non siamo peccatori per il fatto di essere a contatto col denaro o con qualcosa che già fa pensare a ciò che induce al male. Ci sono stati santi nel campo politico. Il che è tutto dire.
È dentro di noi che ha origine il bene o il male, e diciamo che il fariseismo, di cui ancora oggi si parla come atteggiamento tipico di una società fondata sul legalismo, oppure le nostre miserie morali provengono dall’ego, che talora e spesso agisce in una struttura religiosa. Non dimentichiamo che i farisei al tempo di Gesù erano credenti e si ritenevano più credenti di qualsiasi pio ebreo. E non è una cosa già provocatoria il fatto che Gesù Cristo abbia contrapposto al fariseo il pubblicano, mentre pregano nel tempio?
La parabola di Cristo riguarda un modo “diverso” di credere, ovvero di “vedere Dio”. Cristo ci invita a uscire da una ristretta e falsa struttura religiosa, ma per rientrare in quel mondo del Divino, che è tutto interiore, che, volere o no, riguarda ogni essere umano, indipendentemente da una fede religiosa e indipendentemente dal fatto che uno creda o non creda. Atei o non atei, dentro di noi siamo precari e siamo soggetti al male, e se vogliamo uscire dall’ambiguità del fariseo e del pubblicano, dobbiamo sganciarci dall’ego per unirci al Divino.
Capisco un ateo che è contro una certa visuale religiosa, ma è assurdo che si dica che Dio non esiste, riducendo tutto a pura carnalità, ovvero a una esistenza puramente materialista. Eppure basterebbe poco, rientrare in se stessi, e si scoprirebbe un altro mondo, il mondo del Divino. L’ateo inganna se stesso in quanto carnalità, ma non può ingannare il proprio mondo interiore. E se nega il proprio mondo interiore è perché gli fa comodo starsene al di fuori, vivendo una vita senza senso.
Tutti siamo credenti, perché “siamo”. Purtroppo, crediamo in una religione perché siamo carnali, e non crediamo in alcuna religione, perché siamo carnali. In altre parole, la carnalità unisce i credenti e gli atei. Che paradosso!
Mi scuso don Giorgio se pongo tanti interrogativi. Penso siano utili alla riflessione su: Dio esiste o non esiste? Su: credere o non credere? Sono credente o ateo? Chi lo stabilisce la Chiesa o il singolo? E se la Chiesa, quale? Quella carismatica o quella gerarchica? Come distinguerla? Lo preso da un articolo del 1968 su “autorità e carisma: nel Credo. “Credi tu allo Spirito santo nella santa Chiesa …?” (credo originale). O “Credi nello Spirito santo, nella santa Chiesa … ?” (credo modificato). Sono convinto che lo Spirito santo nella santa Chiesa liberi i credenti dal fideismo del fariseo e salvi gli atei dal materialismo del pubblicano. Con lo Spirito santo, la santa Chiesa avremo atei devoti e credenti infedeli. Non è quello che appare nel nostro Bel Paese? Giuliano Ferrara amico del cardinal Ruini ne è stato un esempio. Padre Livio Fanzaga e Salvini?